2022-06-26
I 27 signorotti di Reggio Calabria più vanitosi dei Bronzi di Riace
Il filare di ficus lungo la passeggiata Falcomatà ruba il sole alle case circostanti, tanto sono maestosi e quasi monumentali gli arbusti. Arrivati 200 anni fa dall’Australia, vogliono gareggiare in bellezza con le due statue.Gli alberi mi hanno sempre fatto paura. Non mi fido, penso sempre che passino tutta la loro vita lì, accanto alle nostre case, con le radici affondante nelle nostre strade, nelle piazze, senza mai dire nulla, senza mai farsi capire, come se ci stessero studiando per prepararsi, prima o poi, ad una sorta di rivolta. Gli alberi proprio non mi piacciono. E poi i nomi sciocchi che gli hanno dato: pino, fico, abete, palma, tiglio… pino… Pino era il nome di mio nonno, è stato il nome di mio padre, ed è il mio stesso nome. Pino De Maria. Ma anche gli altri nomi: castagno, faggio, ciliegio… non parliamo dei nomi esotici, come araucaria… come si fa a chiamare qualcosa araucaria? Un nostro lontano parente ha addirittura chiamato la figlia così, Araucaria De Maria. Vivono in Campania… povera stella, condannata per la vita!Ora, se le foreste che camminano sulle montagne sono buie e, per carità, bellissime quanto vuoi ma se ne stanno distanti, in Aspromonte, in Sila, ecco, la mania di piantar giù alberi in ogni piede quadrato di spazio che si trova nelle nostre città è qualcosa di veramente pernicioso. Ora poi, da qualche anno, il 21 novembre festeggiano anche gli alberi e così i bambini delle scuole, gli insegnanti, gli educatori dei parchi e delle riserve, i privati liberi cittadini fissati col «green», i sindaci e gli assessori comunali, provinciali, regionali, addirittura i ministri, vanno in giro a seminare alberi come se piovesse! Ma santo Iddio, ma lo volete capire che tanti alberi equivale a tanti problemi? Un albero quando lo pianti è piccolo, sta lì, al massimo magari è alto un metro e mezzo, o due, occupa ben poco spazio, ma poi questi crescono, diventano alti 10, 20, anche 30 metri! Hanno radici che dopo alcuni decenni sollevano asfalto e marciapiedi, se non ci stai attento ti fanno la sgambetto! E si intrufolano a fondo, sotto le case, nei muri, crepano muretti, sono un pericolo legalizzato. Lasciamo stare quanto sporchino, quante foglie riescano a produrre e a seminare costantemente, che ci vogliono addetti comunali soltanto per star dietro alla sporcizia che gli alberi producono soprattutto da maggio a novembre. E poi comunque sembrano totalmente indifferenti a noi, che però dobbiamo annaffiarli, dobbiamo contenerli, dobbiamo potarli, dobbiamo accarezzarli, e c’è pure chi li va ad abbracciare - osceni! - a pregare - idolatri! Atei! - a misurare - che ridicoli che siete…Pensa a quelle magnolie che crescono lungo la passeggiata Falcomatà, quei grossi alberi coi tronchi tutti piatti e grigi che sembrano enormi elefanti in cammino, in fila indiana, tra la stazione dei treni, i giardini della Villa Comunale ed il Museo Archeologico Nazionale, là dove ci sono i bronzi di Riace. Producono dei piccoli fichi che gettano a terra per mesi e non servono a niente, non sono nemmeno buoni da mangiare. Per non parlare delle foglie, una pioggia di foglie spesse e dure che ricade tutto l’anno, perché sono perenni e le foglie le tengono tutti i mesi. Certo, dopo quasi un secolo sono diventati maestosi, quasi dei monumenti. Ci sono turisti che da diverse parti d’Italia vengono qui addirittura soltanto per fotografare i nostri ficus, sì perché io le chiamo magnolie, tutti le chiamiamo magnolie, ma sono ficus, pare che siano stati importati 200 anni fa o giù di lì dall’Australia, addirittura. Prima sono arrivati a Palermo e poi sono stati diffusi in altre città, a Catania, a Siracusa, a Cagliari, a Napoli, città calde, come la nostra. Si sono evidentemente trovati quasi come se fosse casa loro. Qui addirittura si specchiano nel mare, vanitosi come sono. Grazie ai lavori di ricostruzione dopo il terremoto che ha scosso violentemente le fondamenta della città nel 1908, quando l’ingegnere Pietro De Nava ha tracciato una vera e propria striscia botanica, piantando euforbie, pini, palmizi e i ficus, che da allora sono cresciuti sempre di più e ora nascondono il sole ai palazzi che sono stati costruiti alle loro spalle. E chissà quali pensieri, quali idee legnose, quali piani stanno considerando di attuare, in questo loro piccolo regno longitudinale che rigoglisce e dove sono diventati gli unici padroni incontrastati. Un giorno sono andato lì e li ho contati uno ad uno: 27 signorotti grigi. Chiome sparate, radici tabulari, respirano col vento che si innalza dalla correnti che navigano lo stretto braccio di mare che separa la Sicilia dalla Calabria. Dall’altra parte c’è Messina, girati, eccola là. Sono diventati oramai uno dei simboli della città. Nondimeno, ovviamente lo sono i Bronzi di Riace, che vennero ritrovati da un pescatore, esattamente 50 anni fa. Questi due guerrieri neri, barbuti ed erculei, alti pochi centimetri meno di due metri, vennero disseppelliti nell’agosto del 1972, dai fondali di Riace Marina. Lo ricordo ancora, la televisione ne parlò molto! Li aveva trovati un sub romano, tale Stefano Mariottini, a circa 230 metri di distanza dalla costa. Per caso, come accadono molte cose nella vita. Ora, dopo tanti restauri sono di nuovo splendenti, nella grande sala loro dedicata al Museo Archeologico. Sono il simbolo della città, anzi sono il simbolo della Calabria. Che questa fila quasi immobile di elefanti grigi da città stia progettando un ratto delle statue? Tipo il ratto delle Sabine, o il ratto di Elena… magari sono invidiosi di tutta l’attenzione che ottengono, chissà cosa pensano gli alberi.Gli alberi non mi sono mai piaciuti. Quel loro silenzio senza appello insospettisce. Chissà cosa tramano là sotto, nelle loro radici, sotto quei quintali di legno scolpito. E chissà che cosa si dicono quando oscillano al passaggio del vento tra le fronde. Non sappiamo se sono contenti di stare in mezzo a noi, non fanno che crescere, che occupare tutto lo spazio che possono, come se l’unica ragione di vita fosse quella di costruire un mondo nel mondo, un mondo ovviamente adatto a loro, un mondo altro a loro misura e somiglianza. Gli alberi sono dei a sé stessi, senza appello, senza commenti, un poco come noi uomini, che cerchiamo di ridefinire il mondo che occupiamo secondo le nostre esigenze, ma oggi i giovani ci dicono che dobbiamo rispettare tutti gli altri abitanti, che le cose che abbiamo fatto non si fanno più. E però chi li ha messi questi alberi nel cuore delle nostre città? Chi ha assicurato loro la vita, lo spazio adeguato, chi li ha curati quando è stato il momento di farlo? Noi che saremmo stati così cattivi e insensibili e orribili? Chi ha lottato per creare le tante riserve naturali che esistono anche qui, nella nostra bella Calabria? È vero, a me gli alberi non sono mai piaciuti ma non ho mai agito contro di loro. Semplicemente non li capisco, è forse una colpa?
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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