2020-03-18
I cinque giorni di esitazione da Roma che hanno seppellito i bergamaschi
I sindaci della provincia hanno visto salire l'onda del Covid-19 e richiesto, assieme a Regione Lombardia, misure più stringenti. Una lettera della prefettura li ha invitati a stare al loro posto. Risultato: 330 cadaveri. Cinque giorni per cambiare un destino. Quello dei paesi attorno a Bergamo, diventati in poco tempo il focolaio principale d'Italia, con le file di feretri allineati nelle chiese deserte e le croci bianche nella terra nuda; 330 morti, 3.800 contagiati e un contatore che continua, cupo, ad aggiornarsi. Eppure all'inizio di marzo sarebbe bastata la piena comprensione di ciò che stava accadendo, di quel masso che stava prendendo velocità sul declivio, per frenare la corsa del virus com'è in parte accaduto a Codogno con la zona rossa.A Bergamo no, più volte viene chiesto un cordone sanitario (dagli esperti, dai sindaci, dalla regione Lombardia) e più volte è rifiutato da Palazzo Chigi. Forse sarebbe cambiato poco, forse no. Di sicuro sin dall'ultima settimana di febbraio c'è la percezione soprattutto da parte dei medici che il nemico invisibile si sta moltiplicando proprio qui. Durante una conferenza stampa del 29 febbraio Marco Rizzi, responsabile dell'unità Malattie infettive dell'ospedale Papa Giovanni scandisce: «Attorno alla Val Seriana c'è uno dei due focolai regionali, con particolare riferimento all'ospedale di Alzano Lombardo e al comune di Nembro. La crescita rapidissima dei contagi è avvenuta qui».La dichiarazione crea apprensione per due motivi. Il governo ha da poco varato le prime misure restrittive (la chiusura di scuole e università, niente manifestazioni pubbliche, bar serrati dopo le 18) e i governatori Attilio Fontana e Luca Zaia hanno commentato: «Non bastano, serve molto di più». Inoltre l'allarme contrasta con l'invito a uscire, con le pizzate solidali, con #bergamononsiferma che un'umanità con la targa a sinistra guidata dal sindaco Giorgio Gori e dai Pinguini Tattici Nucleari favorisce a ogni livello. I primi cittadini di Alzano e Nembro temono invece per il tessuto economico, ritengono che una zona rossa soffochi l'economia del territorio. Spiega Camillo Bertocchi (Alzano): «Non chiedevamo la zona rossa, anzi ci faceva paura. Chiedevamo più restrizioni, allora avevamo Codogno in testa come massimo livello di allerta; volevamo una via di mezzo. A Roma non ci hanno concesso neppure quella».Sono giorni tesi, si incrociano le telefonate, il governatore Fontana insiste per ottenere più rigidità dal governo e far partire la zona arancione. Con l'aumentare dei contagi i sindaci del territorio cominciano a fare fronte comune. È il 2 marzo, l'epidemia galoppa ma Palazzo Chigi non ha alcuna intenzione di lasciare alla Lombardia la responsabilità di decidere in autonomia come chiudere la porta al virus. Proprio quel giorno, sui computer di tutti i primi cittadini della Bergamasca (non solo quelli di Alzano, Nembro, Codogno, Torre Boldone, Albino), invece dell'autorizzazione a coordinarsi con la Regione per mettere in atto ogni «restrizione funzionale» arriva dalla prefettura di Bergamo una circolare pesante come il piombo.«Appare evidente che di fronte a un'emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, la risposta di ogni Paese interessato da focolai di infezione, non può che essere chiara, univoca e omogenea», spiega lo scritto firmato dal prefetto Elisabetta Margiacchi. La volontà di prendere iniziative è arrivata fino al ministero dell'Interno e la nota ufficiale ne è l'implicita risposta, ribadisce chi comanda. Se non ci fosse stata nessuna pressione per blindare il territorio, e se non fosse stata pesante, il ministro Luciana Lamorgese non si sarebbe mai mosso con questo rigore. Dopo una sinfonia in burocratese che adotta-ribadisce-ricorda, la circolare sottolinea in neretto: «Il potere sindacale (del sindaco, ndr) contingibile e urgente si esaurisce nel momento in cui le circostanze dell'emergenza sanitaria richiedano un coordinamento di livello superiore, regionale o nazionale». Traduzione: state al vostro posto. In questo caso il livello superiore è nazionale perché Giuseppe Conte continua a respingere gli allarmi di Fontana (e a questo punto pure di Gori) fino al 7 marzo, la notte del primo decreto blinda-Italia. Cinque giorni persi durante i quali anche il prefetto Margiacchi contrae il coronavirus come il questore Maurizio Auriemma. Entrambi sono in quarantena e lavorano dalle abitazioni. Lunedì, facendo tesoro di quell'errore fatale, Palazzo Chigi ha autorizzato la Regione Emilia a chiudere due paesi dell'Imolese, alle porte di Bologna. In Lombardia non è accaduto. Si continua a piangere in città e in Val Seriana, sembra che Roma sia lontana milioni di chilometri. Sono morti anche due impiegati delle Poste, tenute aperte con ostinazione dallo Stato per «garantire i servizi essenziali». Hanno chiuso il Parlamento e tengono aperti gli sportelli per raccomandate che nessuno spedisce più. «Entrambe le vittime avevano lavorato fino a pochi giorni fa, uno in un centro di recapito e l'altro in un ufficio postale», spiega Marisa Adobati del sindacato Slc Cgil denunciando le condizioni di lavoro ad altissimo rischio. «È inutile esporre al contagio i colleghi, chiudete tutto. Si sta alimentando fra i lavoratori un pericoloso disagio, una mistura di paura e rabbia; qui non ci sono più servizi essenziali». Si sono trasferiti tutti negli ospedali, quando non nei cimiteri.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)