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2019-08-29
Grillo sembra Monti: «Ministri solo tecnici»
Ansa
Luigi Di Maio consegna 334 parlamentari grillini ostaggio del Pd: «Siamo sempre stati un movimento post ideologico, abbiamo sempre pensato che non esistano schemi di destra o sinistra ma solo soluzioni. Ci hanno accusato dell'essere dell'una o dell'altra parte. Questi schemi sono ampiamente superati». Quindi ha citato lo storico leader socialista Pietro Nenni: «Qualcuno nella storia ha detto che in politica ci sono sempre due categorie di persone, quelli che la fanno e quelli che ne approfittano». L'ex vicepremier grillino diventa un responsabile uomo politico e annuncia l'accordo con il Pd perché il «M5s non si sottrarrà alle sue responsabilità». Con la voce roca degli ultimi giorni Di Maio esce dal colloquio con il presidente Sergio Mattarella e sembra aver abbandonato lo standing del grillino ribelle per indossare i panni del capo politico che non dà peso ai malumori interni al suo M5s in questi giorni di trattativa difficile e piena di ostacoli, soprattutto per il suo ruolo futuro. «Abbiamo detto che l'Iva non aumenterà e manterremo questo impegno. Il nostro programma è sempre lo stesso, quello votato da 11 milioni di italiani. Abbiamo iniziato un lavoro e vogliamo portarlo a termine», ha ribadito elencando ancora una volta i 10 punti che dovranno far parte di «un programma omogeneo» (niente più contratti) del governo che verrà. Poi il racconto della crisi attaccando la Lega: «Sessanta milioni di italiani hanno vissuto questo agosto nell'incertezza assoluta. La crisi è stata innescata da una forza politica che ha staccato la spina al governo di Giuseppe Conte. Una forza politica ha staccato la spina al governo dopo il rimborso ai truffati delle banche, il reddito di cittadinanza, nuove politiche sull'immigrazione e che si era guadagnato il rispetto europeo». E poi una bordata: «La Lega mi ha informato di voler proporre me come premier», rivela Di Maio, «e di aver informato anche le istituzioni». E ancora: «Grazie, rifiuto questa proposta con serenità e ringraziando chi l'ha avanzata. Anche se non rinnego il lavoro fatto insieme in questi 14 mesi. A me interessa il meglio per il Paese, non per me». Una confidenza che ha svelato i piani del Carroccio per ricucire lo strappo, mentre Salvini, all'uscita dal colloquio, aveva detto che l'unica via possibile dopo la crisi era il voto. Di Maio ha sottolineato di aver rinunciato a fare il premier anche dopo il 4 marzo e di aver aperto a Conte: «Grazie alla mia rinuncia da premier, l'Italia ha conosciuto Giuseppe Conte, il M5s è andato al governo. Come ho fatto allora, anche oggi rifiuto l'offerta della Lega. Quel che conta è che l'Italia sia sempre più forte, anche a livello internazionale, e il riconoscimento di ieri di Donald Trump ci fa capire che siamo sulla strada giusta». Insomma, doppia rinuncia ma poi nessuna smentita sulle voci che lo vogliono ancora intestardito per restare vicepremier, al punto di rischiare di far saltare la trattativa: «Se nelle prossime ore il presidente della Repubblica affidasse l'incarico al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, chiederò che si parta dal programma e solo dopo si potrà decidere chi sarà chiamato a decidere le politiche concordate». Di Maio non dice di aver rinunciato a fare il braccio destro di Conte, malgrado il niet del Pd, né di non voler andare al ministero della Difesa (come i grillini ritengono che meriti).
Da oggi riparte il toto nomine ma anche il voto online sulla piattaforma Rousseau. Vedremo se Giggino manterrà l'aplomb quirinalizio dopo che ieri mattina aveva già preso una sberla dal nuovo alleato di governo Nicola Zingaretti, che aveva detto al presidente: «Sì a Conte premier, no staffette e passaggi di testimoni». Infatti fin dall'incontro della mattina il nodo Di Maio vicepremier non veniva sciolto con il Pd irremovibile: «Conte è il premier ma lo schema a due vice non c'è più». Una doccia fredda per Di Maio che sembrava lanciare il suo grido di dolore: «Si pensi a soluzioni, non a colpire me. Ognuno dovrebbe dimostrare responsabilità in queste ore difficili per il Paese, perché ci siamo ritrovati in una crisi di governo senza un perché per colpe che non sono del M5s».
In serata Beppe Grillo, fondatore del M5s, pubblica sul blog un intervento in pieno stile Mario Monti che ha il sapore dello stop alle ambizioni di Di Maio: «È l'occasione», dice, «di dimostrare a noi stessi e agli altri che le poltrone non c'entrano: i ministri vanno individuati in un pool di personalità del mondo della competenza, assolutamente al di fuori dalla politica». Apriti cielo, l'uscita dell'«elevato» scoppia come una bomba nelle stanze del vicepremier grillino. Tanto che paiono una corsa ai ripari le ricostruzioni fatte filtrare nelle agenzie su un ravvedimento del comico. Come questa dell'Ansa: «Nel corso di una telefonata di questa sera Grillo, secondo fonti vicine all'ex comico e al capo politico, ha sottolineato a Di Maio che è lui ad avere titolo per decidere la squadra. «Sei tu il capo politico, e decidi tu per il Movimento, il mio è stato un paradosso». Ma la pezza sembra peggio del buco.
Il Movimento non vuole alleati dem alle prossime elezioni regionali
Non piace proprio, alla base calabrese del Movimento 5 stelle, la proposta dem di allargare l'alleanza M5s-Pd anche alle prossime elezioni regionali. Il segretario Nicola Zingaretti l'aveva prospettato già alcuni giorni fa e ieri ha ribadito la proposta nel corso della direzione nazionale del Partito democratico, convocata al Nazzareno per spiegare le ragioni che hanno portato il Pd a un accordo con i grillini, in vista della formazione del governo giallorosso.
Fra poche settimane si terranno le elezioni regionali in Umbria. Poi, a stretto giro, anche in Calabria, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna. In funzione di ciò - in linea con le indiscrezioni che arrivavano dalla trattativa a Roma - domenica scorsa il senatore democratico Ernesto Magorno, ex segretario regionale del Pd calabrese, aveva «aperto» alla possibilità di un accordo con i pentastellati, anche per le elezioni in Calabria, che dovrebbero tenersi entro fine novembre, alla scadenza, cioè, del quinquennio in cui la regione meridionale è stata governata dal centrosinistra.
La sortita di Magorno però non è affatto piaciuta ai grillini calabresi, i quali specie sul Web, hanno rispedito al mittente l'invito. Ma non solo sui social network è stata bocciata la proposta del senatore dem. L'europarlamentare Laura Ferrara, esponente di spicco del Movimento 5 stelle in Calabria, con una nota stampa, senza mezzi termini, ha preso le distanze dalla proposta gelando l'esponente del Pd: «Noi apriamo a liste civiche vere (e non finte) e nessuna alleanza è prevista con nessun partito», ha seccamente replicato l'eurodeputata calabrese. Si sono susseguiti, quindi, i commenti di grillini calabresi contrari all'ipotesi di accordo con i dem per le prossime elezioni regionali. «Siamo tutti in attesa degli imminenti sviluppi della crisi di governo, e vedremo se si riuscirà a dar vita ad un esecutivo col Pd. Ma sia chiaro che l'alleanza governativa non potrà trovare alcuna possibilità di essere replicata per le regionali in Calabria, dove il Partito democratico è il padre dello sfascio prodotto dall'ultimo e dai precedenti periodi di governo della regione». Così ha commentato Francesca Menechino, capogruppo pentastellata al consiglio comunale di Amantea (Cosenza). Ma ci sono stati tantissimi altri «no» arrivati dalla base grillina calabrese, che di un accordo con il Pd per le regionali non vuole sentir parlare: in Calabria, senz'altro, prevalgono nel M5s i pareri contrari al patto locale col Partito democratico. I grillini calabresi sono in maggioranza più vicini alla linea dei loro big di livello nazionale Alessandro Di Battista, Gianluigi Paragone e Davide Barillari, che hanno espresso forti perplessità rispetto alla decisione dei vertici del Movimento di allearsi con i democratici.
Nelle regioni del Sud, inoltre, c'è molta preoccupazione per un'eventuale inversione di tendenza rispetto alla problematica dei flussi migratori. Calabria e Sicilia sono i territori più esposti a tale fenomeno, e il successo della Lega e di Matteo Salvini a quelle latitudini è indubbiamente legato a determinate decisioni in tema di sbarchi.
In base a queste prese di posizione, in Calabria il piano di Zingaretti per sfilare il «Movimento 5 stelle dall'abbraccio delle destre» parte decisamente in salita.
Il quadro politico calabrese, a pochi mesi dal voto per il rinnovo del consiglio regionale, è oltremodo confuso. Il Pd nazionale ha scaricato l'attuale governatore dem, Mario Oliverio, causando una spaccatura interna al partito fra favorevoli e contrari a una sua ricandidatura. Sul fronte del centrodestra c'è molta attesa per la direzione che imboccherà la Lega, che ancora non ha sciolto le riserve su un eventuale sostegno al candidato governatore di Forza Italia, Mario Occhiuto, già sceso in campo.
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Riduci
Luigi Di Maio al Colle: «Salvini mi ha offerto la premiership per tornare con lui, ho rifiutato». Poi arriva il post del comico che sembra far fuori il leader: «Al governo servono competenti, i politici facciano i sottosegretari». Quindi precisa: «Parlo di dicasteri specifici». Il Movimento non vuole alleati dem alle prossime elezioni regionali. Oltre ai ribelli Gianluigi Paragone e Alessandro Di Battista, anche la base calabrese rifiuta di fare patti. Lo speciale comprende due articoli. Luigi Di Maio consegna 334 parlamentari grillini ostaggio del Pd: «Siamo sempre stati un movimento post ideologico, abbiamo sempre pensato che non esistano schemi di destra o sinistra ma solo soluzioni. Ci hanno accusato dell'essere dell'una o dell'altra parte. Questi schemi sono ampiamente superati». Quindi ha citato lo storico leader socialista Pietro Nenni: «Qualcuno nella storia ha detto che in politica ci sono sempre due categorie di persone, quelli che la fanno e quelli che ne approfittano». L'ex vicepremier grillino diventa un responsabile uomo politico e annuncia l'accordo con il Pd perché il «M5s non si sottrarrà alle sue responsabilità». Con la voce roca degli ultimi giorni Di Maio esce dal colloquio con il presidente Sergio Mattarella e sembra aver abbandonato lo standing del grillino ribelle per indossare i panni del capo politico che non dà peso ai malumori interni al suo M5s in questi giorni di trattativa difficile e piena di ostacoli, soprattutto per il suo ruolo futuro. «Abbiamo detto che l'Iva non aumenterà e manterremo questo impegno. Il nostro programma è sempre lo stesso, quello votato da 11 milioni di italiani. Abbiamo iniziato un lavoro e vogliamo portarlo a termine», ha ribadito elencando ancora una volta i 10 punti che dovranno far parte di «un programma omogeneo» (niente più contratti) del governo che verrà. Poi il racconto della crisi attaccando la Lega: «Sessanta milioni di italiani hanno vissuto questo agosto nell'incertezza assoluta. La crisi è stata innescata da una forza politica che ha staccato la spina al governo di Giuseppe Conte. Una forza politica ha staccato la spina al governo dopo il rimborso ai truffati delle banche, il reddito di cittadinanza, nuove politiche sull'immigrazione e che si era guadagnato il rispetto europeo». E poi una bordata: «La Lega mi ha informato di voler proporre me come premier», rivela Di Maio, «e di aver informato anche le istituzioni». E ancora: «Grazie, rifiuto questa proposta con serenità e ringraziando chi l'ha avanzata. Anche se non rinnego il lavoro fatto insieme in questi 14 mesi. A me interessa il meglio per il Paese, non per me». Una confidenza che ha svelato i piani del Carroccio per ricucire lo strappo, mentre Salvini, all'uscita dal colloquio, aveva detto che l'unica via possibile dopo la crisi era il voto. Di Maio ha sottolineato di aver rinunciato a fare il premier anche dopo il 4 marzo e di aver aperto a Conte: «Grazie alla mia rinuncia da premier, l'Italia ha conosciuto Giuseppe Conte, il M5s è andato al governo. Come ho fatto allora, anche oggi rifiuto l'offerta della Lega. Quel che conta è che l'Italia sia sempre più forte, anche a livello internazionale, e il riconoscimento di ieri di Donald Trump ci fa capire che siamo sulla strada giusta». Insomma, doppia rinuncia ma poi nessuna smentita sulle voci che lo vogliono ancora intestardito per restare vicepremier, al punto di rischiare di far saltare la trattativa: «Se nelle prossime ore il presidente della Repubblica affidasse l'incarico al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, chiederò che si parta dal programma e solo dopo si potrà decidere chi sarà chiamato a decidere le politiche concordate». Di Maio non dice di aver rinunciato a fare il braccio destro di Conte, malgrado il niet del Pd, né di non voler andare al ministero della Difesa (come i grillini ritengono che meriti). Da oggi riparte il toto nomine ma anche il voto online sulla piattaforma Rousseau. Vedremo se Giggino manterrà l'aplomb quirinalizio dopo che ieri mattina aveva già preso una sberla dal nuovo alleato di governo Nicola Zingaretti, che aveva detto al presidente: «Sì a Conte premier, no staffette e passaggi di testimoni». Infatti fin dall'incontro della mattina il nodo Di Maio vicepremier non veniva sciolto con il Pd irremovibile: «Conte è il premier ma lo schema a due vice non c'è più». Una doccia fredda per Di Maio che sembrava lanciare il suo grido di dolore: «Si pensi a soluzioni, non a colpire me. Ognuno dovrebbe dimostrare responsabilità in queste ore difficili per il Paese, perché ci siamo ritrovati in una crisi di governo senza un perché per colpe che non sono del M5s». In serata Beppe Grillo, fondatore del M5s, pubblica sul blog un intervento in pieno stile Mario Monti che ha il sapore dello stop alle ambizioni di Di Maio: «È l'occasione», dice, «di dimostrare a noi stessi e agli altri che le poltrone non c'entrano: i ministri vanno individuati in un pool di personalità del mondo della competenza, assolutamente al di fuori dalla politica». Apriti cielo, l'uscita dell'«elevato» scoppia come una bomba nelle stanze del vicepremier grillino. Tanto che paiono una corsa ai ripari le ricostruzioni fatte filtrare nelle agenzie su un ravvedimento del comico. Come questa dell'Ansa: «Nel corso di una telefonata di questa sera Grillo, secondo fonti vicine all'ex comico e al capo politico, ha sottolineato a Di Maio che è lui ad avere titolo per decidere la squadra. «Sei tu il capo politico, e decidi tu per il Movimento, il mio è stato un paradosso». Ma la pezza sembra peggio del buco. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/grillo-sembra-monti-ministri-solo-tecnici-2640089618.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-movimento-non-vuole-alleati-dem-alle-prossime-elezioni-regionali" data-post-id="2640089618" data-published-at="1765633033" data-use-pagination="False"> Il Movimento non vuole alleati dem alle prossime elezioni regionali Non piace proprio, alla base calabrese del Movimento 5 stelle, la proposta dem di allargare l'alleanza M5s-Pd anche alle prossime elezioni regionali. Il segretario Nicola Zingaretti l'aveva prospettato già alcuni giorni fa e ieri ha ribadito la proposta nel corso della direzione nazionale del Partito democratico, convocata al Nazzareno per spiegare le ragioni che hanno portato il Pd a un accordo con i grillini, in vista della formazione del governo giallorosso. Fra poche settimane si terranno le elezioni regionali in Umbria. Poi, a stretto giro, anche in Calabria, Veneto, Toscana ed Emilia Romagna. In funzione di ciò - in linea con le indiscrezioni che arrivavano dalla trattativa a Roma - domenica scorsa il senatore democratico Ernesto Magorno, ex segretario regionale del Pd calabrese, aveva «aperto» alla possibilità di un accordo con i pentastellati, anche per le elezioni in Calabria, che dovrebbero tenersi entro fine novembre, alla scadenza, cioè, del quinquennio in cui la regione meridionale è stata governata dal centrosinistra. La sortita di Magorno però non è affatto piaciuta ai grillini calabresi, i quali specie sul Web, hanno rispedito al mittente l'invito. Ma non solo sui social network è stata bocciata la proposta del senatore dem. L'europarlamentare Laura Ferrara, esponente di spicco del Movimento 5 stelle in Calabria, con una nota stampa, senza mezzi termini, ha preso le distanze dalla proposta gelando l'esponente del Pd: «Noi apriamo a liste civiche vere (e non finte) e nessuna alleanza è prevista con nessun partito», ha seccamente replicato l'eurodeputata calabrese. Si sono susseguiti, quindi, i commenti di grillini calabresi contrari all'ipotesi di accordo con i dem per le prossime elezioni regionali. «Siamo tutti in attesa degli imminenti sviluppi della crisi di governo, e vedremo se si riuscirà a dar vita ad un esecutivo col Pd. Ma sia chiaro che l'alleanza governativa non potrà trovare alcuna possibilità di essere replicata per le regionali in Calabria, dove il Partito democratico è il padre dello sfascio prodotto dall'ultimo e dai precedenti periodi di governo della regione». Così ha commentato Francesca Menechino, capogruppo pentastellata al consiglio comunale di Amantea (Cosenza). Ma ci sono stati tantissimi altri «no» arrivati dalla base grillina calabrese, che di un accordo con il Pd per le regionali non vuole sentir parlare: in Calabria, senz'altro, prevalgono nel M5s i pareri contrari al patto locale col Partito democratico. I grillini calabresi sono in maggioranza più vicini alla linea dei loro big di livello nazionale Alessandro Di Battista, Gianluigi Paragone e Davide Barillari, che hanno espresso forti perplessità rispetto alla decisione dei vertici del Movimento di allearsi con i democratici. Nelle regioni del Sud, inoltre, c'è molta preoccupazione per un'eventuale inversione di tendenza rispetto alla problematica dei flussi migratori. Calabria e Sicilia sono i territori più esposti a tale fenomeno, e il successo della Lega e di Matteo Salvini a quelle latitudini è indubbiamente legato a determinate decisioni in tema di sbarchi. In base a queste prese di posizione, in Calabria il piano di Zingaretti per sfilare il «Movimento 5 stelle dall'abbraccio delle destre» parte decisamente in salita. Il quadro politico calabrese, a pochi mesi dal voto per il rinnovo del consiglio regionale, è oltremodo confuso. Il Pd nazionale ha scaricato l'attuale governatore dem, Mario Oliverio, causando una spaccatura interna al partito fra favorevoli e contrari a una sua ricandidatura. Sul fronte del centrodestra c'è molta attesa per la direzione che imboccherà la Lega, che ancora non ha sciolto le riserve su un eventuale sostegno al candidato governatore di Forza Italia, Mario Occhiuto, già sceso in campo.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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