2022-04-23
Giudici, maxi-stipendi, benefit e pensioni. La Corte Costituzionale ci costa sempre di più

La Corte Costituzionale costa sempre di più
Spese in aumento, di circa un milione e mezzo, e stipendi che restano da capogiro per i 15 giudici della Corte Costituzionale. Con benefit di ogni tipo e specifiche voci, come quelle per le traduzioni. Questo è in breve il quadro che emerge dal bilancio di previsione appena pubblicato dall’organo di garanzia costituzionale.
Oltre a verificare la conformità delle leggi statali e regionali, dunque, i componenti della Consulta godono anche di laute retribuzioni che toccano per tutti quota 360mila euro lordi annui, nonostante la sforbiciata compiuta negli anni scorsi. E che significano 13mila euro netti al mese spalmati su 13 mensilità. C’è, però, eccezione per un solo giudice, ovviamente il presidente Giuliano Amato. A lui, secondo quanto si legge nella relazione che accompagna il bilancio, «spetta un’indennità di rappresentanza di 1/5 della retribuzione, cioè 72mila euro lordi annui, pari a 41.040,00 euro netti all’anno (3.156,92 euro al mese per 13 mensilità)». Totale annuo lordo, dunque: 432mila euro. Con un bonifico mensile superiore a 16mila euro. Roba da far invidia a parlamentari e ministri.
AUTO E APPARTAMENTO
È inevitabile, pertanto, che stipendi di questo tipo incidano fortemente sul computo del bilancio. Solo per coprire retribuzioni e oneri vari dei 15 giudici se ne vanno circa 7,9 milioni. Le uscite complessive ammontano a 59,9 milioni di euro, in crescita rispetto ai 58,5 del bilancio di previsione 2021, e ben l’88,65% di queste è rappresentato dalle spese obbligatorie: stipendi, pensioni di giudici e personale. E non potrebbe essere altrimenti visti i benefit a cui hanno accesso: oltre alla retribuzione, si legge ancora nella relazione visionata da Verità&Affari, a ciascun componente «è assegnato un cellulare, un pc portatile e un’autovettura». In più la Consulta sostiene - e ci mancherebbe - anche «i costi di viaggio dei giudici residenti fuori Roma nonché, per tutti i giudici, le spese di viaggio fuori sede relative agli impegni in rappresentanza della Corte». E l’alloggio? C’è anche quello: «A ciascun giudice costituzionale è assegnata una piccola foresteria (monolocale o bilocale) nell’ambito della Corte, prevalentemente utilizzata dai giudici che risiedono fuori Roma».
Ma è interessante capire anche come viene conteggiata la remunerazione. L’aspetto curioso, infatti, è che sebbene evidentemente gli stipendi siano ben più alti del tetto di 240mila euro lordi fissato per i dipendenti pubblici, nella relazione si agganciano i 360mila euro proprio alla legge entrata in vigore nel 2014. La ragione è presto specificata: sebbene sia stata abrogata la legge precedente del 2002 che assicurava stipendi molto più alti (arrivavano a 465mila euro), un passaggio a quanto pare è stato mantenuto. La legge di allora stabiliva infatti che la retribuzione doveva corrispondere al «più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni» - e questa parte “mobile” è stata appunto cancellata con un tetto “fisso” a 240mila euro - ma «aumentato della metà».
È proprio questo aumento ad essere rimasto, tanto che i 360mila euro sono appunto frutto della somma di 240mila più 120mila (la metà). Tanto che, si legge ancora nella relazione, «anche in considerazione dei sacrifici imposti ai cittadini per il particolare stato della finanza pubblica, la Corte ha deciso di abbandonare il più favorevole parametro “storico” previsto dalla legge del 2002, riducendo quindi di 105mila euro lordi annui, per ciascun giudice, la spesa relativa alle retribuzioni. In questi termini la riduzione è stata volontaria». Almeno questo taglio garantisce un risparmio annuo di oltre un milione di euro.
Ma non finisce qui. Nel bilancio c’è, poi, da sostenere la spesa per il personale in servizio (310 unità in totale) che costa alle casse della Corte 29,5 milioni. Non sono conteggiati, d’altronde, solo retribuzioni e oneri vari (che da soli assorbono oltre 20 milioni), ma anche varie ed eventuali come le spese di formazione (50mila euro) e la «fornitura uniformi di servizio» (54mila euro).
IL PERSONALE DI SERVIZIO
Altro capitolo corposo è quello delle pensioni, coperte da due fondi di trattamento previdenziale - uno per gli ex giudici e uno per gli ex dipendenti - che per quest’anno assorbiranno circa 14 milioni di euro. In queste due contabilità speciali sono gestite 282 pensioni. E nel dettaglio parliamo di 21 ex giudici e 14 loro superstiti; e 164 ex dipendenti e 83 loro superstiti. Resta, infine, il capitolo dell’acquisto di beni, servizi e forniture per consentire alla macchina di funzionare a dovere. Si va dalla manutenzione del Palazzo della Consulta (184mila euro) a quella dei mobili (74mila); dalla fornitura di materiale d’ufficio (116mila) fino alle spese riguardanti le vetture di servizio (284mila euro).
E poi, ancora, alle spese di «funzionamento della struttura sanitaria» (360mila euro) si affiancano le spese derivanti dall’emergenza Covid (61mila euro). Fondamentale anche la rete con le Corti degli altri Paesi, tanto che si prevede di spendere 8mila euro per le convenzioni, 86.500 per incontri multilaterali e convegni. E se c’è da tradurre o interpretare? Niente paura: nel bilancio spuntano pure 27mila euro per i traduttori.
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Fecondazione in vitro (iStock)
Nelle linee guida l’organizzazione sponsorizza la fecondazione in vitro, non menzionando sistemi più efficaci (ma che fanno girare meno denaro). E precisa: gli aiuti vanno estesi ai gay che non riescono ad avere bambini.
Che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) possa mettere fra parentesi la scienza e l’etica in favore di altri interessi, ideologici ma non solo, non è certo una novità. Tuttavia, le nuove linee guida globali sull’infertilità da poco - e per la prima volta - pubblicate appunto dall’Oms contengono passaggi che non possono non colpire, per quanto accompagnati anche da considerazioni di buon senso. Anzitutto, va detto che non si può che salutare positivamente il fatto che l’Oms si occupi dell’infertilità - ossia il mancato raggiungimento di una gravidanza clinica dopo 12 mesi o più di rapporti sessuali regolari non protetti -, dato che essa costituisce a tutti gli effetti una questione sanitaria mondiale.
Una quantificazione del fenomeno è infatti ardua, ma solo dal 1990 al 2010 - secondo un’analisi pubblicata su PLoS Medicine -, si stima che il numero assoluto globale di coppie affette da infertilità sia passato da 42 a 49 milioni, facendo segnare una crescita senza dubbio continuata, e continua, anche ai giorni nostri. Allo stesso modo, nessuno può trovare alcunché da ridire sul fatto che «l’assistenza alla fertilità, che include prevenzione, diagnosi e trattamento dell’infertilità, dovrebbe essere accessibile a tutti», come scrive nell’introduzione al documento Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms. Analogamente, che «una dieta sana, l’attività fisica e la cessazione del fumo» possano prevenire o arginare problemi di infertilità è qualcosa di pacifico.
Assai più problematico, viceversa, risulta il fatto che in «Guideline for the prevention, diagnosis and treatment of infertility» – questo il nome ufficiale delle linee guida – si parli spessissimo della fecondazione in vitro come rimedio all’infertilità, dimenticandosi che esistono non solo altre possibilità di cura dell’infertilità ma pure possibilità prive delle problematiche di ordine etico correlate alle tecniche di procreazione medicalmente assistita; problematiche alle quali, va da sé, l’Oms pare non dare particolare peso. Al punto da arrivare perfino a raccomandare a livello internazionale l’accesso alla fecondazione in vitro per le coppie omosessuali e non solo. Per la verità, non si tratta d’una richiesta formulata a caratteri cubitali ma, a ben vedere, neppure così nascosta, anzi. Si trova infatti, a pagina 4, in una nota a piè di pagina che presenta più di una criticità.
Tanto per cominciare perché specifica che le linee guida utilizzano «termini come maschio e femmina (nelle sue raccomandazioni) e uomini e donne (nel testo che sintetizza la ricerca) per indicare il sesso biologico assegnato alla nascita». Dunque, secondo l’Oms, il sesso biologico è qualcosa di «assegnato alla nascita», dunque non di naturale bensì di convenzionale. Iniziamo bene. Ma questo è niente, perché nella stessa nota del documento si precisa che si precisa le linee guida si riferiscono, con il termine «coppie», alle «relazioni eterosessuali»; ma questo non significa che l’infertilità sia un problema solo di queste coppie. «Tuttavia», prosegue infatti il testo, «un’ampia varietà di persone, inclusi individui single o che vivono relazioni omosessuali o di genere diverso, potrebbe aver bisogno di servizi per soddisfare le proprie preferenze in materia di fertilità».
Che le «relazioni omosessuali» siano non accidentalmente bensì costitutivamente sterili, come osservava anni or sono il bioeticista Francesco D’Agostino, e quindi l’accostamento tra le due situazioni sia quanto meno opinabile, per l’Oms non rileva. Allo stesso modo, resta un piccolo alone di mistero su quali sarebbero le relazioni «di genere diverso» - forse quelle poligamiche o i cosiddetti poliamori? – cui bisognerebbe prestare attenzione. Sì, perché secondo l’Oms «chi si occupa di assistenza per la fertilità dovrebbe considerare le esigenze di tutti gli individui e fornire loro pari assistenza». Guai, insomma, a ricordare che una coppia di persone dello stesso sesso ha il rischio ma la certezza di trovarsi preclusa l’opzione procreativa.
In egual misura, tutto questo discorso trascura un punto di vista fondamentale: quello del figlio. A tal proposito, contattata dal portale LifeSiteNews, Samantha DeLoach del gruppo Them Before Us, ha fatto notare che «le linee guida dell’Oms trattano l’assistenza all’infertilità principalmente come una questione di accesso ed equità, ma non affrontano mai l’esperienza del bambino nell’ambito della fecondazione in vitro e delle tecnologie correlate». Che i figli della provetta possano scontare più rischi di salute, rispetto agli altri, è infatti un dato noto in letteratura: eppure l’Oms su questo sorvola. Proprio come sorvola sulle alternative alla provetta nella cura dell’infertilità.
Per esempio, una recente ricerca su oltre 1.000 coppie seguite in tre centri specialistici italiani – a cura del professor Giuseppe Grande e pubblicata sulla rivista Andrology – ha dimostrato che, a seguito di trattamenti mirati – antibiotici, integratori, terapia ormonale con Fsh – con l’obiettivo di ristabilire la fertilità naturale, il 41% delle coppie sono riuscite ad avere una gravidanza spontanea: una quota che supera in modo netto quelle medie delle tecniche di fecondazione assistita, soprattutto nelle donne sotto i 40 anni. Naturalmente, di questa ricerca non c’è traccia nelle 260 pagine delle linee guida dell’Oms. Forse perché attorno alla provetta c’è un giro d’affari infinitamente più vasto rispetto a quello di altre cure dell’infertilità? A pensar male si fa peccato, ma spesso s’indovina.
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Federica Mogherini (Ansa)
Lei e Stefano Sannino fanno un passo indietro, però la frittata è fatta I russi parlano di doppia morale. Gli Usa: «Era amica di Cuba».
Si chiama patteggiamento, ma in Italia perché ha un significato procedurale preciso: accetto una pena senza dichiararmi colpevole. Si ratifica questa intesa davanti al giudice. A Bruges le cose sono andate più o meno così, ma è solo- per dirlo nel linguaggio diplomatico tanto caro ai protagonisti di questa storia che in comune hanno d’essere dei fedelissimi di Romano Prodi e del Pd - un gentlemen agreement tra accusa e accusati: noi ci dimettiamo e voi non ci ammanettate.
Più rilevanti sono le conseguenze sul piano internazionale: l’amministrazione Trump si ricorda di quando Federica Mogherini flirtava con Cuba, i russi fanno la morale all’Europa e molti governi dell’Ue prendono le distanze. Così ieri con uno scarno comunicato la «Fede» tanto cara a Uolter Veltroni, portata ai massimi onori dal «Bomba» al secolo Matteo Renzi che la elevò prima a ministro degli Esteri e poi ad Alto (mai aggettivo fu più iperbolico) rappresentante per la politica estera europea, ha dato le dimissioni. In uno scarno comunicato fa sapere: «In linea con il massimo rigore e correttezza con cui ho sempre svolto i miei compiti, ho deciso di dimettermi dalla carica di Rettore del Collegio d’Europa e Direttore dell’Accademia diplomatica dell’Unione europea». «Sono certa che la comunità del Collegio - aggiunge l’esponente del Pd indagata per una serie di reati dalla procura belga e da quella europea in relazione ad appalti dell’istituzione da lei presieduta: si parla di almeno 600.000 euro - continuerà il percorso di innovazione ed eccellenza. Sono orgogliosa di ciò che abbiamo realizzato insieme e sono profondamente grata per la fiducia, la stima e il sostegno che gli studenti, i docenti, il personale e gli ex allievi del Collegio e dell’Accademia mi hanno dimostrato e continuano a dimostrarmi».
E poi la sagra dell’ovvio: «Ho piena fiducia nel sistema giudiziario e confido che la correttezza delle azioni del Collegio verrà accertata. Continuerò a offrire la mia piena collaborazione alle autorità». E ci mancherebbe altro. A dare le dimissioni non è solo nostra signora delle feluche, ma anche il suo sodale di partito, di carriera e d’inchiesta l’ambasciatore Stefano Sannino - noto più per avere perorato la causa del mondo gay e transgender che per aver fronteggiato crisi internazionali - che ha lasciato l’incarico di direttore generale per il Medio Oriente, il Nord Africa e il Golfo del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). La Procura europea ha chiesto e ottenuto dalla Commissione la revoca dell’immunità diplomatica a Sannino. La carriera diplomatica di Sannino è stata fatta tutta all’ombra di Romano Prodi come del resto quella del terzo italiano incappato nell’inchiesta della procura belga: Cesare Zegretti, amministratore del Collegio d’Europa, che la Mogherini si è portata dietro. Zagretti è custode dei conti. Deve aver messo le maini avanti dicendo: vi racconto tutto. Così già mercoledì sera la Procura, intascate dimissioni e informazioni, ha deciso di mandare liberi i tre accusati.
Assai pesanti sono però i contraccolpi. Se già mercoledì dal Cremlino erano partite bordate - la portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova aveva attaccato: l’Ue fa la morale agli altri, ma preferisce ignorare i propri problemi di corruzione - ieri a rincarare la dose (e la brutta figura dell’Ue) ci ha pensato un alleato di ferro. Il vice segretario di Stato americano Christopher Landau che era a Bruxelles per la riunione dei ministri degli Esteri della Nato in supplenza di Marco Rubio a proposito della Mogherini ha scritto su X: «Si tratta, per inciso, della stessa persona che ha definito la Cuba comunista una “democrazia monopartitica” e ha favorito gli investimenti, il turismo e il commercio europei che hanno sostenuto il regime repressivo e fortemente antiamericano dell’isola».
La «Fede» è sempre stata inseguita da «sospetti». I francesi non la volevano al Collegio d’Europa perché la ritenevano, forse a ragione, inadeguata; tutti i paesi dell’Est non l’hanno votata come Alto Rappresentante perché giudicata amica di Vladimir Putin e tutte le diplomazie occidentali non si sono mai dimenticate dei suoi entusiasmi per Yasser Arafat a cominciare dagli americani che - ascoltando Landau - se ne sono ricordati. Matteo Renzi la impose, a spese degli interessi dell’Italia, per sbarrare la strada a Massimo D’Alema. Sulla Mogherini sono piovuti anche gli strali di Viktor Orban mentre Ursula von der Leyen per ora tace. Una difesa d’ufficio ha provato a farla Andrea Orlando in vece di Elly Schlein che comme d’habitude è non pervenuta. Uno dei cacicchi del Pd se l’è presa con la Russia e i giornali di destra: «sarebbe questo il loro garantismo?» chiede sarcastico. Peccato che nulla abbia detto sull’altro caso strano: la revoca dell’immunità parlamentare ad Alessandra Moretti, eurodeputata Pd, coinvolta nel Qatargate. Mentre Elisabetta Gualmini, anche lei eurodeputata Pd, ma bolognese, e pure lei accusata per il Qatargate, l’ha fatta franca in Commissione - sarà l’aula ad avere l’ultima parola- la Moretti accusa il Ppe e FdI: «Sono vittima di un complotto politico, con me oggi è morta l’immunità parlamentare». Le fa notare Carlo Fidanza di FdI-Ecr: «Il Pd l’immunità l’ha uccisa con Ilaria Salis: ci hanno insegnato che ognuno vita per i suoi». E Elly Schlein resta in silenzio perché deve tutelare il campo largo e di farsi sorpassare a sinistra da Giuseppe Conte sul terreno del giustizialismo non le va. Soprattutto se a inciampare nelle inchieste sono le reduci renziane.
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La nuova perizia sul Delitto di Garlasco: sulle unghie di Chiara c’è un DNA compatibile con la linea paterna di Andrea Sempio, non con quella di Stasi. Non è una prova, ma un indizio pesante che cambia la lettura del caso e alimenta il confronto in vista del 18 dicembre.












