2024-12-30
Guardiamoci dal razzismo degli antirazzisti
Chi contesta il totalitarismo islamista viene denigrato da quella stessa sinistra che chiude gli occhi verso l’antisemitismo montante. La vera divisione oggi non è tra destra e sinistra, ma tra chi ama la libertà e chi vuole conculcarla per non «offendere» nessuno.Come giustamente diceva Linus, l’amichetto di Charlie Brown, quello della coperta, «il mondo si divide in buoni e cattivi e i buoni decidono chi sono i cattivi». Questa frase, che genialmente riassume l’ideologia woke, può essere applicata anche all’antirazzismo. Il mondo si divide in antirazzisti e razzisti, e gli antirazzisti decidono chi sono i razzisti. Razzista è l’insulto ultimo, quello che squalifica chiunque, gli tappa la bocca, lo rende un risibile cialtrone. È l’insulto contro chi contrasta l’islam. Nel 2006 in seguito alla violentissima reazione al discorso di Ratisbona di Benedetto XVI, lo storico francese Robert Redeker scrisse un articolo su Le Figaro che esemplificava come nell’islam la violenza sia strutturale, strutturalmente contenuta nella vita di Maometto e nel Corano. Fu la Lega antirazzista che fece scoppiare lo scandalo e mise su internet l’indirizzo di Redeker, che fu immediatamente sfrattato, e del suo liceo, che si precipitò a licenziarlo. Fu grazie a questi campioni dell’antirazzismo che la vita di un uomo onesto, intelligente e coraggioso, reo di aver scritto la verità, è diventata la vita di un braccato. Anche Oriana Fallaci è stata accusata di razzismo da una sinistra compatta e folle, che ha calpestato in tale occasione tutti i suoi principi, o, forse ha dimostrato che i suoi principi erano di facciata. La distinzione tra destra e sinistra ebbe luogo per la posizione dei deputati dopo la Rivoluzione francese. È una delle possibili distinzioni in politica, una delle tante, ce ne sono altre più importanti, quella tra dittature e democrazie, per esempio, quella tra coloro che sono disposti a morire per la libertà di parola e quelli che la considerano un discutibile optional, assolutamente abrogabile quando può offendere la sensibilità di qualcuno. Importante è la posizione del comunismo sul razzismo. Il comunismo è ideologicamente migliore del nazismo, ma gli è straordinariamente simile psicologicamente. La base neurobiologica del nazista tipo è la stessa del funzionario sovietico: una spietata ferocia e il desiderio di dominare, basato su un complesso di inferiorità irrisolvibile. Il nazismo dice la verità: vogliamo conquistare il mondo e distruggere gli ebrei, è scritto sul Mein Kampf. Il comunismo mente: si spaccia per il protettore dei popoli, ma in realtà condivide tutti i punti del nazista doc, solo che è abbastanza intelligente per non dirlo ad alta voce. È fondamentale, in questo momento in cui dobbiamo opporci al totalitarismo islamico, salvando non solo la vita dei nostri figli e la terra dei nostri padri, ma anche i popoli che l’islam tiene in ostaggio, capire la storia, capire che lo scontro di civiltà del Ventesimo secolo non è stato comunismo contro nazifascismo, ma democrazie contro totalitarismi. I totalitarismi tra loro si amano. Il nazismo e il fascismo su suolo europeo oramai sono morti, il comunismo no, e ora il suo profondo e radicato razzismo sta infiltrando tutta la sinistra europea, che ha raggiunto livelli indegni, come mai prima. Il vittimismo palestinese è la chiave di volta per il rilancio di un razzismo antisemita genocidario. I nazisti sterminano gli ebrei direttamente, nei campi di sterminio, perché li odiano, essendo affetti da uno stramaledetto complesso di inferiorità. I comunisti sovietici sono russi, quindi hanno nella loro storia l’antisemitismo ortodosso e quello zarista, più lo stramaledetto complesso di inferiorità dell’analfabeta russo dei secoli passati nei confronti dell’alfabetizzato ebreo. Non osano sterminare gli ebrei direttamente, ma lo fanno per interposta persona. Armano, eccitano, scatenano i Paesi arabi contro Israele: la guerra sarà una guerra di sterminio: in caso di vittoria Israele sarà distrutta, i suoi abitanti sterminati. Siamo venuti a finire il lavoro, dicevano le ex SS che addestravano egiziani e siriani. Israele non esisterà più, berciava Nasser. Israele rifiutò di morire: il piccolo Stato talmente scalcinato che non era nemmeno in grado di consegnare la posta, dove un quinto degli abitanti, e quindi dei soldati, non parlava né l’ebraico né l’inglese, vinse in sei giorni. È il 1967. L’antisemitismo sovietico si scatenò. In Polonia gli ebrei sono espulsi da università ed esercito, in Russia possono evitarlo solo se fanno pubblica affermazione di odio contro Israele. Il secondo tentativo di sterminio è la guerra del Kippur: tutti contro Israele, di nuovo armati dai russi che hanno fornito i sistemi radar e di protezione che disarmano il contrattacco israeliano. Dopo un’iniziale catastrofe, Ariel Sharon salva la baracca e vince la guerra, e l’odio contro gli ebrei si scatena. I partiti comunisti diventano ovunque l’avvocato del popolo palestinese, l’ultimo buon selvaggio rousseauiano rimasto al mondo. L’Urss è crollata, le ex guardie rosse dirigono le fabbriche dove si montano la bambola Barbie e le auto elettriche che piacciono a Greta, il Vietnam è un gigante industriale... L’odio isterico di tutta una sinistra storicamente sconfitta, assolutamente incapace di una riforma vera che dovrebbe nascere da un’ammissione di colpe, che non c’è mai stata, si è rifugiato nell’odio per Israele. I dati sui bambini morti a Gaza sono falsi, ormai è ufficiale che siano falsi. Sorprendente che si creda a terroristi che godono nell’assassinare i bambini. Molti obietteranno che è sufficiente un unico bambino morto sotto un bombardamento per indignarsi. Sono gli stessi che i bambini cristiani ammazzati nel Sud Sudan e quelli ammazzati in Nigeria non li hanno nemmeno mai visti. Gli unici che interessano sono i bambini palestinesi perché è grazie a loro che l’antisemitismo può essere rilanciato: è bizzarro che la responsabilità sia di Israele. Se i palestinesi restituissero gli ostaggi e smettessero di sparare missili, nessun bambino palestinese morirebbe. Nessuno di quei bambini sarebbe morto se avesse avuto accesso ai tunnel sotterranei che sono rifugi antiaerei. Quello palestinese è un regime folle e criminale che impedisce l’accesso a civili e soprattutto ai bambini ai rifugi antiaerei. Come ha spiegato il compianto capo di Hamas, più bambini palestinesi muoiono, maggiore è l’odio contro Israele. Un popolo che ha scritto sulla sua Costituzione, articolo 1, che intende distruggere lo Stato di Israele, e all’articolo 7 che intende uccidere ogni ebreo nel mondo, condanna i suoi figli. I palestinesi hanno regalato al mondo il terrorismo internazionale, sono quelli che hanno inventato il terrorismo suicida e hanno perfezionato il mito nazifascista del bambino soldato col mito ripugnante del bambino terrorista suicida. Ogni terrorista suicida, classificato come martire, fornisce alla sua famiglia migliaia di dollari. Con commovente sprezzo del ridicolo si continua a parlare di due popoli e due Stati. Ai palestinesi era già stato offerto uno Stato costituito dal 97% dei cosiddetti territori occupati, Gaza, Gerusalemme est come capitale. Hanno risposto con la seconda intifada. Un’entità che ha come articolo 1 il desiderio distruggere una nazione, oltretutto forte e armata, sta condannando i suoi figli a una guerra perenne e folle. Israele ha causato 30.000 morti, in maggioranza miliziani, in più di un anno di guerra e non è riuscito né a ricuperare gli ostaggi né a far cessare il lancio di missili. Churchill avrebbe fatto 150.000 morti in un giorno come a Dresda, e ridotto gli altri alla resa in 40 ore. Tutte le mattine gli israeliani si svegliano perché i palestinesi non hanno potuto ucciderli. Tutte le mattine i palestinesi si svegliano perché gli israeliani non hanno voluto ucciderli. Chi, privo di contraerei, spara missili contro un vicino che ha un’aviazione militare è un miserabile che non vuole evitare la morte dei propri figli.
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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