2023-08-21
Giorgio Battisti: «Così i russi hanno fermato la controffensiva ucraina»
Il generale: «Zelensky farà un ultimo tentativo di sfondamento, poi sarà stallo. Sul Niger Usa e Ue sono divisi. Ma qualunque cosa accadrà, ne approfitteranno Isis e al-Qaeda».Giorgio Battisti, Generale di Corpo d’Armata, ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan. La controffensiva ucraina procede lentamente ed è chiaro a tutti che la guerra durerà ancora a lungo. Come valuta la situazione?«Dopo oltre due mesi la troppo preannunciata controffensiva ucraina (iniziata il 4 giugno) non è riuscita a sfondare le munite e articolate linee difensive avversarie per raggiungere il Mar d’Azov e tagliare così in due lo schieramento russo. Lo sforzo condotto dall’esercito ucraino ha consentito di ottenere sino ad ora limitati guadagni territoriali su di un fronte di oltre 1.000 km, intaccando marginalmente le posizioni avanzate russe. Lo stesso presidente Zelensky ha ammesso che l’attacco è stato lanciato troppo tardi ed ha attribuito questo fatto alla tempistica nelle forniture di armi e di equipaggiamenti occidentali, che hanno consentito a Mosca di organizzare efficacemente le proprie difese (campi minati, ostacoli anticarro, tre linee di resistenza, sistema di postazioni contro-carro, ecc.)».Se gli ucraini avranno a disposizione gli F16 potrà cambiare l’esito del conflitto?«La possibilità di ottenere a breve i velivoli multiruolo F-16, che secondo Kiev dovrebbero “fare la differenza”, è stata smentita il 17 agosto dal portavoce dell’Aeronautica ucraina a causa dei ritardi nell’avvio dell’addestramento dei piloti (solo 6 sono in possesso di un’adeguata conoscenza della lingua inglese); la consegna sarebbe ora prevista nel corso del 2024. Le cause di questi limitati risultati possono essere attribuite a vari motivi tra loro complementari: pressione di agire da parte dei vertici dell’Alleanza Atlantica e dell’Ue, affrettato addestramento per conseguire gli standard occidentali, dottrina Nato non adeguatamente assimilata dai comandanti, arruolamento di personale giovane ed inesperto e/o troppo anziano, mancanza della superiorità aerea e di una valida difesa controaerea sul campo di battaglia. Occorre inoltre sottolineare le difficoltà di natura logistica, di coordinamento e di amalgama che hanno incontrato gli ucraini nell’impiego di oltre un centinaio di diversi sistemi d’arma principali forniti in questi mesi dall’Occidente. Sicuramente non è stato rispettato nessuno dei fondamentali principi dell’arte della guerra, quali la sorpresa, l’inganno, la velocità dell’azione e la sincronizzazione degli sforzi e degli assetti impiegati».Quale è stato il più grande errore di Vladimir Putin? «Nella convinzione che gli ucraini accogliessero le truppe russe tra due ali di folla festosa e con il lancio di fiori, il presidente Putin, a mio avviso, a commesso almeno due errori. Il primo, quello di fidarsi ciecamente dei propri più stretti collaboratori (servizi d’intelligence, vertici militari) che hanno verosimilmente espresso valutazioni e indicazioni troppo ottimistiche o incomplete; un fatto che si riscontra nelle oligarchie dove i collaboratori cercano di fornire la “soluzione di cattedra”, ovvero quella che più aggrada al capo. Il secondo errore è stato di non fare riferimento alla recente storia di quel Paese. Nei primi anni Trenta del secolo scorso Stalin ha affamato la popolazione ucraina che non voleva adeguarsi alla sovietizzazione della società provocando dai 3 ai 5 milioni di morti (genocidio chiamato Olodomor). Nella Seconda Guerra Mondiale, dopo l’attacco nazista all’Unione Sovietica (1941), circa 50.000 ucraini si sono arruolati nelle unità germaniche, soprattutto nelle SS. Quando, infine, i tedeschi sono stati costretti a ritirarsi dall’Ucraina per l’offensiva sovietica, è iniziata una resistenza armata al ritorno dei russi (1944) durata sino al 1956 (fenomeno che ha interessato tutti i Paesi dell’Europa dell’Est). Con questa aggressione Putin ha provocato in sostanza quattro risultati a lui sfavorevoli: ha trasformato il presidente Zelensky da “comico” a leader di guerra, ha creato una forte identità nazionale nella popolazione ucraina, ha ridato vigore all’Alleanza Atlantica e ha convinto Finlandia e Svezia ad abbandonare la loro tradizionale neutralità». Chi può vincere questa guerra?«In un ultimo tentativo di sfondare il fronte, prima dell’autunno, risulterebbe (da fonti sia occidentali sia russe) che gli ucraini abbiano immesso in combattimento (il 16 agosto) nel settore centrale di Donetsk-Zaporizhia, considerato quello principale, le ultime e più efficienti riserve operative (addestrate dalla Nato) equipaggiate con carri britannici Challenger 2, veicoli corazzati da combattimento Marder 1 tedeschi e Stryker statunitensi. Qualora questo ultimo sforzo diretto a conquistare la città di Melitopol sul Mar d’Azov non portasse a risultati di rilevo, il fronte si stabilizzerà – come avvenuto lo scorso anno – anche per l’approssimarsi tra meno di due mesi delle piogge autunnali, che renderanno il movimento fuori strada estremamente difficile per i mezzi pesanti causa le condizioni del terreno. Tale scenario, unitamente all’elevato tasso di logoramento morale, psicologico, materiale e, soprattutto, umano raggiunto dai due contendenti, potrebbe portare di fatto ad una situazione di stallo di tipo coreano, non necessariamente a seguito di un concordato “cessate il fuoco”». Lei è stato più volte in Afghanistan e sulle sue missioni ha scritto un libro con Germana Zuffanti dal titolo Fuga da Kabul. A due anni dalla fuga degli occidentali cosa resta dell’Afghanistan?«La situazione generale in Afghanistan è in progressivo peggioramento per le decisioni talebane di applicare provvedimenti sempre più restrittivi in ambito sociale ed umanitario, specie per le donne e le bambine. L’ultimo rapporto di Unama di giugno-luglio 2023 riporta chiaramente questa triste realtà, ampiamente prevedibile due anni fa con il loro ritorno al potere. Gli “studenti coranici” continuano a cercare ed eliminare i collaboratori dei contingenti occidentali e gli appartenenti alle Forze Armate e di Polizia del precedente governo, hanno mantenuto ed esteso l’accoglienza a diversi gruppi terroristici islamisti (al-Qaeda, pakistani, uiguri, ecc.) e sono entrati in contrasto per vari motivi, anche con aspri combattimenti, con i Paesi confinanti. Anche se controllano l’intero Paese, inoltre, i talebani continuano a dover affrontare l’opposizione – seppur non organizzata – di gruppi armati come il Fronte Nazionale di Resistenza e l’Afghanistan Freedom Front. Tutto quello di negativo che si pronosticava allora è avvenuto nel massimo silenzio occidentale». Spostiamoci in Niger: come valuta la situazione? «La situazione in Niger, come emerge dalle cronache, rimane molto incerta. Il colpo di Stato del 26 luglio è il sesto golpe che avviene nei Paesi del Sahel dal 2020. L’eventuale intervento militare dell’Ecowas rischia di provocare un conflitto regionale dall’evoluzione imprevedibile, tenuto conto degli interessi economici, commerciali e politici che hanno diversi Stati nel Sahel. Alla minaccia di un’azione dell’Ecowas, inoltre, il Mali e il Burkina Faso, retti da un governo militare, hanno annunciato che interverranno in favore del Niger, che a sua volta avrebbe chiesto il supporto della Wagner. In merito, si riscontra come sempre una posizione diversa da parte di Usa e dei Paesi dell’Ue. La Francia, che rischia di perdere il controllo di una ulteriore sua ex colonia, è favorevole e pronta a supportare l’intervento dell’Ecowas; altri Stati Ue, tra cui l’Italia, oscillano tra l’azione diplomatica e l’applicazione di sanzioni; gli Stati Uniti non prendono una chiara posizione in quanto sono solo interessati a combattere i terroristi, tenuto anche conto che hanno speso oltre 100 milioni di dollari per realizzare una base di droni ad Agadez (al momento non operativa per la chiusura dello spazio aereo sopra il Niger). Un intervento multinazionale richiede, comunque, la messa in atto di una organizzazione e struttura operativa complessa che non si imposta in pochi giorni. Ed è per questo che l’Ecowas ha rimandato più volte la decisione dell’intervento, confidando che i militari nigerini sentendosi minacciati accettino di ritornare nelle caserme. Qualunque cosa accada, comunque, le formazioni terroristiche affiliate all’Isis e ad al-Qaeda ne gioveranno per estendere la propria attività ed influenza, tenuto conto che le forze armate locali sono ora orientate ad un confronto diretto tra di loro e i contingenti stranieri sono chiusi nelle basi».Infine, lei si trova in questi giorni a Taiwan per una serie di conferenze sulla sicurezza regionale, ci descrive la situazione sull’isola? «La realtà sul posto è diversa da quella riportata spesso dai media. La popolazione taiwanese non vive nel timore di una incombente aggressione della Cina comunista. Quando si passeggia per le vivaci vie di Taipei non si ha l’impressione di una società che si aspetta un attacco imminente: a Taiwan non si vive come in Israele. Diversa è la realtà nelle Forze Armate e negli ambienti governativi, che ritengono inevitabile un conflitto con la Cina e sono convinti che l’invasione non sia una questione di “se” ma di “quando”. Indubbiamente la situazione è cambiata dal 2013 quando è diventato presidente della Repubblica Popolare di Cina Xi Jinping; da quell’anno, ad esempio, Taiwan risulta il Paese con il maggiore numero di attacchi cyber del mondo. Per Xi Jinping l’occupazione di Taiwan (isola che non è mai stata sotto il governo comunista) riguarda la propria legittimazione politica e si richiama due aspetti. Il primo è concernente ad interessi di natura economica e strategica, quali poter estendere le acque di giurisdizione cinese oltre i 100 km dello stretto di Taiwan, dove passa oltre il 60% del commercio mondiale; il secondo è relativo ad aspetti simbolici e valoriali attinenti a recuperare l’immagine di dignità del Paese, dopo il secolo (scorso) della vergogna, e a sviluppare una visione di grande potenza sullo scenario internazionale. In sostanza, con l’occupazione di Taiwan la Cina diventerebbe un Paese con proiezione marittima nel grande Indo-Pacifico; senza Taiwan Pechino rimane un Paese a connotazione “terrestre”».