2021-09-27
Giuseppe Maiocchi: «Non sono un giustiziere ma il Paese vuole sicurezza»
Il gioielliere che nel 2004 uccise un rapinatore è candidato leghista a Milano: «Da allora le rapine sono continuate, vivo blindato. E ogni anno pago 14.000 euro di assicurazione».«Quando arriva suoni il pulsante, siamo sempre all'interno». Via Ripamonti, la strada forse più lunga di Milano, collega il centro alla periferia Sud. Supermercati, negozi, parcheggi improbabili, rotaie del tram. Gente che passeggia con il cane o siede fuori dai bar in un pomeriggio come tanti, simile forse a quello di 17 anni fa. La gioielleria fa angolo, è esposta su due lati. Giuseppe Maiocchi apre la doppia porta con un telecomando. Ha una corporatura solida, non un aspetto truce. Camicia azzurra, resta alla sua scrivania, ricoperta di velluto chiaro per non rigare i preziosi. Un orologio antico da tavolo è accanto a lui, il resto sa di nuovo. Per terra sonnecchia un pastore tedesco anziano, Peggy, «ha occhi solo per me». In quella piccola bottega - «si guardi le recensioni» - dice che si riforniscono fin da fuori città. Da lì ha deciso di candidarsi alle comunali, tornando alla ribalta sui giornali locali. Lo definiscono «il gioielliere giustiziere», sta con la Lega di Matteo Salvini. Che pochi giorni fa è tornato a parlare di legittima difesa, dopo che il macellaio trevigiano Walter Onichini è stato condannato a 4 anni e 11 mesi per il tentato omicidio di un rapinatore. Anche Maiocchi sparò ai ladri, e pure suo figlio, Rocco, che oggi si aggira in negozio, serve clienti e riceve rappresentati ma, cortese, ci evita e non rivanga il passato. Uno dei due rapinatori morì dopo tre giorni, ventunenne: un proiettile lo raggiunse alla testa. Era il 2004.«Il 13 aprile, sì, dopo Pasqua. Fu un anno in cui presi due belle botte, era bisestile. Pensare che dovevo risposarmi, dopo il divorzio. Ero tranquillo».E invece? «Mi sposai ugualmente, di quello sono ancora felice. Ma ci fu il problema del negozio. E quattro mesi dopo l'incidente dell'altro mio figlio, che tirai fuori io da un'auto da gara in fiamme, staccandolo dalle cinture gravemente invalido. Vede, nella vita ci sono quelli che scappano, quelli che urlano, e quelli che intervengono. Io per abitudine intervengo sempre. Mia sorella urlava, quel giorno, quando iniziarono a spaccare con mazza e cacciaviti la vetrina».Non era la prima rapina.«Ho perso ormai il conto, l'ultima due anni fa: tre tentativi in un mese, con un'auto blindata che ha spaccato la serranda laterale in retromarcia ed è arrivata a metà negozio. Centocinquantamila euro di danni per portar via merce rovinata o distrutta. Di solito arrivano in 4, o in 6. Una volta hanno usato un camion rubato per sfondare, un'altra hanno forato il muro laterale e con la fiamma ossidrica sono arrivati fin dentro la cassaforte, rubando roba per 300 milioni di lire». Avrete ovviamente un'assicurazione. «E telecamere dappertutto, si guardi intorno, ce n'è una anche sopra di lei. C'è l'assicurazione, sì: 14.000 euro l'anno non son pochi, dopo 10 ti puoi comprare un appartamento. Eppure ogni volta ci fanno diventare matti. Un giorno sono arrivato al limite, avevo anche avuto problemi di salute. Ho riempito un sacco nero con le scatole vuote degli orologi rubati e l'ho rovesciato sul tavolo del perito che non voleva credermi». Si vive con la paura? Non mi sembra che lei ne abbia. «Ho passato tutta la vita qui dentro. Non usciamo nemmeno a pranzo sempre per questioni di assicurazione, c'è un self service vicino e abbiamo una cucina sul retro. Il porto d'armi l'ho chiesto appena tornato dal militare, era per la mia sicurezza. E a parte una volta, la pistola non l'ho mai utilizzata». Sapeva però sparare.«Con i fucili andavo a caccia di cinghiali sui monti piacentini, con amici che venivano anche da Como e Varese. Oggi vado solo per funghi. Mi esercitavo al poligono, e sparavo anche bene. Il nostro è un lavoro che comporta rischi, è così. Amici e parenti sono finiti al cimitero o sono stati picchiati. Mio padre aprì la gioielleria nel 1947, io iniziai a lavorarci a 17 anni, ne sono passati 53. Ci sono due costanti, dei furti tentati o riusciti che abbiamo subito: la prima è che i ladri non sono mai stati presi, mai, e la seconda è che erano sempre di notte». Non quel giorno. «Prima, solo un paio di volte avevamo visto persone a volto coperto che cercavano di entrare. Noi pistola in mano, loro scappavano. Ci era poi capitato di beccare qualcuno che tentava furti con destrezza, inutile dirle che sono poi stati sempre rimessi in breve a piede libero. Ma quel giorno erano le 17,20, ero con mio figlio in laboratorio, mia sorella al banco. Arrivarono, e sono certo che avessero fatto sopralluoghi: mirarono alla vetrina con i prodotti più costosi».Erano in due. «Facevano parte di una banda organizzata di montenegrini, scoprimmo poi che avevano fatto più di 40 spaccate in un mese in Lombardia». Si ricorda cosa stava facendo?«Lavoravo a un pendolo. Lo appoggiai sul tavolo appena sentii mia sorella urlare, presi la pistola dal mobile e la chiave della porta laterale. Uscii mentre stavano salendo in macchina, non se l'aspettavano. Intimai loro di fermarsi». Lo fecero?«Avevano commesso un errore: l'auto aveva il freno a mano tirato, perché la strada è in discesa. Si era spenta, e uno era chinato per cercare di riaccenderla. Mi sembrò frugare in cerca di qualcosa. Vidi che anche l'altro aveva in mano qualcosa, scoprii solo dopo che erano i miei orologi. Sparai mirando alle mani, e alla portiera, ma in basso, tre colpi». Uno ferì, ma non fu quello mortale. «Mio figlio arrivò dopo, sparò un colpo solo. Colpì il montante della macchina, e il destino ha voluto che prendesse di rimbalzo il rapinatore chinato, dietro, qui (si tocca la nuca, ndr)».Vi portarono via, poi il processo. «Ci interrogarono, tornammo a casa. Dopo un anno fummo incriminati per omicidio volontario, perché il pm aveva deciso che io e mio figlio intervenimmo contemporaneamente e per uccidere. Chiese prima 21 anni, poi 14. La nostra salvezza furono le telecamere».A due anni di distanza la condanna. «Rifiutammo il rito abbreviato, volevamo un processo pubblico. Dissero che avevamo sparato a bruciapelo, che non avevamo voluto parlare con la madre del ragazzo, e tante altre cose assurde e non vere». Ci parlaste, invece?«Davanti al giudice le abbiamo detto che ci dispiaceva per quel che era successo. Lo ripeto sempre: nessuno nasce per uccidere. In quelle condizioni era in gioco la nostra sicurezza». L'altro rapinatore?«Scappò in Montenegro, passando davanti alla caserma dei carabinieri, che sta qui a 30 metri. Non ho mai saputo se avesse armi con sé. La farsa delle leggi italiane ha voluto che tornò in Italia per testimoniare contro di noi e solo dopo qualche giorno fu condannato per rapina. Ma era ormai andato via». Non siete mai andati in carcere. «Io fui condannato a un mese, mio figlio a 18, per omicidio colposo: ci venne riconosciuta la legittima difesa con sospensione condizionale della pena. Scegliemmo di non fare ricorso, anche se le nuove norme avrebbero potuto forse portarci a un'assoluzione. Ma il processo ci è costato 60.000 euro tra perizie e avvocati. Non fu semplice».Si sente un «giustiziere»?«Non auguro a nessuno di trovarsi nelle condizioni in cui mi trovai io. Facile parlare».Dopo il processo il suo impegno nella Lega sulla sicurezza. «Per norme più favorevoli a chi si difende, sì. Ho partecipato alle discussioni sulla legge per la legittima difesa. Diventai da simpatizzante a militante, perché i leghisti mi erano stati vicini e mi avevano sostenuto sempre, anche davanti al tribunale. Salvini era presente. Ma sono sempre stato della Lega. Seguivo Umberto Bossi, a Venezia ci sono stato un bel po' di volte e Pontida era una tappa classica».Cosa l'aveva attratta del Carroccio?«Non l'utopia, ma il sogno dell'indipendenza dal sistema di potere centrale. Non ci siamo riusciti, e ancora adesso è molto difficile. Ma negli anni Novanta era un momento d'oro, il Nord aveva la sua possibilità. Con il Veneto, la Lombardia tirava il carro, ma da Roma non permisero mai che portassimo via quel tanto che regalavamo. Poi è successo che abbiamo imbarcato di tutto, anche tanti che non erano veri leghisti, e amen, le promesse sono sparite». Lei resta. «La gran parte di noi è ancora autonomista, il problema sono le coalizioni. Fratelli d'Italia su questo non ha i nostri stessi pensieri, su altro sì». E la sicurezza c'entra, con la sua candidatura di oggi?«Dal 2006 mi dedico alla mia zona, con un ruolo nel Municipio. Sono stato presidente dei commercianti, ho organizzato la sagra del tartufo. Alle comunali del 2011 vinse Pisapia, ma io presi 200 e rotti voti e sfiorai il Consiglio. Questa volta potrebbe anche andar meglio. Non credo mi abbiano mai votato perché sono della Lega, ma perché qui in tanti mi conoscono da una vita. Abbiamo bisogno di interventi sulle buche, disastrose, e sulle fermate del tram, che bloccano il traffico».A Milano ha fatto rumore la pistola del candidato sindaco del centrodestra, Luca Bernardo. «L'hanno contestato, ma per avere il porto d'armi devi fare una visita medica ogni anno, e spendere. È un diritto avere un'arma per difendersi. I controlli sui banditi, invece, chi li fa? Eppure hanno armi e vanno in giro. Bernardo non ha mai fatto male a nessuno e la pistola l'ha tenuta con coscienza. Servirà se ne avrà bisogno, spero di no. Non siamo pistoleri».
Jose Mourinho (Getty Images)