Guerra già vinta dai big della difesa. Ai loro azionisti ora vanno 5 miliardi
La guerra tra Russia e Ucraina ha già un vincitore: le grandi aziende della Difesa. Il Financial Times ha stimato che i colossi europei, quest’anno, distribuiranno in dividendi agli azionisti la bellezza di 5 miliardi di dollari, poco meno di 4 miliardi e mezzo di euro.
Il quotidiano britannico ha commissionato il calcolo al Vertical research partners, che ha misurato la crescita delle quote destinate agli investitori a partire dallo scoppio delle ostilità nell’Est. La tendenza che si registra nel Vecchio continente è opposta a quella osservabile Oltreoceano: negli Stati Uniti, i guadagni degli stakeholder hanno raggiunto un picco decennale nel 2023, ma poi sono precipitati insieme agli investimenti.
È il motivo per cui l’amministrazione Trump ha invitato le compagnie a spendere per la produzione, anziché per il giochetto finanziario del buyback, l’operazione con cui un’azienda riacquista azioni proprie, già in circolazione sul mercato, allo scopo di sostenerne il prezzo e restituire valore ai soci.
Di certo, nel boom europeo, hanno giocato e giocheranno un ruolo importante i piani di riarmo caldeggiati da Ursula von der Leyen, anche se la crescita più imponente delle remunerazioni, quest’anno, riguarda Bae systems, il colosso inglese dell’aerospazio, che con Italia e Giappone realizzerà il caccia multiruolo stealth di sesta generazione.
Il fattore trainante, comunque, è stato da subito il conflitto nel Donbass: dal 2022, la percentuale di investimenti delle società europee, misurata in rapporto al fatturato, è passata dal 6,4 al 7,9. Eppure, il crescente volume di spesa pubblica destinata alla difesa potrebbe rappresentare una controindicazione, per chi sguazza nell’affare d’oro e vorrebbe continuare a nuotarci più a lungo possibile: gli esperti sentiti dal Financial Times hanno notato che, se le somme sborsate dagli Stati salgono, «dati gli impegni di spesa annunciati dai governi, essi potrebbero diventare più coinvolti» nelle politiche industriali dei big del settore. La mano pubblica è croce e delizia: imprime una spinta decisiva al business; ma pretenderà di mantenere voce in capitolo sulla sua direzione.
Le proiezioni del giornale economico londinese confermano quali sono gli obiettivi del programma di riconversione produttiva perseguito dall’Ue. Era urgente, infatti, porre rimedio al rischio di desertificazione industriale, provocato dal Green deal. In sostanza, Ursula 2 mette una pezza su Ursula 1. Le convergenze all’Europarlamento tra sovranisti e popolari stanno, in parte, stemperando gli aspetti più estremi della transizione ecologica. Il danno, però, era fatto. Ora, le imprese messe in crisi dai diktat verdi potranno recuperare i benefici perduti buttandosi sugli armamenti. Si potrebbe sorvolare, se il processo garantisse un incremento dei redditi e se non comportasse rischi esistenziali. Tuttavia, non è detto che i posti di lavoro che andranno perduti, ad esempio, nell’automotive - il caso più eclatante riguarda le chiusure di impianti decise da Volkswagen - saranno riassorbiti dal comparto bellico, dove è più alta l’automazione e dove sono più specifiche le competenze richieste. Il risultato finale potrebbe essere questo: buon livello dei salari, sì, però per meno occupati; più profitti per i grossi gruppi; più dividendi per gli azionisti.
Per preparare il terreno, ovviamente, era fondamentale alimentare la retorica marziale che, ormai, infiamma tutti i discorsi degli eurocrati, dalla Von der Leyen stessa, a Kaja Kallas, ai diversi leader dei Paesi membri dell’Unione. Ed è qui che entra in ballo la variabile del pericolo mortale: a furia di scherzare con il fuoco, ci si può bruciare. Quella della guerra con la Russia potrebbe diventare una profezia che si autoavvera. È il famoso dilemma della sicurezza: l’effetto paradossale del riarmo non è di proteggere chi si trincera, bensì di rendere il mondo complessivamente meno sicuro, poiché aumenta la chance di incomprensioni e incidenti tra potenze rivali.
Nel discorso di commiato dalla nazione, il 17 gennaio 1961, il presidente Usa, Dwight Eisenhower, mise in guardia i cittadini dalle insidie del «complesso militare-industriale», che sarebbe stato in grado di esercitare una «influenza totale nell’economia, nella politica, anche nella spiritualità», minacciando «la struttura portante» della società. Oggi, quello scenario si va ricostituendo sotto i nostri occhi. Con tanto di marginalizzazione del dissenso, come denunciato dal Papa: chi non infila l’elmetto viene ridicolizzato, o accusato di intelligenza col nemico. Non mancano nemmeno i dotti editoriali, nei quali si glorifica la guerra quale motore della Storia. Sessantacinque anni fa, «Ike» individuava l’antidoto alla degenerazione in un popolo «all’erta e consapevole». Non ci si può aspettare che vigili chi incassa grazie allo spauracchio di Putin. È a noialtri, che tocca restare svegli.





