2023-04-18
«Ho fotografato le attrici seducenti perché ritrarre gli uomini mi annoia»
Gianfranco Salis ha lavorato con i più grandi registi: «Iniziai giovanissimo sui set, dove si conoscevano donne meravigliose Il cinema mi ha dato la libertà. Ora le bellezze sono omologate: non c’è più interesse, curo il mio archivio».Gianfranco Salis, professione fotografo. Al fianco di grandi registi, come Mario Monicelli, Marco Ferreri, Nanni Loy, tra un film e un altro ha coltivato la sua vera passione, il ritratto. Con l’obiettivo, e l’illusione, di catturare la qualità umana più effimera, la bellezza, declinata esclusivamente al femminile. Come ha cominciato?«Io appartengo a quella generazione cresciuta senza televisione, per cui mio padre mi portava spesso al cinema».A Roma?«Sono cresciuto nella periferia romana. Alle medie dalle finestre della scuola si vedevano gli stabilimenti di Cinecittà. Nel 1961 sapevo che stavano girando Cleopatra, per cui marinavo molto spesso la scuola, falsificando la firma di mio padre sulle giustificazioni, mi infilavo attraverso un buco nella rete e andavo a vedere questo spettacolo meraviglioso. Dopo diversi giorni un guardiano se ne accorse, mi mandò contro dei cani, riuscii a scappare, però dissi: “Un giorno voglio entrare qui dalla porta principale”». Così è accaduto!«Questa passione per il cinema mi è rimasta, ma mia madre Italia, impiegata delle Poste, mi ha trasmesso anche l’amore per la fotografia. Appena scattavo una foto, mi riprendeva suggerendomi di farla in movimento. Poi invece ho coltivato la staticità, l’arte del ritratto».Da chi ha imparato?«A diciassette anni, avendo difficoltà a scuola, entrai nel laboratorio di Silvio Cavalieri, in via Salaria, dove andavano tutti i più grandi fotografi dell’epoca, Carlo Bavagnoli, Tazio Secchiaroli, Sergio Strizzi, Elisabetta Catalano, e osservando imparai le tecniche e le inquadrature. Sono un autodidatta».Come ha fatto a entrare da Cavalieri?«Mi mandò lì Secchiaroli, che era mio cugino, molto più grande di me. Mia mamma gli aveva regalato una Kodak Retina, con la quale Tazio iniziò a fare le fotografie, che mi è stata restituita da suo figlio David. Successivamente il fotografo Pino Abbrescia aveva bisogno di un assistente e mi chiamò. In quel periodo venivano in Italia molte attrici, ma lui mi disse: “Io fotografo i maschietti, tu le ragazze”. Andavo sotto il ponte dell’Isola Tiberina, dove le luci si rinfrangevano per il travertino, e fotografavo queste bellissime ragazze francesi, inglesi…».In che anni?«Nel ’67-’68. Poi Abbrescia conobbe due ragazzi molto ricchi che, colpiti da Blow-Up di Michelangelo Antonioni, avevano deciso di fare i fotografi, per cui trasformarono un rimessaggio delle carrozzelle a cavallo in uno studio meraviglioso, in via della Penitenza, a Trastevere. All’inaugurazione venne chiamato Umberto Eco. Gli misi una valigetta, lui ci salì sopra perché c’era tantissima gente e parlò di fotografia per dieci minuti. Nel ’69 feci il Festival di Spoleto come fotografo ufficiale, fotografando Ezra Pound, Willem de Kooning, Mario Ceroli e l’Orlando furioso di Luca Ronconi. Poi partii per il militare e dovetti ricominciare da capo».Ha intrapreso la strada del fotografo di scena sui set…«Ho iniziato di supporto a Secchiaroli, che a volte si assentava. Così ho lavorato su I clowns e su Amarcord di Fellini. Poi ho fatto una parte de Il viaggio di Vittorio De Sica, con Richard Burton e Sophia Loren. Il primo contratto che ho firmato in assoluto è stato con Pasquale Squitieri per L’ambizioso. Da lì i produttori si sono accorti della qualità delle mie foto e ho lavorato continuamente nel cinema. Ho fatto sedici film con Tinto Brass, al quale sono molto legato, come lo ero a Squitieri. La mia fantasia si è sviluppata grazie alla magia del cinema, però mi sento più ritrattista che fotografo di scena». Ha ritratto le rampolle della nobiltà romana.«Sì, nel mio studio in Passeggiata di Ripetta, Anna Chigi, Alessandra Borghese, Vittoria Odescalchi e altre. Volevo vedere per la prima volta il volto di quelle ragazze e riuscire a cogliere nell’immediatezza la loro interiorità. Più di mezz’ora non ho mai impiegato. Sono sempre stato velocissimo. Quando feci la pubblicità per il profumo Armani con Laura Morante, grazie ai miei ritratti pubblicati da Paolo Pietroni su Amica, erano presenti i rappresentanti dell’agenzia francese Cpv, ma lei non voleva essere fotografata con tutte quelle persone nello studio. Chiesi a tutti di andare al bar e quando tornarono, gli consegnai i rullini, che mandarono subito a sviluppare. Erano sbalorditi. Il direttore artistico George Schiller mi disse: “Se fossimo stati a Parigi, saremmo stati tre giorni a lavorare con cifre sbalorditive, con te in poche ore c’è l’imbarazzo della scelta!”».Anche i famosi ritratti a Margaux Hemingway e a Marisa Berenson li ha realizzati in poche ore?«In tre quarti d’ora, in Brasile, durante le riprese di Killer Fish - L’agguato sul fondo di Antonio Margheriti. Carlo Ponti, che era il produttore del film, aveva chiesto al figlio Alex di chiamare il fotografo di Vogue brasiliano: “Ho urgenza di avere due ritratti per collocare delle gigantografie al Festival di Cannes. Se lui non viene, chiedi al fotografo di scena”. A Margaux feci una ventina di foto in esterno con i capelli sciolti, poi le dissi: “Raccogliti i capelli, togli la camicetta bianca e mettiti questa mia maglia”. Si mise di profilo e fece un solo scatto. Lei era entusiasta: “Fantastic portrait”. Fedele Confalonieri scelse proprio quello come copertina del primo numero di Panorama Mese, nel settembre 1982». E Marisa Berenson?«Tra una scena e l’altra, entrammo nella hall dell’albergo, nei cui pressi giravano il film, e scattai questa foto meravigliosa a Marisa mentre i turisti le passavano accanto. Ricevetti i complimenti da Carlo Ponti tramite Alex. Pensa che Sophia Loren, la moglie di Ponti, mi concesse solo un quarto d’ora sul set di Qualcosa di biondo di Maurizio Ponzi, dopo che le avevo fatto vedere i miei lavori. Il suo ritratto è stato poi pubblicato in copertina su L’Illustrazione italiana». Tra i personaggi che ha ritratto, spiccano Ilona Staller e Moana Pozzi.«Fu merito di mia moglie Patrizia che mi disse: “Ma perché non fotografi Ilona Staller?”. “Ritratti?”. “No, prova a fare le figure intere”. La contattai tramite Riccardo Schicchi, portandogli le otto pagine di ritrattistica che erano uscite sulla rivista Amica e lui accettò immediatamente. Poi Ilona mi disse: “Perché non fotografi la mia amica Moana?”. “Non la conosco”, perché non seguivo il settore della pornografia. L’insistenza di Ilona mi spinse a fotografarla. Moana mi chiamò in continuazione per essere fotografata di nuovo, ma io le risposi: “Io non fotografo più la stessa persona”».Lei si convinse?«No! Una volta c’erano le segreterie telefoniche. Ho ancora le registrazioni dei messaggi che mi lasciava: “Ho comprato un vestito rosso bellissimo. Devi assolutamente…”. L’ho fotografata la seconda volta».Perché ci teneva tanto?«Perché le piaceva uscire dal suo personaggio, si sentiva gratificata nel porsi come una diva. Angelo Frontoni, che è stato un grandissimo fotografo, mi disse: “Sai cosa ti invidio? Che hai fotografato Ilona e Moana. Nessuno è riuscito a fare delle belle immagini a queste due pornostar. Tu lei ha rese donne meravigliose”». Com’era Moana Pozzi?«Deliziosa. Parlava lentamente, con una voce soave».Ilona Staller?«Generosa, buona, altruista, una carissima amica, una delle poche, insieme con Francesca Dellera, con cui sono rimasto in contatto. Quindici anni dopo ho rifotografato anche Ilona per vedere se riuscivo a cogliere ancora la sua bellezza. Aveva all’epoca 54 anni. Mi sembra di aver fatto un buon lavoro. Ho realizzato anni fa una mostra itinerante su Moana e ho venduto tantissime foto: a professionisti, avvocati, ingegneri, produttori. C’è un culto attorno a lei».Quali attrici l’hanno colpito particolarmente? «Più di tutte Liv Ullmann su Speriamo che sia femmina di Mario Monicelli. Anche lì brevissimi scatti, durante la pausa delle riprese. Le lasciai la foto in albergo, lei mi mandò un messaggio dicendo che era il più bel ritratto che avesse mai avuto e mi invitò a cena. Rifiutai. Su quel film ho fotografato anche Catherine Deneuve, che era stata la moglie di David Bailey ed era stata immortalata da Helmut Newton. Comunque la donna più bella che ho fotografato, su Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli, è stata Claudia Cardinale. Meravigliosa, anche come persona». Sui set fotografava anche gli attori?«Sì, con Tinto Brass meno!». È differente ritrarre un uomo rispetto a una donna?«È noioso!». Nessun attore l’ha colpito per il suo volto?«Forse Francisco Rabal».Chi avrebbe voluto fotografare? «Mia Farrow, Glenda Jackson, Charlotte Rampling. Forse l’unica attrice che avrei voluto fotografare anche in tarda età è la Rampling».Tra le attrici attuali?«Keira Knightley mi attrae e anche Cate Blanchett mi interessa molto come volto. Ora le bellezze sono tutte omologate. Mi domando: “Chi sto fotografando?”. Con l’avvento del digitale ho perso interesse. Preferisco occuparmi del mio archivio». Le è mai capitato di incontrare qualcuno per strada e…«…desiderare di fotografarla? Una zingarella che vendeva dei fiori in un ristorante e aveva un volto veramente incredibile. Ho sempre fotografato solo le persone che mi incuriosivano. Non mi sono mai interessati i soldi, i Rolex, le Porsche, solo la libertà e il piacere di fotografare quello volevo. È una scelta che non mi sono mai pentito di aver fatto. Molte attrici mi chiedevano: “Fammi un bel ritratto”. Se non mi piacevano o non le stimavo, prendevo tempo».Ha avuto degli allievi?«Ho lavorato sempre da solo. Se l’attrice portava con sé una sua truccatrice, finito il trucco, la mandavo al bar. Mentre scatto non voglio nessuno attorno, per non avere distrazioni: devo sentire l’energia che passa tra me e lei. La verità è che in studio mi annoio. Per questo non ho mai forzato per fare il fotografo nella moda o lavorare fisso per un giornale. Il cinema mi ha dato la libertà di non stare tutto l’anno a lavorare e di avere quindi il tempo per fare i miei amati ritratti».