2023-12-15
Giulio Tremonti: «Il fondo del 2011 a base di eurobond e non c’entra nulla con quello di oggi»
Giulio Tremonti (Imagoeconomica)
L’ex ministro: «Quel progetto aveva un’idea solidale di Europa, bilanci in ordine e debito comune. Un’idea uccisa dalla Troika di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Ratifica oggi? il governo fa bene, il Mes va negoziato con il Patto».Professore, quante volte le sono fischiate le orecchie nelle ultime ore?«Non sento, perché?».Beh nella polemica di questi giorni sulla ratifica del Mes è stato più volte tirato in ballo il governo Berlusconi del 2011... Nella ricostruzione delle opposizioni fu lei da ministro dell’Economia a lanciare l’idea di un fondo europeo».«Guardi, vorrei stare fuori dalle polemiche della politica e provare a fare un’intervista seria con una ricostruzione storica ed oggettiva dei fatti, anche per dimostrare che dall’idea iniziale che era assolutamente giusta si è passati a qualcos’altro».Proviamoci.«Partiamo allora dal 2003, presidenza italiana dell’Ue: per la prima volta viene formulata la proposta di emettere eurobond, cioè del debito comune europeo che andasse a finanziare le infrastrutture e la difesa». Che fine fece quella proposta?«Ci fu un voto contrario da parte dell’ortodossia finanziaria, che avversava l’idea del debito pubblico, pur se questo europeo, mentre gli inglesi furono contrari perché ritenevano che finanziare la difesa sarebbe stato nation-building. Ma le idee giuste camminano in salita, ma camminano...».Cosa vuol dire?«I trattati europei da Maastricht a Lisbona hanno funzionato fino al 2008 in assenza di crisi e in un periodo di progressivo sviluppo economico. Oggi può sembrare incredibile, ma il governo italiano evidenziò già nel maggio 2008 che nei trattati non c’era la parola crisi, crisi sistemica come però si stava manifestando. Ed è proprio per affrontare una crisi non prevista nei trattati che il governo italiano iniziò a lanciare l’idea di un fondo europeo, già in un lettera del maggio 2008 al presidente dell’Eurogruppo Lagarde».Cosa successe?«Che la discussione andò avanti nelle lunghe e drammatiche notti dell’Eurogruppo con lo sviluppo e la costituzione del primo fondo europeo per le crisi».Che tipo di fondo era?«Il fondo non era previsto dai trattati e quindi doveva avere per forza di cose di natura privatistica. Le potrà sembrare incredibile ma fu costituito in una notte con un notaio chiamato a prendere le firme dei ministri europei e fu incorporato nella forma privatistica di una Sicav (società di investimento a capitale variabile ndr) di diritto lussemburghese».Siamo nel 2010. Si tratta di una svolta? «Una svolta per l’idea europea che esprimeva».Quale era?«In un articolo sul Financial Times con l’allora presidente dell’Eurogruppo e poi presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker evidenziammo la necessità di creare un’architettura europea che si fondasse su due pilastri: la serietà dei bilanci pubblici che quindi sarebbero stati presentati in Europa prima dell’approvazione nei singoli Paesi e la solidarietà tra gli Stati con l’utilizzo di quel fondo per gestire le situazioni di crisi ed emettere eurobond. La discussione andò avanti a lungo e per quanto mi riguarda tanto nel Parlamento europeo quanto in quello italiano. La conclusione del processo con la ratifica del Trattato ci sarebbe dovuta essere un anno dopo, il tempo sufficiente per approvare insieme fondo ed eurobond». Cosa successe?«Mentre si lavorava su questo la crisi si aggravò con la passeggiata di Merkel e Sarkozy a Deauville, in Normandia (ottobre 2010 ndr), quando per la prima volta ammisero la possibilità che gli Stati potessero fallire». Cosa sottintedevano quelle parole?«Era il segnale chiaro che l’architettura europea che doveva basarsi su serietà di bilancio e solidarietà che abbiamo visto sopra non era più praticabile, Francia e Germania andavano verso la Troika (Commissione europea, Bce, Fmi ndr)».E il sorrisetto Sarkozy-Merkel rivolto a Berlusconi dimostrava che l’Italia era d’intralcio a questa nuova idea di Europa? «Le rispondo con dei fatti oggettivi. Nelle considerazioni conclusive di maggio 2011, Bankitalia con governatore Mario Draghi scrive che la gestione del bilancio italiano è stata prudente e che le correzioni sono state superiori a quelle degli altri Paesi. E il Consiglio europeo formula giudizi che vanno nella stessa direzione. Qualche settimana dopo, siamo ad agosto, arriva la lettera della Bce che ci chiede tra le altre cose di aumentare l’età pensionabile e ridurre i diritti dei lavoratori, altrimenti non avrebbe più comprato Btp». Perché Francia e Germania cambiano linea? «Perché le loro banche erano le più esposte. Secondo i calcoli di allora i nostri istituti erano esposti per 20 miliardi, quelli tedeschi e francesi per 200. Con l’introduzione della Troika le banche di Berlino e Parigi non ci hanno rimesso un euro, ma il costo sociale per la popolazione è stato enorme». È la fine del progetto di Europa solidale e anche del Mes nel senso in cui l’avevate immaginato lei e Juncker? «La stessa macchina la si può usare per andare a lavorare o per fare una rapina, questa è la differenza tra quello che avevamo ipotizzato con il Mes e quello che poi si è realizzato con la Troika. Tant’è vero che dopo la devastazione di Atene per anni di Mes non si è più parlato». È tornato di attualità in una formula ancora diversa negli ultimi mesi. Lei fosse nella Meloni lo ratificherebbe?«Io trovo corretta l’impostazione del governo italiano. Il Mes va discusso insieme al Patto di stabilità perché sono le due facce della stessa medaglia».
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)