
L’«Osservatore Romano» rilancia un appello di gruppi cristiani alla decarbonizzazione e lo riveste con toni dottrinali: il periodo precedente la Pasqua diventa «tempo per disinvestire dai fossili» in cui «i cattolici sono chiamati a osservare il digiuno del gas».Quando ero bambino, durante la Quaresima era di rigore il venerdì magro, nel senso che un giorno la settimana, per rispettare i precetti cattolici, non si poteva mangiare carne. Non ho mai capito quale fosse il senso del divieto, e perché ci si dovesse astenere per ventiquattro ore dal consumare una bistecca, tuttavia ricordo che nei giorni comandati mia madre ci serviva una fetta di palombo, un pesce di mare senza lische che lei cucinava alla griglia o impanato. Credo che l’astinenza dalle carni fosse una specie di penitenza, una forma di rinuncia a un cibo ritenuto «grasso», cioè da ricchi, per prepararsi alla passione di Gesù Cristo. Se vi parlo dei miei trascorsi da fanciullo e soprattutto delle regole impartitemi, è perché ieri mi è capitato di leggere una pagina dell’Osservatore Romano, ovvero il giornale della Santa sede, in cui era riportato un ampio articolo dal titolo curioso: «Quaresima: un tempo per disinvestire dai fossili». Mi sono subito chiesto che cosa avesse a che fare il periodo che precede la Pasqua con il petrolio. Pur non essendo un teologo, posso comprendere che sulla base delle prescrizioni del codice di diritto canonico, che si rifanno all’Antico testamento, i cattolici siano invitati a fare qualche rinuncia ai piaceri della tavola, ma che cosa c’entrano i carburanti? A quanto pare, nella nuova dottrina della Chiesa, quella aggiornata da Papa Francesco, la bistecca è sostituita dal combustibile. Infatti, come ho scoperto poi, il 20 febbraio un tweet della testata vaticana annunciava che i cattolici erano «chiamati a osservare il digiuno del gas per non alimentare la guerra». Confesso, ero completamente all’oscuro della giornata senza metano per aiutare l’Ucraina e non so dire quanti abbiano aderito all’appello della testata di Santa romana Chiesa. Tuttavia, mi permetto di avanzare qualche obiezione sull’iniziativa e pure sulle sue finalità. È vero che qualche anno fa Bergoglio ha licenziato un’enciclica dal titolo «Laudato si’», dedicata all’ecologia e alla difesa della natura, ma un giorno con i termosifoni freddi non credo che abbassi di molto il tasso di CO2 nell’aria. Anni fa, dopo lo shock petrolifero, la tv di Stato ci subissò di spot che ci invitavano a cambiare la nostra vecchia caldaia a gasolio, optando per quella a gas. «Il metano ti dà una mano» era lo slogan con cui ci martellarono. Secondo la campagna televisiva, il tubo che arrivava direttamente in casa evitava di riempire la cisterna e garantiva emissioni leggere e profumate, che riducevano lo smog cittadino. Quarant’anni dopo, ci vorrebbero convincere che quello stesso tubo si è trasformato in serpente, una specie di strumento del demonio di cui dovremmo disfarci prima possibile. Laudato si’, Frate Sole, che ogni giorno ci illumini.Così, col Cantico delle creature siamo passati dall’astinenza dalla carne a quella dal riscaldamento. Ma se il senso dev’essere quello di privarci di qualche cosa che ci piace, si potrebbe trovare di meglio. Intendo che se si deve fare un fioretto, rinunciare ai dolci, al vino, alle sigarette, al venerdì a teatro o al cinema, al weekend al mare o in montagna, forse ha una maggior efficacia della privazione del tepore in casa. Soprattutto, si evita che qualche anziano si becchi la polmonite. Qualche dubbio mi permetto di avanzarlo anche sulla questione della guerra. Infatti, da un anno a questa parte di discute di come tagliare le importazioni di gas russo per chiudere il rubinetto con cui Vladimir Putin alimenta la guerra in Ucraina. Risultato, dopo numerosi sforzi, l’Italia è riuscita a trovare nuove forniture in Algeria, Qatar, Egitto e Congo. Non dico che ci siamo completamente sganciati da Mosca, ma quasi. Dunque, che senso ha spegnere il termosifone oggi che il metano non arriva da un Paese in guerra, ma dall’Africa? Capisco che è brutto da dire, ma chiunque voglia mettere fine al conflitto deve fare una scelta che non passa dal gas, bensì dalle armi. Per porre fine al conflitto infatti, ci sono solo due modi: o smettere di inviare cannoni e carri armati a Kiev, così che Volodymyr Zelensky sia costretto a sedersi a un tavolo di pace con i russi, oppure inviarne di più e insieme a essi mandare anche aerei e soldati. Cioè: se si vuole vedere la fine del conflitto, non esistono alternative all’entrata in guerra o alla resa. Tertium non datur. Si possono spegnere i caloriferi e pure spegnere la luce fin che si vuole, ma la pace non si fa né con le marce né staccando il tubo del gas: al massimo, chiudendo il riscaldamento si battono i denti. Dunque, se gli amici dell’Osservatore Romano vogliono proprio fare qualche cosa di utile, recitino l’Avemaria per scongiurare la Terza guerra mondiale. Dalla quale, lo ricordo a me e a loro, checché ne dicesse Mario Draghi, non ci si difende abbassando il termostato. La libertà infatti non si misura in gradi Celsius.
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Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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