Burkina, Mali e Niger lasciano l’Ecowas e chiudono a Roma. La più grande minaccia al Piano Mattei sono i colpi di Stato.
Burkina, Mali e Niger lasciano l’Ecowas e chiudono a Roma. La più grande minaccia al Piano Mattei sono i colpi di Stato.A chi avanza critiche pregiudiziali verso il Piano Mattei del governo vale la pena ricordare un dettaglio non da poco. L’ultimo governo a interessarsi di Africa, Maghreb e Sahel è stato quello di Silvio Berlusconi. Il 30 agosto 2008 l’allora premier azzurro e Muammar Gheddafi firmarono il trattato di amicizia e partenariato. Ratificato poco dopo dai rispettivi Parlamenti. Teoricamente ancora in vigore, quel testo era così all’avanguardia che meno di tre anni dopo la Francia con il supporto di Barack Obama si diede da fare per farlo saltare. Impegno profuso fino in fondo con l’uccisione di Gheddafi. Da lì in avanti i governi a maggioranza piddina o a guida tecnica (che fa poca differenza) hanno accettato un progressivo disimpegno. La politica si è sfilata lasciando l’impegno e gli sforzi in mano all’intelligence e alla diplomazia militare. Al di là dei risultati portati avanti dai due comparti, appare chiaro che spetta a chi governa fare dell’Africa un tema strategico destinando progetti, impegno e denaro da investirvi. Questo è quello che sta accadendo in queste settimane e ore. Ciò non significa che i risultati siano già in tasca. Ma di certo sta a indicare che l’Italia ha compreso la strada e ci si sta incamminando. Ciò va riconosciuto a Giorgia Meloni e al suo staff.Altro elemento strategico sta nella scelta dei fondi. Primo, destinare al Piano Mattei i miliardi previsti per il fondo sul clima è una mossa corretta. Nessuno può smentirci e al tempo stesso cercheremo di rendere utili fondi che sarebbero finiti in nulla. Altro aspetto riguarda la cooperazione e lo sviluppo. Ogni anno i governi (media dell’ultimo decennio) stanziano circa 4,5 miliardi per la cooperazione e lo sviluppo. Il 70% va a finire nel fiume dei progetti multilaterali. Gestiti quindi da organismi come la Banca mondiale, il Fmi o l’Europa. Soldi che arrivano nei Paesi terzi senza la nostra bandiera. Inoltre meno del 40% dei fondi complessivi è destinato all’Africa. D’ora in avanti ben 2 miliardi dei 4,5 andranno nel Sahel e nel Continente nero e tutti per via bilaterale. Cioè con la nostra bandiera. Facile immaginare come cambierà la musica. Sarà il governo a decidere a quali governi e a quali tribù mandare i soldi. Assicurandosi un legittimo ritorno strategico. Detto questo corre l’obbligo di raccontare anche le spine che già si intravedono all’orizzonte. Il Piano Mattei è ambizioso e quindi sarà difficile da mettere a terra e inoltre sarà ostacolato proprio da chi non vuole venga messo a terra. Non possiamo non notare che proprio al centro del Continente ci sia un buco geopolitico. Formato da quei Paesi vittime di golpe negli ultimi tre anni. La notizia è di domenica sera. Burkina Faso, Mali e Niger hanno rotto le relazioni economiche con il resto del Continente abbandonando Ecowas, la comunità economica del West Africa. Le tre giunte militari hanno dichiarato nulla l’associazione dopo 49 anni di partecipazione sostenendo che abbia perso la propria spinta al terzomondismo. Dietro la scelta c’è la chiara mano di Mosca che ha sostenuto due dei tre golpe e che da un po’ di tempo fa a gara con l’Iran per acquisire forza a Niamey. La decisione di rompere i rapporti economici si intreccia anche con le frizioni generatesi con la Nigeria, uno dei membri di maggior peso dell’Ecowas. Abuja lo scorso anno aveva cercato di mettere insieme una forza militare per intervenire in Niger contro i golpisti, i quali a loro volta accusano la Nigeria di agire per conto di una potenza occidentale. Il riferimento è alla Gran Bretagna. Risultato, nessuno dei quattro Paesi citati sopra ha deciso di partecipare all’evento romano e collaborare al Piano Mattei. Sono frizioni opposte. Entrambe premono però per mantenere il caos nel Sahel. Lungi da noi confrontare o paragonare gli sforzi della Global Britain con quelli di Vladimir Putin, dei cinesi e dell’Iran. Preme però sottolineare che la Brexit si sente anche in Africa e l’impostazione multipolare che deriva dalla guerra in Medio Oriente finirà per abbattersi anche sull’Africa. La guerra sempre più diffusa si basa su tre pilastri. Il primo è il dominio sulle infrastrutture energetiche e logistiche. Tubature, porti e passaggi marittimi. Il secondo è il possesso di terre rare, ma qui la Cina ha praticamente vinto. Terzo, il controllo delle materie prime critiche. Si tratta di volta in volta di grano, uranio, piuttosto che gas o petrolio. C’è da aspettarsi un interessante ritorno al nucleare e quindi il Niger sarà campo di battaglia ancora più di oggi. Gas e petrolio sono temi ricorrenti che però devo fare posto al resto delle materie prime necessarie per le rinnovabili. Per l’Italia si apre invece un settore sul quale potrebbe esserci meno concorrenza, almeno tra Paesi occidentali. L’agroalimentare, nel quale siamo all’avanguardia. Resta l’incognita dei colpi di Stato. Il rischio è di investire due anni in un Paese e quando si tratta di raccogliere i frutti (ambo lati) arriva una terza nazione che finanzia un golpe e in un attimo si vanificano gli sforzi. Per questo serviranno più fondi alla Difesa, più elasticità in capo allo Stato maggiore e riteniamo anche un passo in avanti nel campo della guerra ibrida. Come abbiamo già scritto, la possibilità per l’Italia e l’Europa di dotarsi di compagnie militari private che tutelino secondo regole locali gli sforzi delle aziende italiane.
Agostino Ghiglia e Sigfrido Ranucci (Imagoeconomica)
Il premier risponde a Schlein e Conte che chiedono l’azzeramento dell’Autorità per la privacy dopo le ingerenze in un servizio di «Report»: «Membri eletti durante il governo giallorosso». Donzelli: «Favorevoli a sciogliere i collegi nominati dalla sinistra».
Il no della Rai alla richiesta del Garante della privacy di fermare il servizio di Report sull’istruttoria portata avanti dall’Autorità nei confronti di Meta, relativa agli smart glass, nel quale la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci punta il dito su un incontro, risalente a ottobre 2024, tra il componente del collegio del Garante Agostino Ghiglia e il responsabile istituzionale di Meta in Italia prima della decisione del Garante su una multa da 44 milioni di euro, ha scatenato una tempesta politica con le opposizioni che chiedono l’azzeramento dell’intero collegio.
Il sindaco di Milano Giuseppe Sala (Imagoeconomica)
La direttiva Ue consente di sforare 18 volte i limiti: le misure di Sala non servono.
Quarantaquattro giorni di aria tossica dall’inizio dell’anno. È il nuovo bilancio dell’emergenza smog nel capoluogo lombardo: un numero che mostra come la città sia quasi arrivata, già a novembre, ai livelli di tutto il 2024, quando i giorni di superamento del limite di legge per le polveri sottili erano stati 68 in totale. Se il trend dovesse proseguire, Milano chiuderebbe l’anno con un bilancio peggiore rispetto al precedente. La media delle concentrazioni di Pm10 - le particelle più pericolose per la salute - è passata da 29 a 30 microgrammi per metro cubo d’aria, confermando un’inversione di tendenza dopo anni di lento calo.
Bill Gates (Ansa)
Solo pochi fanatici si ostinano a sostenere le strategie che ci hanno impoverito senza risultati sull’ambiente. Però le politiche green restano. E gli 838 milioni versati dall’Italia nel 2023 sono diventati 3,5 miliardi nel 2024.
A segnare il cambiamento di rotta, qualche giorno fa, è stato Bill Gates, niente meno. In vista della Cop30, il grande meeting internazionale sul clima, ha presentato un memorandum che suggerisce - se non un ridimensionamento di tutto il discorso green - almeno un cambio di strategia. «Il cambiamento climatico è un problema serio, ma non segnerà la fine della civiltà», ha detto Gates. «L’innovazione scientifica lo arginerà, ed è giunto il momento di una svolta strategica nella lotta globale al cambiamento climatico: dal limitare l’aumento delle temperature alla lotta alla povertà e alla prevenzione delle malattie». L’uscita ha prodotto una serie di reazioni irritate soprattutto fra i sostenitori dell’Apocalisse verde, però ha anche in qualche modo liberato tutti coloro che mal sopportavano i fanatismi sul riscaldamento globale ma non avevano il fegato di ammetterlo. Uscito allo scoperto Gates, ora tutti possono finalmente ammettere che il modo in cui si è discusso e soprattutto si è agito riguardo alla «crisi climatica» è sbagliato e dannoso.
Elly Schlein (Ansa)
Avete presente Massimo D’Alema quando confessò di voler vedere Silvio Berlusconi chiedere l’elemosina in via del Corso? Non era solo desiderare che fosse ridotto sul lastrico un avversario politico, ma c’era anche l’avversione nei confronti di chi aveva fatto i soldi.
Beh, in un trentennio sono cambia ti i protagonisti, ma la sinistra non è cambiata e continua a odiare la ricchezza che non sia la propria. Così adesso, sepolto il Cavaliere, se la prende con il ceto medio, i nuovi ricchi, a cui sogna di togliere gli sgravi decisi dal governo Meloni. Da anni si parla dell’appiattimento reddituale di quella che un tempo era la classe intermedia, ma è bastato che l’esecutivo parlasse di concedere aiuti a chi guadagna 50.000 euro lordi l’anno perché dal Pd alla Cgil alzassero le barricate. E dire che poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi delle denunce dei redditi aveva portato a conclusioni a dir poco sor prendenti. Dei 42,6 milioni di dichiaranti, 31 milioni si fanno carico del 23,13 dell’Irpef, mentre gli altri 11,6 milioni pagano il resto, ovvero il 76,87 per cento.
In sintesi, il 43 per cento degli italiani non paga l’imposta, mentre chi guadagna più di 60.000 euro lordi l’anno paga per due. Di fronte a questi numeri qualsiasi persona di buon senso capirebbe che è necessario alleggerire la pressione fiscale sul ceto medio, evitando di tartassarlo. Qualsiasi, ma non i vertici della sinistra. Pd, Avs e Cgil dunque si agitano compatti contro gli sgravi previsti dal la finanziaria, sostenendo che il taglio dell’Irpef è un regalo ai più ricchi. Premesso che per i redditi alti, cioè quello 0,2 per cento che in Italia dichiara più di 200.000 euro lordi l’anno, non ci sarà alcun vantaggio, gli altri, quelli che non sono in bolletta e guadagnano più di 2.000 euro netti al mese, pare davvero difficile considerarli ricchi. Certo, non so no ridotti alla canna del gas, ma nelle città (e quasi sempre le persone con maggiori entrate vivono nei capoluoghi) si fa fatica ad arrivare a fine mese con uno stipendio che per metà e forse più se ne va per l’affitto. Negli ultimi anni le finanziarie del governo Meloni hanno favorito le fasce di reddito basse e medie. Ora è la volta di chi guadagna un po’di più, ma non molto di più, e che ha visto in questi anni il proprio potere d’acquisto eroso dall’inflazione. Ma a sinistra non se la prendono solo con i redditi oltre i 50.000 euro. Vogliono anche colpire il patrimonio e così rispolverano una tassa che punisca le grandi ricchezze e le proprietà immobiliari. Premesso che le due cose non vanno di pari passo: si può anche possedere un appartamento del valore di un paio di milioni ma, avendolo ereditato dai geni tori, non avere i soldi per ristrutturarlo e dunque nemmeno per pagare ogni anno una tassa.
Dunque, possedere un alloggio in centro, dove si vive, non sempre è indice di patrimonio da ricchi. E poi chi ha una seconda casa paga già u n’imposta sul valore immobiliare detenuto ed è l’I mu, che nel 2024 ha consentito allo Stato di incassare l’astronomica cifra di 17 miliardi di euro, il livello più alto raggiunto negli ultimi cinque anni. Milionari e miliardari, quelli veri e non immaginati dai compagni, certo non hanno il problema di pagare una tassa sui palazzi che possiedono, ma non hanno neppure alcuna difficoltà a ingaggiare i migliori fiscali sti per sottrarsi alle pretese del fisco e, nel caso in cui neppure i professionisti sia no in grado di metterli al riparo dall’Agenzia delle entrate, possono sempre traslocare, spostando i propri soldi altrove. Come è noto, la finanza non ha confini e l’apertura dei mercati consente di portare le proprie attività dove è più conveniente. Quando proprio il Pd, all’e poca guidato da Matteo Renzi, decise di introdurre una flat tax per i Paperoni stranieri, migliaia di nababbi presero la residenza da noi. E se domani l’imposta venisse abolita probabilmente andrebbero altrove, seguiti quasi certamente dai ricconi italiani. Del resto, la Svizzera è vicina e, come insegna Carlo De Benedetti, è sempre pronta ad accogliere chi emigra con le tasche piene di soldi. Inoltre uno studio ha recentemente documentato che l’introduzione negli Usa di una patrimoniale per ogni dollaro incassato farebbe calare il Pil di 1 euro e 20 centesimi, con una perdita secca del 20 per cento. Risultato, la nuova lotta di classe di Elly Schlein e compagni rischia di colpire solo il ceto medio, cancellando gli sgravi fiscali e inasprendo le imposte patrimoniali. Quando Mario Monti, con al fianco la professoressa dalla lacrima facile, fece i compiti a casa per conto di Sarkozy e Merkel , l’Italia entrò in de pressione, ma oggi una patrimoniale potrebbe essere il colpo di grazia.
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