
I 52 episodi inediti del cartone, nato da una serie francese di libri per bambini, saranno visibili a partire dal 12 aprile su Rai Yoyo. Ambientalisti «ante litteram» e poco amanti del lavoro, per la loro capacità di cambiare forma i personaggi ricordano i grillini.Guardiamo il positivo: almeno sarà contenta Greta Thunberg, che magari si sbarazzerà di quella sua aria truce, perennemente accigliata. Sì, perché il ritorno sullo schermo dei Barbapapà, celebre cartoon francese nato negli anni Settanta e che narra le vicissitudini della «più pop delle famiglie», è anche il ritorno di una serie green ante litteram. Il merito, si fa per dire, è tutto di Talus Taylor, ideatore insieme ad Annette Tison di quelli che, prima di divenire cartoni animati, erano libri. Il passaggio televisivo non si è però fatto attendere, con Barbapapà che ha fatto compagnia a generazioni; ora il ritorno, che avrà luogo in anteprima su RaiPlay da sabato, con il boxset dei primi 26 episodi, per poi iniziare ufficialmente su Rai Yoyo a partire da lunedì.Le alte probabilità che il cartone possa incontrare il gradimento della Thunberg, dicevamo, sono basate sulla vocazione intrinsecamente ambientalista della famiglia protagonista. Che, per volontà del citato Taylor, è da considerarsi pioniera della sensibilità green. Non è un caso che già i libri da cui la serie trae ispirazione affrontassero il tema dell'inquinamento spiegando il concetto, all'epoca emergente, di energia rinnovabile. A rendere la serie animata sostenibile, si direbbe oggi, ha contribuito pure la Tison, la quale ha voluto alloggiare i personaggi non già in un grattacielo e neppure in un contesto urbano, bensì in campagna e per giunta in un'abitazione ecologica. Non solo. Nelle creature colorate protagoniste delle puntate si può rinvenire pure, in nuce, il pensiero di Serge Latouche, l'economista - anch'egli francese - della cosiddetta «decrescita felice», ossia della riduzione controllata di consumi, emissioni e in definitiva lavoro; o forse - dubbio amletico -, è stato il cartone animato ad ispirare Latouche? Chissà. Sta di fatto, ecco il punto, che nessuno dei componenti della variopinta famiglia, per usare un eufemismo, si ammazza di lavoro, anzi. Infatti di Barbapapà, il blob rosa che funge da capofamiglia, sappiamo che ama la pittura e l'arte, mentre Barbamamma al massimo arriva a darsi alla tessitura, e tra i sette figli troviamo intellettuali, musicisti, amanti della natura.Quello dall'impiego più usurante è il giallo Barbazò, di professione veterinario. Per il resto, è dura non confondere il mondo dei Barbapapà con una trasposizione per bambini dei «Figli dell'amore eterno», la comunità hippie frequentata da Ruggero, il giovane nullafacente interpretato da Carlo Verdone nel film Un sacco bello. Ma non è finita. Un'altra caratteristica tipica di questi cartoni - e che, a ben vedere, ha una valenza educativa dubbia - consiste nella loro nota capacità di cambiare forma. Previa formuletta di rito - «resta di stucco, è un barbatrucco» -, i componenti della famiglia assumono infatti le sembianze utili a ogni determinata situazione. Se non si può parlare di un'antropologia basata sul trasformismo poco cambia. Tanto che proprio a Barbapapà ha fatto riferimento la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni, in una dichiarazione del gennaio scorso, per descrivere l'allora premier Giuseppe Conte. «Conte», ha detto la presidente di Fdi, «è perfettamente in grado di assumere la forma che chiede il suo mandante. Come Barbapapà: prima di destra, poi di sinistra, poi socialista, prima a favore poi contro l'immigrazione clandestina, prima amico di Salvini, poi di Renzi». Più che infierire sull'ex premier, si potrebbe, stabiliti quelli economici in Latouche, individuare i lineamenti politici del cartoon francese nell'intero Movimento 5 stelle, forza politica capace di buttarsi tra le braccia dell'odiato «partito di Bibbiano», il Pd, senza esitazioni pur di tirare a campare.In effetti, la famiglia Barbapapà sfoggia appieno tutte le caratteristiche della Weltanschauung grillina: è ambientalista, non ha molta voglia di lavorare, cambia a seconda delle circostanze, non esprime un vero e proprio pensiero. Insomma, il sospetto che da giovane Beppe Grillo possa avere avuto un debole per la serie animata francese è, in realtà, ben più che un sospetto. La sola cosa forse da salvare di questa saga riguarda l'atteggiamento della famiglia che ne è protagonista ossia, per usare una parola abusatissima, la sua resilienza. Qualunque sia il problema, i Barbapapà mantengono sempre la calma e non si arrendono mai. E infatti trovano sempre la soluzione a qualsiasi problema.Si potrebbe dire che, in questo senso, sono anche molto italiani per quanto riguarda l'arte di arrangiarsi. Certo, tra il sapersela in qualche modo cavare e l'essere capaci di dare un contributo di qualità alla società, ce ne passa. Visto però il momento assai critico che stiamo attraversando sotto numerosi punti di vista - da quello sanitario a quello economico - forse la vocazione resiliente che echeggia in Barbapapà non va sottovalutata. Per il resto, lo abbiamo detto, il cartoon ha ben poco da dire, configurandosi come una gran passerella di forme e colori che intrattiene, distrae, a tratti pure diverte. Ma i contenuti educativi, che dovrebbero stare a cuore a viale Mazzini, son ben altra cosa.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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