2024-08-27
La Carta permette a tutti di esprimersi anche se fanno dei «discorsi d’odio»
La Costituzione non stabilisce confini a ciò che si può dire Certe cose saranno disdicevoli, però non possono essere reati.Pietro Dubolino, Presidente di sezione emerito della Corte di Cassazione Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, proclamato e garantito (teoricamente) dall’articolo 21 della Costituzione, si estende anche a quelli che oggi vengono comunemente definiti gli «hate speeches» (discorsi di odio)? Si potrebbe essere istintivamente portati a rispondere di no, come vorrebbero coloro che, definendo «discorsi di odio» tutte le manifestazioni di pensiero non in linea con i dogmi del «politicamente corretto» (omosessualismo, genderismo, immigrazionismo etc.), pretendono che le stesse non possano rientrare fra quelle tutelate dalla citata norma costituzionale. Le cose, però, stanno un po’ diversamente. Per averne un’idea può essere utile prendere le mosse dall’esistenza, nell’ordinamento italiano, dell’articolo 415 del codice penale nella parte in cui prevede come reato la pubblica istigazione «all’odio fra le classi sociali»; una condotta, quindi, che ben potrebbe essere, oggi, qualificata anch’essa come «discorso di odio», a prescindere da ogni considerazione circa la inattualità della visione politica sulla base della quale era stata, a suo tempo, ritenuta opportuna la creazione della norma anzidetta. Ebbene, tale norma, con la sentenza della Corte costituzionale numero 108 del 1974, è stata dichiarata incostituzionale proprio perché ritenuta in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, fatta salva la sua applicabilità nel solo caso in cui la pubblica istigazione sia commessa «in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». Ciò significa, quindi, che, in linea di principio, anche i «discorsi di odio» godono della tutela costituzionale e possono costituire illecito (penale o anche di altra natura), solo a condizione che da essi nasca il concreto pericolo di condotte materiali autonomamente previste nell’ordinamento giuridico come meritevoli di sanzione; tra esse, ad esempio, quelle che, nella stessa citata sentenza della Corte costituzionale, sono indicate come «violente reazioni contro l’ordine pubblico». Il principio, tuttavia, non ha trovato applicazione, in epoca più recente, con riguardo ad altri «discorsi di odio», quali possono essere definiti anche quelli previsti dall’articolo 3 della legge numero 654/1975 (ora trasfuso nell’articolo 604 bis del codice penale) che vieta e sanziona penalmente «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». La Corte di cassazione, infatti, con la sentenza numero 37581del 2008, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di costituzionalità della suddetta norma per contrasto con l’articolo 21 della Costituzione facendo leva soprattutto sul fatto che essa è stata introdotta in adempimento di un obbligo internazionale, derivante dall’adesione dell’Italia alla Convenzione di New York del 7 marzo 1966 contro la discriminazione razziale. Ad un tale argomento, per la verità, si sarebbe potuto e si potrebbe obiettare che, secondo quanto più volte affermato dalla Corte costituzionale (da ultimo, in particolare, con la sentenza numero 348/2007) l’adempimento di obblighi internazionali, pur imposto dall’articolo 117 della Carta, non può mai avvenire a scapito « dei principi e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione». E fra questi non può esservi dubbio alcuno che rientri anche il diritto di libera manifestazione del pensiero garantito dall’articolo 21. Ma, a parte ciò, rimane il fatto che la norma in questione, pur se ritenuta compatibile con detto ultimo articolo, costituisce comunque, all’evidenza, una deroga al principio in esso affermato. Dovrebbe valere, dunque, anche per essa, la regola, costantemente richiamata dalla Corte di cassazione (sia pure ad altro proposito), secondo cui le norme derogatrici ai principi costituzionali vanno interpretate restrittivamente, cioè non possono trovare applicazione al là dei limiti posti dalla loro letterale formulazione, senza alcuna possibilità di estensione a casi che, a torto o a ragione, si ritengano analoghi. In tal senso, fra le altre, la sentenza numero 27813 del 2013, relativa alle norme del codice di procedura penale sulla ricusabilità del giudice, ritenute derogatorie rispetto al principio cosiddetto del «giudice naturale» affermato dall’articolo 25 della Costituzione. Anche la nozione di «discriminazione», quindi, per non incorrere in violazione dell’art.icolo 21 della Costituzione, va interpretata restrittivamente, in adesione alla sua definizione ufficiale, contenuta nella citata Convenzione di New York (e riportata nell’articolo 43 del vigente Testo unico sull’immigrazione), secondo la quale, per potersi definire «discriminatoria» una determinata condotta, non basta che essa consista in una semplice manifestazione di opinioni, ma occorre che, in concreto, «abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni altro settore della vita pubblica». Va da sé, inoltre, che non potrebbe non rientrare nel diritto di libera manifestazione del pensiero ogni e qualsiasi manifestazione di odio (o presunto tale) che abbia motivazioni diverse da quelle di tipo razziale, etnico, nazionale o religioso, salvo che costituisca ingiustificata offesa all’onorabilità di singole persone o si traduca in una vera e propria istigazione a delinquere, prevista come reato dagli articoli 414 e 415 del codice penale. E va aggiunto che, in quest’ultimo caso, essa è punibile solo a condizione che, nello specifico - come precisato, ad esempio, nelle sentenze della Cassazione 26907/2001 e 48247/2019 - l’istigazione sia tale, per le sue peculiari caratteristiche o per le circostanze di tempo, di luogo o di persone in cui viene posta in essere, da generare il pericolo (concreto e non meramente presunto o ipotetico) che dei reati siano poi effettivamente commessi. La conclusione, dunque, di questo lungo e noioso discorso è, in definitiva, molto semplice: fermo restando che l’odio è un sentimento da considerarsi, in sé e per sè, come generalmente deprecabile, non possono, però, in primo luogo, contrabbandarsi come «discorsi di odio» quelle che sono soltanto pubbliche e legittime manifestazioni di dissenso, anche radicale, rispetto alle visioni ideologiche che si assumano ispirate (come quelle del «politicamente corretto») dall’«amore» per i veri o presunti «diversi, emarginati, ultimi, eccetera», in favore dei quali dovrebbero quindi adottarsi atteggiamenti e politiche di generalizzata ed incondizionata accettazione ed «inclusione». In secondo luogo, anche qualora i «discorsi di odio» fossero veramente tali, non perciò solo essi potrebbero essere esclusi dalla tutela apprestata dall’articolo 21 della Costituzione e potrebbero, quindi, essere perseguiti penalmente solo alle ristrette condizioni che si sono dette in precedenza.