2022-08-10
La veterinaria di Kiev cura i soldati: «Con loro è più facile che con i cani»
A ridosso della città occupata di Kherson, l’esile Victoria racconta la sua esperienza: «Alla mia famiglia ho mentito, mi hanno scoperto sentendo le esplosioni al telefono. Le bombe? Ormai ci sono abituata».Niccolò Celesti dal fronte di KhersonIl suo soprannome è «uccellino», ptashka in ucraino, la incontriamo nella trincea di primo soccorso accanto al fronte di Kherson. È piccolina, con i capelli legati e un completo pantaloni e t-shirt verdi militare bene aderenti che le mettono in risalto le forme. Fuori dalla maglietta porta una collanina con un cuore diviso in due dai colori della bandiera ucraina, sorride ed i suoi occhi si fanno sempre più piccolini e luccicanti mentre le scattiamo delle fotografie.Victoria, questo è il suo nome, è sul fronte dal 15 marzo, prima a Kiev e poi qui al Sud dove stabilizza e cura le ferite dei soldati che arrivano dalle vicine trincee e vengono poi evacuati verso l’ospedale più vicino. Quando arriviamo in questa postazione sul fronte vicino ai territori occupati dai russi sta preparando del caffè per alcuni soldati che si riposano all’ombra di un albero. Questo oltre che essere un «punto giallo», come loro chiamano in gergo le aree di pronto soccorso, è anche un posto dove si passa per salutare, riposare, fare due chiacchiere.Uccellino ci racconta della situazione al fronte mentre è seduta sul suo letto ricavato all’interno di una stanza scavata a mano a circa 2 metri sotto terra. E protetta sopra con tronchi di albero e terra.Le pareti sono protette da vecchie coperte e sotto come pavimento dei pallet di legno e dei cuscini di un vecchio divano, intorno attaccato a dei chiodi ci sono gli zaini con l’equipaggiamento medico, il fucile, il giubbetto e le munizioni. «La mia famiglia», racconta, «non sapeva niente fino a 15 giorni fa, per mesi sono riuscita a far pensare a mio marito e a mia figlia, che si trovano a Malta dall’inizio della guerra, che stavo facendo la volontaria come civile a Kiev e in altri posti. Ma qui la situazione è difficile, non sapevo più come giustificare il fatto che non avessi linea e poi nelle volte in cui riuscivo a parlare al telefono sentivano i rumori delle bombe intorno. Gli ho dovuto dire dove sono e cosa faccio e ora sono tutti contro di me, dicono che devo rientrare e smetterla di mettere la mia vita in pericolo ma io non lascerò mai i miei concittadini fino a quando non finirà la guerra».Mentre la intervistiamo i colpi dell’artiglieria russa cadono tutto intorno: mentre la giovane interprete Karolina sobbalza, Victoria invece sembra proprio non sentirli. «Mi sono abituata, qui intorno i campi sono costantemente bombardati, stamattina ne è caduto uno veramente vicino a circa 200 metri e le schegge sono quelle che puoi trovare fuori vicino alla cucina, se guardi per terra le troverai», ci dice.In questo bunker effettivamente ci si sente al sicuro anche se sappiamo benissimo che è solo una sensazione, perché un missile sopra la nostra postazione farebbe diventare questo posto un unico grande cratere, è quindi un posto che ti protegge dalle schegge, e dai piccoli ordigni che vengono lanciati con i droni o dalle letali bombe a grappolo che qui, anche se vietate dalle convenzioni dell’Onu, vengono lanciate in quantità massicce.«Un altro grosso problema è il tipo di terreno con cui abbiamo a che fare», ci racconta Victoria. «Qui il terreno è argilloso, a parte i primi centimetri, poi si fa durissimo, così le pareti delle trincee reggono facilmente ma poi diventano piscine quando piove e ci troviamo spesso con i piedi nell’acqua, non voglio pensare ai ragazzi sulla linea zero, loro vivono in condizioni al limite, questa posizione in confronto è un hotel. In genere comunque la maggior parte del tempo la passiamo fuori dal bunker, nella cucina da campo che nel tempo è diventato come un salotto al fronte, se arriva una bomba saltiamo tutti nelle buche altrimenti siamo sempre intorno al fuoco a cercare di distrarci e passare il tempo. La nostra vita» , continua, «scorre aspettando una chiamata alla radio che ci dirà dove andare o chi sta arrivando, la maggior parte dei soldati viene portato qui dai propri compagni, spesso andiamo loro incontro a piedi, ma con l’equipaggiamento che abbiamo non possiamo spingerci a più di un chilometro nella loro direzione, a metà strada circa dal fronte, sopratutto io che sono piccolina e peso poco più di 45 kg, non riesco a fare più di un chilometro. Inoltre noi non possiamo andare troppo vicino alle ultime trincee, dobbiamo restare in vita per salvare le vite degli altri».Victoria vuole farci vedere il suo cane, quello che si è portato da casa, con cui sta facendo tutta la guerra fianco a fianco. Usciamo dal bunker e fuori che ci aspetta seduta c’è Aia, una grande cagnolina nera bellissima che segue perfettamente tutti i comandi della sua padrona. «In terra, seduta, gira su te tessa, dai la zampa!». Victoria ci fa vedere come ha addestrato il cane e ci racconta di come ha dovuto insegnargli a trovarsi un riparo da solo nel caso in cui arrivi una bomba, perché qui purtroppo non c’è il tempo di mettere in salvo qualcun’altro. Le chiediamo dove abbia imparato a fare questo mestiere e lei sorride ancora guardandoci. «Io sono un veterinario, ho studiato medicina generale prima e poi veterinaria, questo lavoro qui al fronte è tecnicamente più facile, fare una tracheotomia, un massaggio cardiaco, una sutura e sopratutto capire il tipo di trauma su cui intervenire velocemente è più facile che in clinica a Kiev. I soldati feriti o i loro compagni parlano, gli animali no».
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