2022-11-17
«Nella cooperazione internazionale conta più l'immagine che il beneficio effettivo»
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Nicolò Govoni (www.nicologovoni.com)
Nicolò Govoni, scrittore e direttore di Still I Rise: «Il mondo del non profit è un settore e, come tutte le industrie, gode di un capitale immenso, che ogni anno viene prodotto, spostato e speso. Quando lo guardi dall’esterno appare come qualcosa di eroico, di molto bello e speranzoso. Scoprire che invece c’è così tanta opacità e così tanta politica non può che spezzarti il cuore».Nicolò Govoni è un giovanissimo «scrittore e attivista per i diritti umani», come si definisce. Classe 1993, è il presidente e direttore esecutivo dell’organizzazione non-profit Still I Rise. Il suo nome è stato addirittura proposto per il Nobel per la pace nel 2020. Sono già usciti diversi suoi romanzi, l’ultimo, Ogni cambiamento è un grande cambiamento, appena un mese fa. Interviene spesso sui social con immagini e riflessioni. Ne ha riservato una piuttosto piccante al settore della cooperazione, il post iniziava così: «il settore della cooperazione internazionale fa schifo e va smantellato e ricostruito completamente. Ho trovato più onestà tra le multinazionali che tra le Ong» e finiva con «Se non fosse per Still I Rise - che ha fatto comunque i suoi errori e ha i suoi problemi da risolvere - non lavorerei mai nell’umanitario. Preferirei lavorare per Amazon - sì, Amazon - dove almeno sarei onesto sulla mia mancanza di etica, la mia avidità e la mia sete di potere, anziché fingere bontà ma pensare comunque solo ai soldi, alla carriera e allo status». Non male.Govoni, il settore della cooperazione internazionale è veramente disonesto?«No. Il settore della cooperazione internazionale è un contenitore e in quanto tale non può essere onesto o disonesto. Non ha questa facoltà. Le persone e le realtà all’interno di questo contenitore possono essere più o meno oneste, ma non si può fare di tutta l’erba un fascio: anche quando faccio le mie accuse e lancio i miei appelli, cerco sempre di diversificare. Come scrivo spesso, infatti, ci sono organizzazioni che stimo all’interno di questo settore e organizzazioni dalle quali mi discosto. Purtroppo, si fa sempre una retorica che trovo semplicistica, ingenua e politicizzata sul settore, e che quindi si presta a strumentalizzazioni, con una retorica che vuole da una parte tutti angeli, dall’altra tutti demoni: nella vita quasi niente è mai così e di sicuro non lo è nemmeno in questo settore».I professionisti del settore sono generalmente preparati ed esperti?«All’interno della cooperazione ci sono professionisti pazzeschi, delle persone preparatissime ed espertissime. Il problema non è questo. Il problema è la gerarchia di valori e di qualità che vengono più o meno selezionate».In che senso?«Spesso e volentieri se abbiamo sullo stesso piano una persona del Sud globale, quindi una persona con la pelle non bianca, di cultura non europea o nordamericana, e una persona invece che è bianca, del Nord globale, europea o nordamericana, entrambe con abilità eguali, una delle due prenderà molti più soldi dell’altra. Non è una questione di preparazione, è una questione di mentalità, di discriminazione, ovviamente, e di come spesso la cooperazione internazionale voglia sì aiutare, ma con un approccio paternalistico e una matrice neoimperialista - magari inconscia in alcuni casi, mentre in altri certamente no. Questo penso sia molto triste, specialmente nel 2022. Un approccio di questo tipo comporta anche che in posizioni di potere - magari non ai vertici, ma in posizioni manageriali - vengano messe persone meno qualificate di altre invece più qualificate, semplicemente perché si allineano a parametri preferiti, che siano di nazionalità-cultura, o che siano di politica interna (o esterna) all’organizzazione». Tanti soldi e poca trasparenza. Tutte le risorse vanno a chi si dovrebbe aiutare?«Tanti soldi, assolutamente. Il mondo del non profit è un settore e, come tutte le industrie, gode di un capitale immenso, che ogni anno viene prodotto, spostato e speso. È un settore che non ha nulla a che fare con l’immagine nella mentalità comune italiana del prete missionario, che è una realtà solo parziale della cooperazione, e non la rappresenta. Quanto però alla domanda circa le risorse, non devo dirlo io: è un fatto numerico, quantificato, ed è una ricerca che deve essere fatta sui resoconti che pubblica la maggior parte delle organizzazioni, soprattutto quelle più grandi. Sappiamo che molte spendono tantissimo in costi di gestione e raccolta fondi, e questo è problematico. Ma lo sappiamo perché c’è una trasparenza nell’essere poco efficienti, perché per legge è richiesta la rendicontazione pubblica». È un argomento spesso trattato da un punto di vista di opinione… «Sappiamo che ci sono disfunzioni forti. Bisogna però parlarne nel merito, andare a controllare i vari rendiconti, capire da dove vengono i soldi, dove vanno i soldi, come vengono spesi, dove e perché, e in questo modo farsi un’idea più scientifica della questione. Esattamente come posso vederlo io, lo può vedere chiunque altro. Poi noi possiamo vederlo anche sul campo, quindi possiamo avere una visione più qualitativa sulla spesa e sull’efficacia dei programmi avviati con quel denaro, in alcuni casi più per beneficio d’immagine che per il beneficio delle persone che si dice di aiutare. Questa di sicuro è una realtà, ma si può partire da quelle documentazioni che sono disponibili pubblicamente e che ci permettono di avere una visione più propria e analitica di come vengono gestiti i fondi nelle varie realtà». Ha dichiarato che «Il settore dell’aiuto umanitario - e così tanti degli individui che lo compongono - è una delle delusioni più grandi della mia vita». Perché?«Quando lo guardi dall’esterno, specialmente se sei giovane, il settore della cooperazione appare come qualcosa di eroico, di molto bello e speranzoso, utopistico, quasi, composto da persone che sono davvero impiegate per cambiare il mondo, per salvare le persone, per creare qualcosa di migliore e più giusto. Scoprire che invece c’è così tanta opacità e così tanta politica non può che spezzarti il cuore, in un certo senso. In quella dichiarazione mi riferivo a ciò che ho vissuto personalmente, quando ero un ragazzo universitario che sognava di lavorare nelle Nazioni Unite perché pensava che fosse veramente la personificazione dell’ideale dei diritti umani per tutti. Poi invece mi sono scontrato con una realtà che in teoria rimane fedele a quei principi, ma in pratica non sempre ci riesce: l’ho visto in più Paesi, in più contesti, declinato in vari personaggi, e questo delude. Vorrei chiudere però con una nota di speranza: anche nella cooperazione io voglio credere. Voglio credere che per ogni persona che si trova dove si trova per interessi economici, politici o di carriera e che quindi sono altri rispetto all’aiuto umanitario, ci sia anche una persona che lavori in questo settore perché ci tiene veramente ed è pazza abbastanza da pensare di poter cambiare il mondo. È grazie a queste persone che il settore potrà essere rivoluzionato, smantellato e ricostruito, un giorno».
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