2024-07-08
Germano Dottori: «Per sostituire Biden c’è poco tempo»
Germano Dottori (Imagoeconomica)
L’esperto: «A oggi, l’unica con più voti di Trump nei sondaggi è Michelle Obama. Probabilmente alla Casa Bianca è stato creato un gabinetto informale che orienta il presidente. Se Donald vince, farà una nuova Yalta».Germano Dottori, in quanto consigliere scientifico di Limes ed autore de La visione di Trump (Salerno editrice, 2019), il pressing per indurre Biden a ritirarsi dalla corsa alle presidenziali è ormai insistente ed inesorabile. Dovrà rassegnarsi o potrà resistere?«Siamo di fronte ad una situazione di fatto inedita. Il presidente in carica, l’incumbent come viene definito in inglese, ha prevalso nelle primarie del suo partito senza incontrare avversari, ma forse non è in grado di sostenere il peso e i ritmi di una vera campagna elettorale. È ormai forte la sensazione che Joe Biden sia affetto da una qualche forma di malattia degenerativa la cui progressione sta accelerando. Per questo motivo si sta facendo largo il convincimento che Biden non sia in grado di battere Trump e governare gli Stati Uniti nei prossimi quattro anni. Di qui le pressioni sul presidente: perché è lui a dover compiere il passo indietro, cui nessuno può costringerlo. E il tempo per decidere non è più tanto, perché stanno per scattare in alcuni Stati dell’Unione i termini ultimi per la formalizzazione delle candidature». Di sicuro se non viene risolta in fretta la diatriba, tutto questo fuoco amico contro Biden finirà per indebolire ulteriormente la candidatura.«Deve essere necessariamente risolta rapidamente, altrimenti chiunque sostituirà Biden non potrà essere votabile in tutti gli Stati dell’Unione, almeno a legislazione vigente. In qualche caso, si dovrebbero varare rapidamente delle modifiche alle normative locali e non è certo che dove amministrano i repubblicani lo consentirebbero. In effetti, lo scenario è straordinario».Qualora cedesse è prefigurabile un candidato alternativo all’attuale vicepresidente Kamala Harris?«Qualora Biden facesse il passo indietro, i democratici dovrebbero nominare al suo posto una personalità già nota al grande pubblico americano, perché non ci sono i tempi necessari a costruire da zero una candidatura di respiro nazionale. Tutto questo restringe fortemente il novero delle opzioni disponibili. È evidente che la vicepresidente Kamala Harris non può essere ignorata: sarebbe una scelta nel solco della continuità. Peraltro, la Harris non è l’unica personalità affermata e riconoscibile per l’elettore medio. Lo sono anche Hillary Clinton, che nel 2016 prese più voti di Trump ed è sicuramente in grado di sostenere un duello televisivo con lui, e il governatore della California Gavin Newsom, che da tempo conduce una campagna propria, seppure non ufficiale. Ovviamente, c’è anche Michelle Obama, la quale sulla carta sarebbe in questo momento l’unica persona in grado di prendere più voti di Trump, ma che non vanta l’esperienza politica necessaria a sostenere uno o due dibattiti televisivi con il candidato repubblicano. Occorre sottolineare che questi duelli sono prove di difficoltà tutt’altro che trascurabile: si tratta di 90 minuti, il tempo di una partita di calcio, durante i quali i due rivali debbono rispondere in piedi in modo convincente a domande su ogni questione politica rilevante senza poter avere alcun contatto con il proprio staff». Si sostiene un po’ ovunque che la Harris sia addirittura più impopolare di Biden…«I sondaggi dipingono al momento una situazione nella quale tutti i potenziali candidati democratici diversi da Michelle Obama sono accreditati di percentuali inferiori a quelle di Donald Trump. Tuttavia, le rilevazioni sono fatte ora, in un momento in cui non è stata intrapresa alcuna iniziativa di promozione elettorale delle candidature alternative a quella di Biden». È stata inedita la scelta di anticipare il primo dibattito presidenziale a giugno. Sa che i complottisti si danno una spiegazione maliziosa. È stato un modo per mettere subito in discussione il presidente uscente.«Il termine “complottista”, che traduce in italiano l’aggettivo inglese “cospiratorio”, andrebbe bandito. Nella patria di Machiavelli non lo possiamo accettare, perché il complotto è parte essenziale dell’esperienza politica. La politica è infatti competizione e conflitto, che implicano anche il ricorso all’occultamento: le strategie di chiunque ambisca a una posizione di potere non possono essere di dominio pubblico. Al livello della politica internazionale è proprio questo dato di fatto a giustificare l’esistenza dei servizi d’intelligence. Quindi è possibile che sia stato proprio così: per avere il tempo di sostituire Biden. A quanto sappiamo, però, l’entourage di Biden avrebbe chiesto di anticipare i confronti televisivi nella speranza di bloccare l’emorragia di consensi che era già in atto: un calcolo che si è rivelato incredibilmente sbagliato ed è sintomatico di un certo scollamento dalla realtà». Chi comanda davvero dentro il Partito democratico Usa?«La vera domanda non è questa, ma un’altra: in questo momento chi assume davvero le decisioni più importanti alla Casa Bianca? Non si sa, ma è probabile che sia stato creato un gabinetto informale, che si riunisce con il presidente per preparare le opzioni ed orientare Biden a scegliere quelle più gradite. Quanto al Partito democratico, non esiste nulla di simile ai segretari di partito della Prima Repubblica italiana. C’è invece un novero di personalità influenti che si fanno valere in vario modo. Ovviamente, gli incarichi che ciascuno ricopre, ad esempio al Congresso, hanno un peso».Le presidenziali si giocano in realtà in sei sette Stati-chiave. Qual è la situazione ad oggi?«Al momento, Trump è in vantaggio. Ma questo vuol dire molto poco. Non solo perché di fatto ancora non si sa chi sarà davvero il candidato democratico, ma perché incidono tante altre variabili. Il Partito democratico è molto più capillarmente organizzato di quello repubblicano e i suoi militanti sono più efficaci nella raccolta delle schede votate, il cosiddetto harvesting. È un fattore che potrebbe pesare. Se poi prevarrà - come è successo in alcuni Stati quattro anni fa - il criterio di far votare chiunque risieda nel territorio, anziché solo coloro che con il documento d’identità comproveranno di essere cittadini americani, è possibile che votino molti non aventi diritto, le cui intenzioni di voto non sono sondate. Va precisato che non sarebbero brogli, perché è tutto perfettamente legale, negli Stati dell’Unione in cui queste pratiche sono ammesse».Trump chi nominerà come suo vice?«Ci sono varie possibilità, ma al momento nessuna è specialmente più credibile di un’altra. Sarebbero molto affascinanti dei ticket in cui la posizione di vice fosse attribuita a Robert Kennedy junior o a Tulsi Gabbard: ma il primo è indisponibile e la seconda un’opzione poco probabile. Occorre tener presente che chiunque sarà il vice di un eventuale Trump presidente sarebbe destinato con il tempo ad assumere un peso sempre maggiore, anche per succedere al tycoon alla fine del suo mandato. Va tenuto d’occhio Vivek Ramaswamy, che ha di recente visitato anche l’Italia nel quadro di un tour internazionale che tende molto verosimilmente a preparare gli alleati degli Stati Uniti ad una seconda presidenza Trump». Si dice che se vincesse Trump, l’America si ritirerebbe nel suo orticello. Lei ci crede?«Il cambiamento di postura degli Stati Uniti non è un dato congiunturale ma un processo di lungo periodo, di cui Trump non è il promotore ma soltanto l’interprete più radicale. L’americano medio non comprende più per quali ragioni il proprio Paese debba farsi carico di tutti i mali del mondo e porvi rimedio, specialmente quando farlo avvantaggia i suoi rivali e competitori. È Biden ad aver materialmente ritirato senza condizioni i soldati statunitensi da Kabul e i consiglieri militari che aiutavano Zelensky, non Trump. Il pubblico statunitense è certamente ancora disponibile ad accettare impegni all’estero, ma solo selettivamente e funzionalmente all’interesse nazionale». Con Trump alla Casa Bianca come cambierebbero i rapporti fra Ue e Usa?«La differenza sarebbe solo nell’intensità e velocità del processo che vi ho descritto. Sul piano della sicurezza, dovranno espandersi le nostre responsabilità, non solo come Europa, ma anche come Italia. In campo commerciale, avremmo gli Usa più assertivi. Di contro, però, possiamo aspettarci da un’amministrazione Trump un più forte impegno a negoziare accordi che tendano alla stabilità globale. Sono persuaso che il tycoon desideri legare il proprio nome ad una seconda Yalta, nella quale verrebbero ridisegnati i confini delle sfere d’influenza delle maggiori potenze mondiali». Si aspetta quali cambiamenti nella politica estera americana qualora vincesse Trump?«Mi aspetto il ritorno all’approccio visto nel primo mandato: nuovi accordi di Abramo in Medio Oriente, nessuna demonizzazione degli interlocutori, perseguimento della stabilità globale e rinuncia all’esportazione del sistema di valori occidentali nel mondo: cioè self restraint, ovvero auto-limitazione, tutto il contrario di quello che si dice in giro». Dopo le elezioni inglesi, quale analisi è possibile fare un po’ più a freddo?«Una volta il Regno Unito cambiava maggioranza ogni cinque anni: adesso l’alternanza si realizza più lentamente. Dubito che Londra modificherà la sua postura geopolitica i cui tratti salienti sono la ricerca di una sfera d’influenza significativa nell’Atlantico settentrionale e nel Baltico, ovviamente nel contesto di un’intesa di fatto con gli Stati Uniti che per certi versi è già evidente».
Jose Mourinho (Getty Images)