Giudici, maxi-stipendi, benefit e pensioni. La Corte Costituzionale ci costa sempre di più

La Corte Costituzionale costa sempre di più
Spese in aumento, di circa un milione e mezzo, e stipendi che restano da capogiro per i 15 giudici della Corte Costituzionale. Con benefit di ogni tipo e specifiche voci, come quelle per le traduzioni. Questo è in breve il quadro che emerge dal bilancio di previsione appena pubblicato dall’organo di garanzia costituzionale.
Oltre a verificare la conformità delle leggi statali e regionali, dunque, i componenti della Consulta godono anche di laute retribuzioni che toccano per tutti quota 360mila euro lordi annui, nonostante la sforbiciata compiuta negli anni scorsi. E che significano 13mila euro netti al mese spalmati su 13 mensilità. C’è, però, eccezione per un solo giudice, ovviamente il presidente Giuliano Amato. A lui, secondo quanto si legge nella relazione che accompagna il bilancio, «spetta un’indennità di rappresentanza di 1/5 della retribuzione, cioè 72mila euro lordi annui, pari a 41.040,00 euro netti all’anno (3.156,92 euro al mese per 13 mensilità)». Totale annuo lordo, dunque: 432mila euro. Con un bonifico mensile superiore a 16mila euro. Roba da far invidia a parlamentari e ministri.
AUTO E APPARTAMENTO
È inevitabile, pertanto, che stipendi di questo tipo incidano fortemente sul computo del bilancio. Solo per coprire retribuzioni e oneri vari dei 15 giudici se ne vanno circa 7,9 milioni. Le uscite complessive ammontano a 59,9 milioni di euro, in crescita rispetto ai 58,5 del bilancio di previsione 2021, e ben l’88,65% di queste è rappresentato dalle spese obbligatorie: stipendi, pensioni di giudici e personale. E non potrebbe essere altrimenti visti i benefit a cui hanno accesso: oltre alla retribuzione, si legge ancora nella relazione visionata da Verità&Affari, a ciascun componente «è assegnato un cellulare, un pc portatile e un’autovettura». In più la Consulta sostiene - e ci mancherebbe - anche «i costi di viaggio dei giudici residenti fuori Roma nonché, per tutti i giudici, le spese di viaggio fuori sede relative agli impegni in rappresentanza della Corte». E l’alloggio? C’è anche quello: «A ciascun giudice costituzionale è assegnata una piccola foresteria (monolocale o bilocale) nell’ambito della Corte, prevalentemente utilizzata dai giudici che risiedono fuori Roma».
Ma è interessante capire anche come viene conteggiata la remunerazione. L’aspetto curioso, infatti, è che sebbene evidentemente gli stipendi siano ben più alti del tetto di 240mila euro lordi fissato per i dipendenti pubblici, nella relazione si agganciano i 360mila euro proprio alla legge entrata in vigore nel 2014. La ragione è presto specificata: sebbene sia stata abrogata la legge precedente del 2002 che assicurava stipendi molto più alti (arrivavano a 465mila euro), un passaggio a quanto pare è stato mantenuto. La legge di allora stabiliva infatti che la retribuzione doveva corrispondere al «più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni» - e questa parte “mobile” è stata appunto cancellata con un tetto “fisso” a 240mila euro - ma «aumentato della metà».
È proprio questo aumento ad essere rimasto, tanto che i 360mila euro sono appunto frutto della somma di 240mila più 120mila (la metà). Tanto che, si legge ancora nella relazione, «anche in considerazione dei sacrifici imposti ai cittadini per il particolare stato della finanza pubblica, la Corte ha deciso di abbandonare il più favorevole parametro “storico” previsto dalla legge del 2002, riducendo quindi di 105mila euro lordi annui, per ciascun giudice, la spesa relativa alle retribuzioni. In questi termini la riduzione è stata volontaria». Almeno questo taglio garantisce un risparmio annuo di oltre un milione di euro.
Ma non finisce qui. Nel bilancio c’è, poi, da sostenere la spesa per il personale in servizio (310 unità in totale) che costa alle casse della Corte 29,5 milioni. Non sono conteggiati, d’altronde, solo retribuzioni e oneri vari (che da soli assorbono oltre 20 milioni), ma anche varie ed eventuali come le spese di formazione (50mila euro) e la «fornitura uniformi di servizio» (54mila euro).
IL PERSONALE DI SERVIZIO
Altro capitolo corposo è quello delle pensioni, coperte da due fondi di trattamento previdenziale - uno per gli ex giudici e uno per gli ex dipendenti - che per quest’anno assorbiranno circa 14 milioni di euro. In queste due contabilità speciali sono gestite 282 pensioni. E nel dettaglio parliamo di 21 ex giudici e 14 loro superstiti; e 164 ex dipendenti e 83 loro superstiti. Resta, infine, il capitolo dell’acquisto di beni, servizi e forniture per consentire alla macchina di funzionare a dovere. Si va dalla manutenzione del Palazzo della Consulta (184mila euro) a quella dei mobili (74mila); dalla fornitura di materiale d’ufficio (116mila) fino alle spese riguardanti le vetture di servizio (284mila euro).
E poi, ancora, alle spese di «funzionamento della struttura sanitaria» (360mila euro) si affiancano le spese derivanti dall’emergenza Covid (61mila euro). Fondamentale anche la rete con le Corti degli altri Paesi, tanto che si prevede di spendere 8mila euro per le convenzioni, 86.500 per incontri multilaterali e convegni. E se c’è da tradurre o interpretare? Niente paura: nel bilancio spuntano pure 27mila euro per i traduttori.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
Accuse reciproche e confine in fiamme: cresce la tensione tra Cambogia e Thailandia
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
Dati Eurostat 2025: il 19,9% degli italiani tra 16 e 74 anni ha usato strumenti come ChatGpt o Gemini, contro una media europea del 32,7%. Peggio solo la Romania, mentre Danimarca, Estonia e Malta guidano la classifica.
L’Italia si colloca tra gli ultimi Paesi dell’Unione europea per utilizzo di strumenti di Intelligenza artificiale generativa. Nel 2025, solo il 19,9% delle persone tra i 16 e i 74 anni ha dichiarato di aver utilizzato, negli ultimi tre mesi, applicazioni come ChatGpt, Gemini o strumenti analoghi. Un dato nettamente inferiore alla media europea, che si attesta al 32,7%. Peggio del Belpaese fa soltanto la Romania, ferma al 17,8%.
A certificare il quadro è Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, che ha diffuso i risultati dell’indagine sull’uso delle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Tic) nelle famiglie e tra gli individui. I dati sono stati pubblicati il 16 dicembre 2025 all’interno del report «Statistiche dell’economia e della società digitale - famiglie e individui».
Il confronto tra Stati membri evidenzia un’Europa che viaggia a più velocità. In testa alla classifica si collocano la Danimarca, dove il 48,4% della popolazione utilizza strumenti di Ia generativa, seguita da Estonia (46,6%) e Malta (46,5%). All’estremo opposto, oltre a Romania e Italia, compare la Bulgaria con il 22,5%. Il divario tra Nord e Sud, e tra Paesi più e meno digitalizzati, emerge in modo netto.
Secondo Eurostat, l’uso dell’Ia generativa è prevalentemente legato alla sfera personale: il 25,1% degli europei che ricorrono a questi strumenti lo fa per scopi privati. Seguono gli utilizzi professionali, che coinvolgono il 15,1% degli intervistati, e quelli legati all’istruzione formale, pari al 9,4%. Il dato conferma come l’Intelligenza artificiale generativa stia progressivamente entrando nella quotidianità, andando oltre l’ambito strettamente lavorativo o specialistico.
Resta però ampia la platea di cittadini europei che non fa uso di questi strumenti. Oltre due terzi della popolazione dell’Ue dichiara di non aver utilizzato applicazioni di Ia generativa nel 2025. Le motivazioni principali riguardano la percezione di inutilità: il 39% degli intervistati afferma di non averne bisogno. Seguono la mancanza di competenze adeguate (8%) e la scarsa conoscenza dell’esistenza stessa di questi strumenti (5%). Più contenuta, ma comunque presente, la quota di chi cita timori legati a privacy e sicurezza dei dati, pari al 4%.
La motivazione della «mancanza di necessità» risulta particolarmente diffusa in alcuni grandi Paesi europei. In Polonia il 54% dei non utilizzatori indica questa ragione, mentre in Germania la quota sale al 49%. Dati che suggeriscono come la resistenza all’adozione dell’Ia generativa non sia soltanto un problema di arretratezza tecnologica, ma anche di percezione del valore aggiunto offerto da questi strumenti.
Nel caso italiano, il basso livello di utilizzo solleva interrogativi più ampi sullo stato della trasformazione digitale del Paese. Il dato del 19,9% segnala un ritardo che rischia di riflettersi sulla competitività del sistema produttivo, sull’innovazione nei servizi e sulla capacità di cogliere le opportunità offerte dall’economia digitale. Un divario che si inserisce in un contesto già segnato da differenze territoriali e generazionali nell’accesso e nelle competenze digitali.
Nonostante le forti disparità tra Stati membri, il quadro complessivo delineato da Eurostat indica una tendenza in crescita. Un europeo su tre utilizza oggi strumenti chatbot, un dato destinato a crescere nei prossimi anni. La diffusione di queste tecnologie pone però nuove sfide sul piano della formazione, delle competenze e della regolamentazione.














