2023-03-13
Gianclaudio Torlizzi: «Col green e l’austerità la Ue spinge le aziende a trasferirsi negli Usa»
Gianclaudio Torlizzi (https://www.t-commodity.com/)
L’esperto di materie prime: «Rinunciare al fossile terrà i prezzi alle stelle, rialzare i tassi non servirà. L’America investe, noi no».Gianclaudio Torlizzi fondatore di T-Commodity. Consulente su tutto ciò che è materie prime ed energia. Autore, quasi due anni fa, di un libro profetico nonché consulente del ministro della Difesa. Oggi vanno di moda quelli come lei!«Prima della pandemia, eravamo conosciuti solo nella ristretta cerchia del comparto manifatturiero per ragioni comprensibili. Emerge poi, in tutta la sua violenza, il problema della scarsità delle materie prime. La questione è entrata nel dibattito».Siamo cresciuti in un mondo dove le materie prime costavano nulla. Accendevi l’interruttore e la luce arrivava senza tanti problemi. Finita la guerra, torneremo al mondo di prima, giusto? «No! Il grande equivoco è pensare che, quando si dovesse arrivare a una tregua in Ucraina, il prezzo dell’energia e delle materie prime possa tornare sui livelli pre-pandemici. Tesi che io contesto fortemente nel mio libro Materia rara. Vedevo già allora - e non eravamo in guerra - le avvisaglie di ciò che chiamo super ciclo rialzista». Quali?«Da un lato l’implementazione delle politiche climatiche e dall’altro la necessità delle economie occidentali di riportare in casa fasi del processo produttivo delocalizzate nelle economie emergenti. Si chiama reshoring. Due elementi che conferiscono strutturalità al rialzo dei prezzi». Nel mondo di prima, le aziende occidentali delocalizzavano in Vietnam. Oggi Basf e Volkswagen vanno in America. Non ci sto capendo più niente, Torlizzi. «La guerra in Ucraina ha avuto non un effetto ma due. Allontanare la manifattura occidentale non solo dagli approvvigionamenti energetici russi ma anche dalle lunghe catene di fornitura cinesi. Un costo enorme per quelle aziende che avevano fatto della delocalizzazione un loro punto di forza per tenere sotto controllo i costi di produzione e i prezzi di vendita. Ma ora i nodi arrivano al pettine soprattutto in Europa».Perché?«Il processo comporta notevoli investimenti da parte dei governi proprio per incentivare le aziende a riportare in casa buona parte della produzione. Ma mentre gli Stati Uniti sono molto determinati e mettono sul tavolo tanti soldi, l’Ue per fare la stessa cosa dovrebbe disconoscere l’austerità di bilancio; suo elemento fondativo. Vorrebbe rimpatriare le produzioni quasi a costo zero o comunque mettendo sul tavolo non tutti quei soldi che sarebbero necessari». La Bce affronta l’inflazione nel più classico dei modi: aumenta i tassi di interesse. Ma lei sul punto esprime riserve e critiche!«È un metodo vecchio che nel mondo di oggi non funziona più. L’Occidente, e soprattutto l’eurozona, deve fronteggiare tre criticità. La prima è quella di difendere lo standing di valuta di riserva per dollaro ed euro. Questo richiede tassi alti oggi».Le altre due?«È necessario incentivare l’accorciamento della supply chain rimpatriando fasi del processo produttivo prima delocalizzate all’estero, incoraggiare le strategie di transizione energetica che ci siamo prefissi. E non parliamo dell’aumento delle spese militari necessarie soprattutto in prospettiva. Gli Usa abbandoneranno gradualmente il tavolo europeo per concentrarsi sul fronte asiatico. Questo richiede incentivi ed investimenti; soldi che però una politica monetaria restrittiva toglie dal sistema. L’ultima criticità riguarda l’impatto dell’aumento dei tassi sul costo dei debiti pubblici in Europa. Ecco perché, a mio modesto avviso, dovremo arrivare ad una soluzione innovativa, strutturata e fuori dagli schemi».Cioè?«Le banche centrali dovranno aumentare i tassi a breve, ma mantenendo sotto controllo quelli a lungo termine proprio per evitare stress sui conti pubblici ed incentivare gli investimenti. Anche perché questa crisi energetica, e la conseguente inflazione, sono il risultato della sotto capacità produttiva a sua volta determinata anche da politiche di austerità. L’inflazione la si combatte aumentando l’offerta, non riducendo la domanda».Lei dice che la Cina ha abbassato l’inflazione bruciando carbone…«La Cina ha subìto per prima una pesante crisi energetica nell’estate del 2021 a causa di un esteso fenomeno di siccità. Questo ha compromesso la generazione di energia da fonti idroelettriche. Pesanti le ricadute in termini di arresto del ciclo produttivo di cui ha risentito anche l’industria europea ritrovatasi a corto di ferroleghe prodotte in Cina. Prodotti energivori per definizione. È stato un campanello di allarme per la leadership cinese. Questa ha capito di essersi spinta troppo oltre con le rinnovabili e con l’implementazione di politiche climatiche. C’è stato quindi un robusto ritorno alle fonti fossili, fra cui appunto, il carbone. Il prezzo dell’energia è sceso drasticamente. Oggi la Cina ha un’inflazione intorno all’1% contro l’8,5% dell’eurozona. Un divario di competitività a tutto discapito della nostra industria».La Cina continua a fare incetta di materie prime (rame, alluminio, mais, frumento) a differenza nostra?«Sì. La Cina sta anche comprando oro. In un contesto di crescente deglobalizzazione, chi ha le materie prime vince. Primo, perché controlla le pressioni inflazionistiche sulla propria economia dando un ulteriore valore aggiunto alla propria industria. E una volta ottenuto il controllo delle materie prime, puoi trasformarle in vere e proprie armi di pressione e conflitto. Il processo che chiamiamo di weaponization. Vi è poi un altro aspetto spesso trascurato…».Ovvero?«La Cina non ha al suo interno una grande disponibilità mineraria. Però ha ottenuto negli ultimi anni un controllo diretto e indiretto sulle capacità estrattive di Paesi produttori come Indonesia e tanti Paesi africani. Ma soprattutto, il vero collo di bottiglia riguarda le capacità di raffinazione di questi materiali. Non devi solo estrarli, ma pure lavorarli. E qui la Cina ha quasi il monopolio. Sono fasi del processo produttivo altamente impattanti da un punto di vista ambientale che peraltro annullano ogni possibile ambizione ecologista. Rimango peraltro stupefatto dai proclami dell’Ue».Quali?«Annuncia trionfalisticamente che nel 2030 avremo ridotto al 70% del totale la nostra dipendenza dalla Cina quanto ad importazione di terre rare. Premesso che è comunque un obiettivo irrealistico, ma è comunque tantissimo». Ci spiega perché il mondo non può andare avanti a rinnovabili?«Tralasciamo per un momento l’aspetto geostrategico legato al fatto che per avere quell’energia servono materie prime di cui la Cina è di fatto monopolista…»E già basterebbe!«Appunto. C’è un problema di intermittenza legato al fatto che le energie rinnovabili dipendono da fenomeni meteorologici. Questo è stato evidentissimo nel 2021 anche in Europa. Ha tirato poco vento soprattutto a nord e ciò ha compromesso fortemente la generazione di energia da fonti eoliche. In una fase storica in cui la Germania abbandonava il nucleare coi verdi al governo. L’effetto paradossale è stato il ritorno a fonti fossili come gas e carbone. E l’emissione di Co2 ha raggiunto ovviamente il picco a livello mondiale».Le fonti fossili sono imprescindibili? «È ciò che sta emergendo anche dal dibattito in Usa. Due devono essere le gambe. Rinnovabili e fossili. Queste ultime assicurano regolarità di approvvigionamento rispetto alle rinnovabili caratterizzate da intermittenza fisiologica. O qualcuno pensa di alimentare un’acciaieria con i pannelli solari?».Sicuramente ha con sé la sfera di cristallo. Ci dica da dove ci arriverà il gas una volta finita la guerra!«Dai Paesi produttori di gas liquefatto come Usa e Qatar. Dobbiamo però attendere fino al 2027, prima che la capacità produttiva di gas liquefatto possa aumentare. Da qui ad allora assisteremo a continue aste ad accaparrarsi il carico delle navi in circolazione».Altro fattore di pressing sui prezzi…«Dovremo cioè sperare che la Cina non cresca troppo, perché se aumenta la sua domanda possiamo immaginare la dinamica dei prezzi. Cosa bizzarra considerando che l’attuale leadership cinese ha riaffermato il controllo con l’obiettivo di spingere sull’ulteriore accelerazione dell’economia. I cinesi stanno intanto tornando sul mercato del gnl, ed infatti i prezzi al Ttf di Amsterdam - sospinti anche dai problemi riscontrati in una centrale nucleare francese - stanno aumentando del 20%. A 50 euro a megawattora. Consideri che l’equilibrio del nostro sistema industriale nel quinquennio 2015-2020 si basava su un prezzo medio di 15 euro. Prezzi che arrivano a 80 euro sono inaccessibili e disincentivano investimenti sulle strategie di transizione energetica. A questo si aggiunga un problema di percezione dell’insostenibilità delle politiche climatiche europee».Ovvero?«Parlavo giorni fa con un mio cliente operante nel settore shipping. C’è una palese ritrosia a seguire i diktat di Bruxelles. Vi è la convinzione che queste politiche ambientali siano insostenibili e debbano essere, quanto meno, rimodulate. Chi lo fa fare di spingere su investimenti seguendo politiche che si pensa possano essere addirittura cestinate? Puoi darti tutti gli obiettivi di decarbonizzazione che vuoi. Ma se le relative politiche non sono poi sostenibili?».E neanche possiamo investire come Italia più di tanto sul gas africano, visto che l’Europa dice che dal 2050 dovremmo farne a meno. «Un cortocircuito che non farà altro che far aumentare il potere ricattatorio della Cina che non si è data obiettivi di decarbonizzazione così stringenti. Quindi ha stipulato importanti accordi di fornitura a medio lungo termine sul gas liquefatto. Cosa a noi preclusa. Se quindi un domani dovessimo tornare sotto stress, dovremmo addirittura acquistare il gas di Qatar e Stati Uniti via Cina. Il gnl, che già costa strutturalmente di più, sarebbe ancora più antieconomico».