2022-02-02
Il gip smentisce il loggia-gate e pure Davigo
Piercamillo Davigo (Ansa)
Nelle motivazioni dell’archiviazione a carico dell’ex procuratore di Milano c’è la ricostruzione della faida tra toghe. Nessuna «inerzia investigativa», anzi: è stato Francesco Greco a voler indagare su Piero Amara. Ma resta il mistero degli sms di Giovanni Salvi.Il gip di Brescia Andrea Gaboardi è stato molto deciso nelle 28 pagine di archiviazione dell’ex procuratore di Brescia Francesco Greco dall’accusa di omissione di atti d’ufficio: non solo non ha rallentato le investigazioni sulla loggia Ungheria, ma anzi non poteva comportarsi meglio. È stato lui a proporre di iscrivere sul registro degli indagati il faccendiere Piero Amara e i compari Giuseppe Calafiore e Alessandro Ferraro (che invece il pm Paolo Storari non aveva inserito nell’elenco dei papabili) e quindi da parte sua non c’è stata nessuna inerzia investigativa, contrariamente a quanto sostenuto dallo stesso Storari. In più Gaboardi rimarca, citando la Cassazione, che nei reati associativi i tempi per definire la notitia criminis sono più elastici rispetto ad altre fattispecie. Tutto il contrario di quanto sostenuto da Piercamillo Davigo «in via solitaria e con sbrigativa sicurezza» (sembra di vederlo), nel suo interrogatorio.Insomma nulla quaestio se gli interrogatori di Amara sono terminati a gennaio del 2020 e le iscrizioni sono avvenute a maggio. In mezzo c’è stato un lockdown e l’arresto del faccendiere indagato. Non solo, in quel lasso di tempo sarebbero state svolte alcune attività preliminari di riscontro delle dichiarazioni di Amara. Iniziative che Gaboardi elenca: il 16 gennaio 2020 c’è stata una riunione di coordinamento con i magistrati di Perugia; il 18 è iniziata l’attività di intercettazione di Denis Verdini, uno dei presunti appartenenti alla loggia; il 20 sono stati trasmessi a Greco i verbali di Amara, «in modo che egli potesse meglio valutarne il contenuto nell’ottica del proficuo esercizio dei suoi poteri di coordinamento e di controllo»; il 23 sono state svolte attività di perquisizione e sequestro presso l’abitazione di Verdini (presso il quale sarebbe stata ritrovata «documentazione rilevante»), nonché presso gli uffici dei dipendenti Eni Claudio Granata e Michele Bianco (ma qui, ci dispiace contraddire il gip, le attività sembrano più orientate a indagare sulla compagnia petrolifera che sulla loggia) e Alessandra Geraci, già collaboratrice di Amara; il 4 febbraio è stato interrogato, questa volta «specificamente sulla loggia “Ungheria”», l’avvocato Calafiore (dichiaratosi affiliato), il quale, nell’occasione, ha promesso l’«imminente messa a disposizione della lista degli affiliati», elenco in verità mai consegnato agli inquirenti; il 5 febbraio è stato affidato l’incarico di trascrizione di tre file audio consegnati da Calafiore, operazione che ha richiesto un mese di lavoro; il 6 è stato fissato l’interrogatorio di Ferraro, che, però, non si è presentato né il 6, né il successivo 25 febbraio. A questo punto, a giudizio del gip, è accaduto l’imponderabile: «L’intervenuta incarcerazione di Amara per altro titolo non consentiva di dar corso alle programmate nuove audizioni del medesimo, necessarie per conferire maggiore sostanza e maggior livello di dettaglio alle affermazioni accusatorie rese nei precedenti interrogatori». Del resto il giudice, a distanza di due anni, definisce «totalmente inattendibile» il faccendiere.Per la toga non hanno peso neanche le dichiarazioni di Storari e Davigo secondo i quali Greco si sarebbe convinto a fare le prime iscrizioni perché sollecitato dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, a sua volta messo in allerta da Davigo. Per il gip ciò che è accaduto è perfettamente normale. Sentito come testimone, Salvi ha «escluso di aver mai sollecitato l’iscrizione della relativa notizia di reato all’odierno indagato. Egli ha viceversa affermato di essersi semplicemente informato, dapprima per via telefonica e poi nel corso di una riunione con Greco tenutasi a Roma il 16 giugno 2020, circa lo stato delle investigazioni, facendosi sunteggiare l’attività svolta e ricevendo rassicurazioni in ordine alla loro celere ripresa a séguito del periodo di confinamento connesso alla pandemia».Il giudice non ritiene rilevante che tra il 4 maggio 2020 (giorno di ripresa dei lavori in presenza del Consiglio Superiore della Magistratura) e l’8 (data in cui veniva decisa l’iscrizione della notizia di reato) Greco e Salvi si siano scambiati diversi messaggi Whatsapp «prodotti dallo stesso Greco e concernenti altri temi» e sei sms spediti «in rapida sequenza (probabilmente un unico messaggio di testo eccedente i limiti di lunghezza, e perciò automaticamente suddiviso in più invii) in data 7 maggio», cioè il giorno prima della decisione di iscrivere Amara & C. sul registro degli indagati. Che cosa c’era scritto in quei messaggi? Al contrario di quelli Whatsapp i due magistrati non hanno reso pubblico il loro contenuto, perché come abbiamo già anticipato a inizio gennaio «entrambi gli interlocutori non dispongono più degli apparecchi cellulari che avevano all’epoca dei fatti e nessuno dei due ha conservato uno specifico ricordo sul punto». Se un sms può contenere massimo 160 caratteri, 6 possono contenere circa mille caratteri e quindi un testo dettagliato.Ma per il giudice «appare francamente implausibile che un’eventuale comunicazione riservata sul procedimento “Ungheria” (e necessariamente articolata, vista la complessità della vicenda) possa essere stata affidata a semplici messaggi di testo susseguitisi nell’arco di pochissimi secondi». In conclusione per Gaboardi la consegna da parte di Storari a Davigo dei verbali di Amara nell’aprile del 2020 non solo era immotivata, ma potrebbe essere «stata indotta da una mera suggestione o dispercezione di Storari, favorita dal particolare interesse che suscitava certamente in lui l’oggetto dell’indagine (a detta della Pedio, egli aveva appositamente studiato la corposa relazione della Commissione parlamentare sulla P2) e dalla frustrazione di non poter svolgere più penetranti investigazioni per la quasi completa paralisi dell’attività giudiziaria connessa al periodo di lockdown». Quindi la guerra dentro alla Procura di Milano sarebbe da imputare al Covid. Mancava solo di addossare al Coronavirus anche questa colpa.
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