2025-02-28
L’Ue non è «nata per fregare gli Usa». Ma oggi è una grana per lo Zio Sam
Tusk e Metsola rispondono all’accusa di Trump, storicamente infondata. Però ora i fondamentali economici dell’Unione, nata per volere di Washington in chiave anti-Mosca, sono diventati un problema per Donald & C.L’Unione europea è stata «creata per fregare gli Stati Uniti», come ha detto due giorni fa il presidente di questi ultimi? Le frasi di Donald Trump da ormai dieci anni continuano a essere prese alla lettera, ma non sul serio. E così la giornata di ieri è trascorsa a consegnare agli archivi roboanti dichiarazioni con cui smentire la la Casa Bianca. «L’Ue non è stata creata per fregare nessuno», ha detto il presidente di turno dell’Unione - ed ex presidente del Consiglio Ue -, il polacco Donald Tusk. «Non vogliamo fregare nessuno. Naturalmente, allo stesso tempo, siamo pronti a tutto», ha minacciato Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo. Parole sostanzialmente inutili che nascondono gli unici due problemi meritevoli di affronto. Il primo: la frase di Trump è vera se riferita alle origini della Comunità europea? Risposta sommaria: no, semmai il contrario. Il secondo: è vera adesso? Altra risposta sommaria: abbastanza, e non da oggi.È ormai acclarato da una bibliografia consolidata che i primi passi dell’unificazione economica di alcuni Paesi europei nascono sotto la spinta politica e i massicci finanziamenti degli apparati americani: il Comitato americano per l’Europa unita (Acue), sorto nel 1948, foraggia i movimenti federali in un’ottica politica che punta ad accertarsi che beni e merci del Piano Marshall garantiscano un blocco - e un mercato - geopoliticamente ostile all’Unione sovietica ed economicamente essenziale per assorbire la produzione americana. Come spiega alla Verità il professor Piero Graglia, ordinario di storia alla Statale di Milano e presidente del collegio didattico del corso in scienze internazionali e istituzioni europee, «nel periodo 1945-1960 gli Usa accompagnano e sostengono la Ceca, pure all’inizio vista con una certa diffidenza, e la Cee, passando per l’aborto dell’esercito europeo, in cui credono con estrema convinzione fino all’ultimo. In questi anni gli Usa coprono d’oro movimenti europeisti e federalisti in Europa, poi chiudono i rubinetti tornando a forme più consuete e tradizionali di finanziamento delle forze politiche europee “utili”».All’inizio degli anni Sessanta, però, inizia a cambiare qualcosa nel senso sparacchiato da Trump. Gli archivi della John Fitzgerald Kennedy Library di Boston, alla data del 20 agosto 1961, registrano il National security action memorandum n. 76, inviato da Jfk al sottosegretario George Ball, recante come oggetto: «Uk membership in common market». Due anni prima di essere ucciso, il presidente chiedeva chiarimenti sui possibili «effetti avversi» di un’adesione britannica alla Cee. «Siamo stati nella condizione di appoggiare il mercato comune per motivi politici, ma se tale processo dovesse avere effetti avversi su di noi, un bel carico di responsabilità verrebbe depositato fuori dalla nostra porta…». Ecco, per la prima volta, affacciarsi da fonte autorevolissima l’impressione di un calcolo sbagliato, o almeno l’ipotesi di un esperimento che possa sfuggire di mano nella tutela degli interessi americani per cui è nato, malgrado un racconto agiografico tenda a ripetere la favola dei «padri fondatori» di un’Europa fieramente autonoma rispetto a Washington. Sempre Graglia spiega così la fase successiva: «Nixon colpisce al cuore gli europei con la decisione del 1971 di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, accompagnata dalla decisione di imporre tariffe del 10% sulle importazioni verso gli Usa. Il sistema delle valute europee, imperniato sul dollaro, salta completamente, ma Nixon non se ne cura più di tanto: America first, comprate americano. Trump non ha inventato nulla». Si può considerare come inscrivibile in questa dialettica anche l’avventura di Maastricht e della moneta unica (preceduta dallo Sme), avversata sul piano scientifico dai maggiori economisti americani ma considerata utile a consolidare più o meno gli stessi obiettivi del Dopoguerra una volta chiusa la Guerra fredda: un’area di sbocco blindata dal cambio prima semi-fisso e poi fisso, difendibile ed espandibile via Nato, da giustapporre al disgregato impero sovietico. In estrema sintesi gli obiettivi americani e quelli della tecnocrazia europea iniziano qui a prendere strade sempre meno compatibili. Sul piano geopolitico il XXI secolo segna il tentativo di una «terzietà» dell’Unione, documentata del resto dalle aperture tedesche verso Russia (energia) e Cina (export) con velleità di accompagnare un processo di de-dollarizzazione del mondo. La cartina di tornasole economico-finanziaria di questo moto è rappresentata da quel surplus che la Germania (grazie all’euro e al dominio politico esercitato sull’Ue) accumula nell’era Merkel, e che le ultime amministrazioni americane considerano fumo negli occhi, meno fastidioso solo di quello di Pechino. Nel 2017 l’allora capo del Consiglio per il commercio del Trump I, Peter Navarro, puntava già il dito lì: «Lo squilibrio strutturale degli scambi che la Germania ha con il resto dell’Ue e con gli Usa riflette l’eterogeneità economica dell’Ue. Berlino continua a sfruttare altri Paesi con quello che è un marco tedesco implicito fortemente sottovalutato». L’esperimento è sfuggito di mano forse al di là delle preoccupazioni di Kennedy nel ’61. Ieri, il Trump 2.0 ha ribadito: «Non ci piace come ci tratta l’Unione europea. Ci sono problemi sulla bilancia commerciale. I dazi tra saranno reciproci», prima di definire, in faccia al premier inglese, Keir Starmer, «positiva» la Brexit del 2016. L’Unione europea non è stata creata per fregare gli Stati Uniti, ma oggi non è considerata esattamente un assetto da difendere a tutti i costi. Prenderne atto è una buona idea.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)