2022-06-03
Uliano Lucas: «Ho fatto il fotoreporter quando era l’unico modo per essere liberi»
Uno dei maestri italiani del reportage: «Oggi un pugno di agenzie fornisce tutti i principali media mondiali però così si perde la capacità di scegliere uno sguardo indipendente. Per questo non vado in Ucraina».Uliano Lucas, ovvero la storia del fotogiornalismo in Italia e nel mondo. Figlio del produttore Giorgio «Geo» Agliani, che ha prodotto Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, Achtung! Banditi! di Carlo Lizzani, Terza liceo di Luciano Emmer, La cuccagna di Luciano Salce con Luigi Tenco, è cresciuto nella Milano proiettata verso il boom economico e culturale, svelandone ogni particolare con la sua inseparabile macchina fotografica. Testimone e cantore di un mondo che si stava trasformando sotto i suoi occhi, il cui crocevia era un piccolo bar nel quartiere di Brera.Com’era l’atmosfera al bar Jamaica negli anni Sessanta?«Se la racconti, si stenta a crederci. Era una Milano ancora con i segni evidenti della guerra, popolata di uomini che cercavano di ricostruire la loro storia. All’ombra dell’Accademia di Belle Arti c’era una serie di locali, bar, osterie, latterie e il mondo di Brera gravitava attorno a quelle cinque o sei vie misteriose, dove gli affitti costavano pochissimo, per cui gli artisti si mischiavano con gli operai che vivevano lì. C’erano anche le case di tolleranza, per dare un’idea».Anche lei andò a vivere lì?«No, io entrai in questo luogo mitico, il Jamaica. Avevo sedici anni. Ho un ricordo ancora preciso: era un locale piccolissimo, c’era della gente al banco a bere vino bianco, dall’altra parte gente seduta che parlava o che giocava a carte, in una baraonda incredibile di saluti, discussioni e altro. Mi avevano detto che era un locale di artisti e bohémien, mi sono seduto su una sedia, mi sono guardato in giro e ho cominciato a sentire nomi straordinari che già conoscevo en passant. Ogni mattina, se uno si sedeva lì, poteva ascoltare una lezione che andava da Mozart e la massoneria del Settecento al surrealismo, dallo spazialismo di Fontana al cinema neorealista o sovietico».Chi erano questi frequentatori del locale?«I nomi sono tantissimi: da Piero Manzoni a Enrico Castellani, da Luciano Bianciardi ad Alberto Arbasino, da Beniamino Dal Fabbro a Paolo Murialdi, da Roberto Crippa a Gianni Dova, da Nanda Vigo a Ugo Mulas, da Mario Dondero a Carlo Bavagnoli, un mondo incredibile di intellettuali, pittori, scrittori, fotografi, designer, grafici. Milano iniziava ad essere la città dell’industria culturale, per cui arrivavano poeti che due giorni dopo erano alla Feltrinelli e giornalisti che tre giorni dopo erano al Corriere della Sera. Dopo pochissimo tempo sono stato adottato da loro perché allora non c’era la divisione netta tra generazioni».L’hanno iniziata alla fotografia?«No, è stata un’adozione di ascolto. Stavo con loro, mi davano dei libri e dei giornali, andavo all’Accademia di Belle arti ad ascoltare le lezioni, una vita da autodidatta che si stava formando, con la grande fortuna di incontrare personaggi incredibili… per dire, giocavo a carte con il fratello di Antonio Gramsci, Carlo. Delle occasioni irripetibili. Una volta entrato, diventavi parte del paesaggio, la conversazione e l’amicizia erano immediati. Era anche una società di mutuo soccorso, dove non c’erano divisioni tra gli astrattisti, i cubisti, i realisti, gli spazialisti, le correnti artistiche allora in voga. Era un’allegra brigata con un grande desiderio di vivere e di cultura».Quali erano gli altri luoghi di aggregazione?«C’era un’intensa vita notturna perché i più giovani, dopo aver mangiato dalle sorelle Pirovini, che avevano una trattoria dove si mangiava tutti a dei tavoloni come fossimo in un monastero, si disperdevano per la città e frequentavano altri luoghi molto simpatici, nella periferia milanese, dove si suonava la chitarra e si discuteva. Tiravano tutti mattina, come raccontato nel libro di Umberto Simonetta, Tirar mattina. Poi arrivò l’epoca dei cabaret. Feci molto fotografie al Cab 64 di Tinin Mantegazza perché c’erano Enzo Jannacci, Cochi e Renato, Bruno Lauzi, Felice Andreasi, che saranno poi protagonista dell’epopea del Derby».Quando ha cominciato a fare il fotografo?«In maniera professionale nel 1963-64».Le prime foto a chi le ha portate?«Io ho scelto di fare il fotografo da freelance, cioè da fotografo indipendente, portando i miei reportage a giornali politici e culturali in cui mi riflettevo, dove lavoravano persone che amavo, come Arrigo Benedetti a L’Espresso, Paolo Bracaglia a Vie Nuove, Nicola Cattedra a Tempo, Pasquale Prunas a Il Messaggero, Gigi Melega a L’Europeo, Piera Pieroni ad Abitare, degli intellettuali prestati al giornalismo. Avevo capito che, tra tutte le professioni che mi si aprivano davanti, quella del reporter, anche se la più difficile, mi dava la possibilità di scegliere, di raccontare, di vivere con la macchina fotografica. Il meccanismo non era fare due foto e venderle, il compito di un reporter freelance era seguire lungamente la situazione. La fotografia intesa come una storia, un documento, uno sguardo che cerca di indirizzarti e di farti capire».Raccontare un mondo attraverso una foto...«Davanti alle fabbriche ho fotografato non l’operaio nella posa tradizionale, ma l’operaio della Fiat che andava all’università, presidiava il cancello numero 5 e parlava in pugliese. Gli ho detto: “Andiamo a casa, stiamo insieme” e mi sono fatto raccontare la sua vita. Così è nata anche la foto simbolo dell’immigrato con la valigia sotto il Pirellone. Ho cercato di cogliere le trasformazioni sociali dal 1968 in poi, nei quartieri popolari, nelle fabbriche, nelle università, negli ospedali psichiatrici. Ho pubblicato un libro che si chiamava L’istituzione armata, in cui testimoniavo la violenza del servizio militare. Mi ricordo che a Beirut gli ufficiali del contingente italiano mi guardavano stupiti perché finalmente potevano associare un volto a quelle foto. Quando comandavano le caserme nel Friuli, i soldati tiravano fuori il mio libro e dicevano: “No, nel libro di Lucas, è scritta tutta un’altra roba”. Sapevo esattamente che le foto che stavo scattando sarebbero servite agli storici del futuro. Così è stato».Ha fatto reportage in giro per il mondo.«Giravo come una trottola. Mi interessavano soprattutto le guerre di liberazione in Africa, per cui sono stato in Algeria, Guinea, Angola, Mozambico, Eritrea, ma sono stato anche in Portogallo, in Medio Oriente, in Jugoslavia, che era un osservatorio privilegiato dal punto di vista politico. Seguivo la situazione in Israele, ma contemporaneamente mi interrogavo su cosa significasse adottare bambini all’estero, fotografavo i grandi orfanotrofi in India, raccontavo in sala parto cos’è la nascita e qual è il rapporto tra la mamma e il bambino. Tutto quello che la mia curiosità mi spingeva a cercare».La stagione d’oro del fotogiornalismo quando si è conclusa?«Con la crisi dei rotocalchi. Prima partivi con il giornalista e costruivi il racconto con lui. Stando insieme per settimane, si diventava complici e si ragionava, si discuteva. Era un dialogo continuo tra comunicazione visiva e scrittura e grazie a tutto questo un giornale come L’Europeo dava otto pagine al reportage. I settimanali dell’epoca sono di una bellezza unica, basta sfogliarli in biblioteca. Io ho avvertito immediatamente i contraccolpi di questa crisi e ho capito anche che il mio sguardo stava cambiando. Allora mi sono messo a fare grandi reportage, ma con un’altra visione, finalizzati alla pubblicazione di libri e a mostre».Ha seguito anche la guerra in Jugoslavia.«Sì, l’ho seguita lungamente. C’erano stati degli scontri tra i tifosi della Stella Rossa di Belgrado e della Dinamo Zagabria (il 13 maggio 1990, ndr). A distanza di anni li ho cercati, è stato faticosissimo, e alla fine ho saputo che una ventina di tifosi serbi stavano in un ospedale militare fuori Belgrado: dopo quegli scontri erano andati a fare la guerra contro i croati, con la mentalità di chi si era esaltato vedendo i film di Rambo. Erano in questo ospedale senza gambe e senza braccia. Era una piccola storia che conteneva l’orrore di tutta la guerra».Cosa prova di fronte a quanto sta accadendo in Ucraina? Avrebbe voglia di prendere la macchina fotografica e andare lì?«No. È un’altra storia: ognuno è figlio del proprio tempo. Io ho avuto la fortuna di lavorare con assoluta libertà, non ho mai avuto censure. Oggi il sistema della comunicazione è completamente cambiato. Ai miei tempi, un redattore di un giornale poteva prendere una foto della Reuters, però poteva trovare in archivio anche le fotografie di un freelance. Non c’era una fotografia con una verità, ma tante foto, tra cui ragionare e scegliere. Oggi la figura del freelance non esiste più, ci sono cinque o sei agenzie a livello mondiale che riempiono i 250 quotidiani più importanti del mondo. È un problema di democrazia. Non hai fonti alternative, il fotografo freelance era una fonte alternativa». Adesso la foto deve avere un effetto, e un consumo, immediato…«Ti dirò di più: per capire una fotografia all’interno di un giornale devi essere colto, non nel senso di aver fatto l’università, ma devi essere in grado di cogliere una serie di riferimenti perché dentro una fotografia i segni sono tanti. Una foto decodifica la realtà. Il cinema, la letteratura, la poesia, il teatro ti aiutano a capire una foto. Se non sai cos’è la croce ortodossa, non puoi capire quel mondo. Sai adesso chi scrive in maniera straordinaria di fotografia? I sociologi, i filosofi, gli psichiatri, non certo i critici. Ogni foto contiene un ragionamento, un pensiero».