2025-02-26
«Proietti un maestro, Manfredi il top. Più che i progetti, scelgo le persone»
L’attore romano Giorgio Tirabassi: «Gigi cercava un ragazzo che sapesse ballare, io ero una pippa ma con lui ho iniziato così Il film su Borsellino è la cosa migliore che ho fatto. Rimpiango la rinuncia a “Concorrenza sleale” di Scola».Giorgio Tirabassi porta sulle spalle l’eredità di un maestro che ha saputo abbattere ogni barriera tra sé e il pubblico: Gigi Proietti. Per nove anni hanno diviso il palcoscenico, poi Tirabassi ha spiccato il volo verso il cinema d’autore e la televisione di qualità e con la simpatia naturale che lo contraddistingue ha sempre reso onore alle sue origini.Quando è che ha iniziato ad avere la passione per il cinema? «Come gioco, fin da bambino, perché andavo al cinemino di quartiere, poi tornavo a casa e rifacevo le scene dei film che avevo visto, soprattutto i western. Il primo ricordo è Per un pugno di dollari in cui obbligavo mio fratello a fare la parte di Gian Maria Volonté, mentre io interpretavo il ruolo di Clint Eastwood: “Al cuore, Ramon, al cuore!”».Nell’adolescenza ha continuato a recitare per gioco. «Poi mi sono fatto prendere dal pallone e dalla musica. Un professore di lettere delle superiori ci portò a teatro a vedere Il volpone di Ben Jonson con Mario Scaccia e un Gabriele Lavia giovanissimo, e lì sono rimasto abbastanza colpito. Avevo sedici anni. Poi andai a vedere Gigi Proietti in A me gli occhi, please e seguii la stagione del Teatro Tenda a piazza Mancini, organizzato da Carlo Molfese, dove passarono Dario Fo, Jango Edwards, Eduardo De Filippo, Vittorio Gassman. Però, essendo balbuziente, non pensavo assolutamente a recitare».Come mai ha cambiato idea? «Con gli anni questo “handicap” si è un po’ affievolito, per cui mi sono iscritto, a 19 anni, a una scuola di recitazione, in più già facevo ginnastica artistica, quindi più che altro ero bravo come mimo, con il corpo. Era un periodo teatrale in cui c’erano gli spettacoli d’avanguardia, la sperimentazione, quindi trovavo collocazione in spettacoli allestiti da compagnie che nascevano e morivano in pochi mesi. Dopo ho fatto il militare a Firenze e mi sono iscritto a un’altra scuola di recitazione. Ho debuttato sostituendo un’amica che faceva in uno spettacolo un ruolo da uomo, Alioscia, ne La leggenda del grande inquisitore de I fratelli Karamazov. Ho fatto le cose più disparate, dall’animazione dei ragazzi agli spettacoli comici, poi nel 1982 feci un provino per entrare in compagnia con Proietti e sono rimasto con lui per nove anni».Ricorda questo provino? «Come no! Al Teatro Flaiano, tramite Ennio Coltorti, il suo aiuto regista, il quale mi disse che Gigi cercava un ragazzo che sapesse ballare… io sono una pippa!».Ha bluffato? «Ho il senso del ritmo… Soprattutto amavo Proietti, è stata la molla che mi ha spinto a tentare questo mestiere, perché quando ho visto A me gli occhi, capì che c’era qualcosa a me affine, anche il fatto che usasse il dialetto, la musica e prendesse un po’ in giro l’attore classico. Questo spettacolo ha influenzato generazioni di attori, soprattutto romani, eravamo tutti quanti affascinati dal suo straordinario talento. Con il tempo mi sono ritrovato sul palco solo con lui, oltre al pianista. C’era un repertorio a due che all’inizio faceva Pietro De Silva, poi Pietro andò via e io presi il suo posto. Stavo in quinta e Gigi, mentre recitava, dava l’input per farmi capire che da lì a poco avremmo fatto un pezzo, io mi truccavo, mi vestivo e andavo in scena».Improvvisavate? «No, perché i pezzi erano sketches a due calibrati al millimetro. Quello che dovevi avere con lui, ed è il motivo per cui sono durato tanto, è il senso musicale. Era fondamentale non perdere mai una risata o un applauso. Quando facemmo Fantastico 4, rimanemmo a Milano da settembre a maggio perché, finita la trasmissione, facemmo uno spettacolo al teatro Manzoni e tutte le sere stavamo assieme. Dormivamo nello stesso residence, per cui cenavamo e, dopo cena, c’era il pianobar, la chitarra, si suonava e si raccontavano barzellette fino alle tre di notte. Umanamente era come un fratello maggiore».In quei nove anni ha fatto altro? «Ho fatto cinema, teatro con altre compagnie, spettacoli miei, ma quando andavo a lavorare con altri, mi portavo dietro il bagaglio dell’esperienza con Proietti. Il mestiere importante l’ho imparato sul palcoscenico con lui. Una sera ci dovevamo esibire a una Festa dell’Unità e c’era una marea di gente. Durante le prove foniche, io gli davo i tempi come facevamo normalmente e invece lui mi disse: “No, no, qui è diverso, perché con 20.000 persone la risata sarà più lunga”. La risata di una folla è come la risacca del mare, quindi tutto si rallenta. Questo lo capisci a orecchio, a istinto, non c’è un manuale che leggi a pagina cinque...».Era un perfezionista? «Assolutamente. Io non l’ho visto perdere una risata in dieci anni di palcoscenico».Ricorda un pezzo memorabile con lui? «Una parodia di Bruto e Cassio, dove c’era una specie di Senato romano e noi attori della compagnia eravamo immobili, con dei teli bianchi, in pose plastiche. Considera che c’era molto divertimento in scena perché Gigi spesso faceva delle battute per farci ridere, tutte cose interne alla compagnia. Entrava in scena, nei panni di Cassio, e siccome c’era del fumo diceva: “Ma faranno bene ’sti bagni turchi?”. Ogni replica aggiungeva una battuta fino a che l’introduzione è diventata uno dei suoi pezzi più belli, il pezzo di Toto, veniva giù il teatro. “Povero Toto, un amico mio c’è scomparso, si chiamava Toto…”. Noi dovevamo stare fermi immobili, ma chiaramente ridevamo. In tante repliche ha fissato tutto quello che improvvisava, perché in questo era straordinario, fino a che ha sostituito Bruto e Cassio con questo pezzo di Toto».Perché è uscito dalla sua compagnia? «Per tanti anni ho fatto da spalla, lavoro molto onorevole, però avevo poche possibilità di crescere perché Gigi era stra-protagonista, a parte qualche trasmissione televisiva dove avevo uno spazio mio e c’era la possibilità di fare degli sketches anche senza di lui con altri attori della compagnia. Quando ho smesso di lavorare con lui, ho cominciato a fare del cinema con Marco Risi, Francesca Archibugi, Carlo Mazzacurati. Avevo 31 anni».Il primo film? «Snack Bar Budapest di Tinto Brass. Lì per lì quando me lo proposero, dissi: “No, per carità”, poi capii che avrei avuto tutte le mie scene con Giancarlo Giannini che adoravo da sempre, il quale mi ha anche un po’ sgrezzato. Io ero abituato a eseguire pedissequamente le istruzioni di Proietti o di altri registi teatrali e lui mi ha detto: “Ma qui non ti inventi niente? Fai così…” e quindi ho capito che l’attore può anche essere un autore. Poi ho lavorato per più di un anno per la serie Un commissario a Roma con Nino Manfredi, secondo me forse il più bravo di tutti. Una grande scuola. Ho avuto modo di lavorare in Verso sera anche con Marcello Mastroianni, che aveva una personalità completamente diversa. Avendo un bagaglio tecnico forte, tutti questi attori erano soddisfatti quando lavoravamo assieme perché ero preciso e puntuale, davo i tempi giusti».Negli anni Novanta ha interpretato una serie di film calati nella periferia romana, come Un’altra vita, Il branco, L’odore della notte, che le hanno dato una certa notorietà. «Forse più all’interno dell’ambiente, perché la notorietà vera è arrivata con le serie televisive, Distretto di Polizia, Ultimo e Paolo Borsellino, la cosa più bella che ho fatto. Ogni volta sembra un miracolo che riesci a fare questo mestiere, così dai sempre il meglio che puoi, in qualunque situazione. Ho sempre cercato di non prendere le cose troppo alla leggera, per cui non ho accettato i film di Pierino e, quando facevo la televisione con Proietti, Drive In e Il Bagaglino. Ho un certo gusto che mi ha portato, piuttosto, ad accettare parti minori, ma sempre in film di qualità».Un film epocale a cui ha partecipato era L’ultimo Capodanno di Marco Risi, un film sfortunato. «Hanno visto che il primo fine settimana non ha incassato quello che pensavano e l’hanno ritirato per farlo uscire in un periodo migliore. È stato un errore per le sale cinematografiche perché, poi, invece è diventato un blockbuster, le videocassette erano sempre noleggiate, l’hanno visto tutti alla fine».È ancora oggi modernissimo. «Alcuni film acquistano valore con il tempo. C’era un’idea di scrittura interessante di Niccolò Ammaniti. Io e Ricky Memphis avevamo già lavorato ne Il branco e Risi ci mise assieme a Natale Tulli, uno storico generico. Mi fermano ancora adesso per le battute sulle olive ascolane. Con Ricky, poi, abbiamo fatto Ultimo e quando pensavo a un complice per il mio debutto alla regia ne Il grande salto era assolutamente lui, perché non dobbiamo neanche parlare, siamo una coppia di fatto!».Ha pensato a un secondo film da regista? «Sì, mi piacerebbe, ma dirigere un film richiede tempi lunghi. Avevo cominciato con un cortometraggio, Non dire gatto, che ha vinto il David di Donatello, ma per fare Il grande salto sono passati quasi vent’anni e ho faticato tantissimo per realizzarlo. Ha avuto buoni consensi, però ha avuto problemi di distribuzione perché dicevano che era un film drammatico. Ho una storia, ma occorre un produttore che mi aiuti e mi protegga, perché un film deve essere protetto. Oggi se proponi alle piattaforme una storia non riconoscibile, quel prodotto non è vendibile, almeno che non abbia un grande cast. I chiaroscuri non pagano più. Meglio fare l’attore, poco e con le persone giuste. Più che i progetti adesso scelgo le persone, anche perché ho 65 anni di età, 45 anni di contributi e da gennaio percepisco la pensione».Quindi può scegliere tra le varie proposte. «Per fortuna sono tanti anni che posso scegliere. Non sceglievo quando ero proprio ragazzo, che avevo i figli piccoli, ma anche in quel periodo sono stato veramente fortunato, sono veramente felice di come sia andata. Quando ho cominciato era proprio un’incognita: in uno dei primi spettacoli che ho fatto, Histoire de l’œil di Georges Bataille, ero nudo come un verme al teatro Dell’Orologio! L’unica rinuncia che mi brucia è Concorrenza sleale di Ettore Scola perché ero impegnato con Distretto di Polizia».
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