2018-08-15
Ore 11.50: un fulmine, Ponte Morandi crolla e taglia Genova in due. 35 morti, c’è un bimbo
Ansa
Genova, 14 agosto 2018, alle 11.50 ponte Morandi crolla. Sotto la pioggia battente che da ore flagella la città, il tratto del viadotto autostradale Polcevera, nel punto in cui sovrasta l'omonimo torrente, la ferrovia e il quartiere industriale, si schianta al suolo all'improvviso. Un boato enorme e poi il silenzio.
Dopo un volo di 45 metri circa 200 metri del viadotto collassano sulla strada sottostante. Trascinano nel vuoto auto e mezzi pesanti fermi in colonna, che stavano attraversando il viadotto, e seppelliscono le persone e i mezzi che passavano sotto. Il bilancio delle vittime è altissimo e ancora non definitivo. Sono 35 quelle accertate, tra cui un bambino di appena 10 anni, 16 i feriti, di cui tre in codice rosso e tre in codice giallo, una decina di dispersi e tanti altri in stato di choc.
Ponte Morandi non è un viadotto qualsiasi. È un pezzo della città. Una strada che i genovesi attraversano ogni giorno. Lungo più di un chilometro e sospeso nel vuoto, la sua sagoma inconfondibile fa da cerniera tra le due metà del capoluogo ligure e attraversa un intero quartiere. Insieme alla sopraelevata unisce la zona ovest al centro, costeggiando il porto. Sopra al ponte, oltre al traffico autostradale di chi punta verso Milano, passano migliaia di genovesi, che usano quel tratto come tangenziale. Sotto ci sono abitazioni, magazzini, aziende. E c'è via Perlasca, frequentatissima.
Il tratto che si è sgretolato si è sganciato dal resto del ponte con un cedimento secco. È finito soprattutto nel torrente, ma i detriti hanno travolto i mezzi di passaggio sulla strada che lo costeggia: è proprio tra chi si trovava sopra e sotto al viadotto che si registrano le vittime finora accertate. Auto e camion volati giù insieme all'ammasso di cemento si sono polverizzati a terra inghiottiti da una montagna di macerie. E per chi passava sotto la sorte è stata identica. Tra gli edifici colpiti ci sono quelli del centro Amiu, l'azienda ambientale del Comune, che ha gli uffici proprio di fianco al ponte. Una parte del fabbricato risulta distrutta, due furgoni e un camion sono stati schiacciati.
Eppure poteva andare peggio: esattamente sotto al viadotto, in corrispondenza del tratto rimasto in piedi, ci sono enormi palazzoni, con centinaia di famiglie residenti. Se il crollo avesse coinvolto anche quel tratto sarebbe stata un'ecatombe. Nel pomeriggio di ieri, infatti, tutte le abitazioni della zona sono state evacuate per timore di nuovi cedimenti e sono decine le famiglie che non possono far ritorno nelle proprie abitazioni, alcune delle quali ospitate in strutture del Comune.
I soccorsi sono scattati subito. A mani nude per tutta la giornata 250 tra Vigili del fuoco e soccorritori hanno lavorato tra le macerie, assistiti dalle forze dell'ordine e coordinati dalla Protezione civile. All'ospedale Villa Scassi di Genova, dove è subito scattata l'allerta, tre persone sono state ricoverate in codice rosso. Hanno fratture e schiacciamenti a livello del torace, traumi cranici e alla colonna vertebrale. Si trovavano alla guida dei loro mezzi e sono stati travolti. Tanti anche i traumatizzati psichici accompagnati in ospedale dai soccorritori, soprattutto donne e bambini sotto choc dopo aver assistito all'evento. Le loro condizioni erano tali che, nel pomeriggio, è stata allestita per l'occasione un'unità psicologica e psichiatrica dedicata.
Anche la viabilità cittadina è andata in tilt: autostrada chiusa, con ripercussioni fino al confine con la Francia dove i mezzi pesanti sono stati fermati alla frontiera, mentre i detriti hanno ostruito per ore le vie circostanti il cratere impedendo il deflusso delle auto verso Val Polcevera. Eppure, nonostante gli appelli delle autorità a tenersi a distanza, tanti genovesi si sono mossi verso la zona del disastro, per vedere con i propri occhi quello che sembrava impossibile fino a poco prima. Sotto il ponte passa anche la ferrovia, che però non è stata colpita dal crollo. Il traffico è rimasto, comunque, bloccato fino alle 14 e sul nodo di Genova si sono registrati pesanti rallentamenti.
Sulle cause del crollo non c'è ancora nessuna ipotesi precisa. Ponte Morandi è un'opera inaugurata nel 1967, da sempre oggetto di importanti manutenzioni e bersaglio di critiche. In questo periodo «erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto», ha fatto sapere ieri in una nota la società Autostrade, precisando che la sicurezza del ponte non era considerata a rischio. «I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza», continua la società, garantendo che «le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi».
Alcuni testimoni hanno raccontato che un fulmine avrebbe colpito il ponte pochi istanti prima del crollo. «Erano da poco passate le 11,30 quando abbiamo visto il fulmine colpire un pilone», hanno spiegato all'Ansa «e il ponte è venuto giù». L'ipotesi del fulmine «non è stata confermata né accertata nel corso del comitato operativo», ha precisato in serata la Protezione civile.
Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo
L'Italia non dimenticherà mai quel suo grido disperato: «Oddio, oddio, oddio, oh Dio Santo». Davide Di Giorgio è un ragazzone allegro ed estroverso. Lavora all'Ansaldo Energia ed è appassionato di teatro. Davide ha ripreso il crollo, ha pubblicato il video su Facebook: 26 secondi di puro terrore. I bagliori dei cavi dell'energia elettrica tranciati, il ponte che si sfarina e viene giù, quelle urla disperate, sono già parte della storia dei più immani disastri del nostro paese. «Mi sento male», dice Davide prima di interrompere la ripresa. Genova spezzata, Genova terrorizzata.
Il pronto soccorso dell'ospedale Villa Scassi di Sampierdarena, quello più vicino al luogo della tragedia, accoglie i feriti ma anche decine di persone in stato di choc. Uomini e donne che hanno visto con i loro occhi il ponte crollare, altri che erano passati di lì cinque minuti prima che venisse giù tutto, o che si sono fermati giusto in tempo: sono vivi per miracolo e hanno il terrore negli occhi. Nel pronto soccorso viene allestita una unità di supporto psicologico, l'impatto emotivo per i genovesi è stato terribile.
La differenza tra la vita e la morte si misura in secondi e in centimetri: pochissimi quelli che separavano due camion che stavano percorrendo il ponte Morandi, uno dietro l'altro, quando si è scatenato l'inferno. Quello dietro, verde, è rimasto sul ciglio della voragine che si è aperta davanti agli occhi dell'autista, rimasto vivo. Quello davanti, bianco con una scritta rossa, è caduto giù, e per il conducente è stata la fine.
Chi non crede ai miracoli, ascolti la testimonianza di Davide. Il ragazzo è volato giù insieme alla sua auto. Dall'ambulanza racconta la sua incredibile storia al Secolo XIX: «Sono andato giù col ponte, non so cosa mi ha salvato. Sono finito di sotto, è caduto tutto proprio mentre passavo. Ora sono in ambulanza, sono uscito dall'auto con le mie gambe». La vigilia di Ferragosto è un momento di svago, ma la morte non va in vacanza. Due famiglie uguali: papà, mamma, un bambino, l'autoradio accesa e tanta voglia di divertirsi. Una delle due famiglie non c'è più: è rimasta schiacciata sotto le macerie, i soccorritori hanno visto i corpi dilaniati dalle lamiere accartocciate, schiacciati da tonnellate di maledetto calcestruzzo.
«All'interno dell'auto», raccontano i Vigili del fuoco, «c'erano anche ombrelloni e valigie». Un altro papà, un'altra mamma e un altro bambino, invece, sono vivi. Questione di secondi, di centimetri: «Eravamo stati al centro commerciale», racconta l'uomo al Secolo XIX, «e stavamo tornando da corso Perrone quando abbiamo sentito un tuono fortissimo e abbiamo visto crollare tutto. Dietro di me c'era una macchina e avevo paura di non riuscire a fare retromarcia. Per fortuna quello dietro di me si è spostato e siamo andati in retromarcia per un centinaio di metri, mentre veniva giù di tutto. Abbiamo mollato la macchina. Mia moglie», aggiunge, «ha preso il bambino e siamo scappati verso Cornigliano. Tremo ancora, è stato terribile».
Decine di sopravvissuti raccontano lo stesso film dell'orrore. Protagonista, la retromarcia: mentre il ponte si sbriciolava davanti a loro, hanno tentato di ingranarla, prima di rendersi conto che la strada era bloccata e l'unica speranza era fuggire a piedi. Christian ha smesso di fumare da dieci anni, ma chiede una sigaretta. «Sono un miracolato», dice a una cronista dell'Ansa, «ero in macchina a 100 metri dal punto del crollo quando ho sentito tremare la strada sotto di me e mi sono fermato sulla corsia di sinistra. Ma non so dire perché l'ho fatto, subito dopo ho visto il ponte che si sbriciolava. Sono sceso dalla macchina e mi sono messo a correre più che potevo», aggiunge, «non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Una cosa da fine del mondo, mi rendo conto adesso di cosa ho scampato. La strada dondolava tutta, io sono scappato, urlavo: correte, correte e tutti scappavano. Ho visto il camion bianco in bilico, poi… è andato giù. L'autista», chiede, «sarà morto, vero? Ci sono morti, vero?».
Lo chiede a tutti, Christian: «Quanti morti ci sono?». Nessuno ha il coraggio di rispondergli. Lui si volta, guarda la parte di ponte rimasta in piedi, sospesa tra la vita e la morte, e ripete: «Cosa ho scampato». Gianluca, 28 anni, autotrasportatore, diventerà papà tra un mese. La sua compagna, Giulia, arriva al policlinico San Martino, dove Gianluca è stato ricoverato: «Il mio compagno», racconta Giulia, «è rimasto appeso al suo camion e io penso che sia rimasto attaccato alla vita per amore del suo bambino che sta arrivando. Ora lo stanno operando, ha molte fratture ma non è in pericolo di vita. Del suo collega non si hanno ancora notizie. Non so di più», aggiunge Giulia, «perchè non l'ho ancora visto e non vedo l'ora di poterlo abbracciare». A pochi metri, un camionista racconta l'incubo al Corriere Tv: «Ero dentro al camion», dice l'uomo, «ho sentito un boato e sono volato via. Sono andato a urtare contro un muro e poi sono caduto per una decina di metri. Mi sembrava di volare, non ricordo altro. Ho solo una slogatura e una contusione all'anca, penso sia stato un miracolo».
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Collassano 200 metri del cavalcavia autostradale, i veicoli cadono nel vuoto e sulle case. I testimoni parlano di un lampo.Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo. Il racconto di chi ha visto la morte in faccia. Un papà sotto choc: «La strada spariva e temevo che non sarei riuscito a fare retromarcia». Camionista miracolato: «Sono volato via, ho solo una slogatura».Lo speciale contiene due articoli. Genova, 14 agosto 2018, alle 11.50 ponte Morandi crolla. Sotto la pioggia battente che da ore flagella la città, il tratto del viadotto autostradale Polcevera, nel punto in cui sovrasta l'omonimo torrente, la ferrovia e il quartiere industriale, si schianta al suolo all'improvviso. Un boato enorme e poi il silenzio. Dopo un volo di 45 metri circa 200 metri del viadotto collassano sulla strada sottostante. Trascinano nel vuoto auto e mezzi pesanti fermi in colonna, che stavano attraversando il viadotto, e seppelliscono le persone e i mezzi che passavano sotto. Il bilancio delle vittime è altissimo e ancora non definitivo. Sono 35 quelle accertate, tra cui un bambino di appena 10 anni, 16 i feriti, di cui tre in codice rosso e tre in codice giallo, una decina di dispersi e tanti altri in stato di choc. Ponte Morandi non è un viadotto qualsiasi. È un pezzo della città. Una strada che i genovesi attraversano ogni giorno. Lungo più di un chilometro e sospeso nel vuoto, la sua sagoma inconfondibile fa da cerniera tra le due metà del capoluogo ligure e attraversa un intero quartiere. Insieme alla sopraelevata unisce la zona ovest al centro, costeggiando il porto. Sopra al ponte, oltre al traffico autostradale di chi punta verso Milano, passano migliaia di genovesi, che usano quel tratto come tangenziale. Sotto ci sono abitazioni, magazzini, aziende. E c'è via Perlasca, frequentatissima. Il tratto che si è sgretolato si è sganciato dal resto del ponte con un cedimento secco. È finito soprattutto nel torrente, ma i detriti hanno travolto i mezzi di passaggio sulla strada che lo costeggia: è proprio tra chi si trovava sopra e sotto al viadotto che si registrano le vittime finora accertate. Auto e camion volati giù insieme all'ammasso di cemento si sono polverizzati a terra inghiottiti da una montagna di macerie. E per chi passava sotto la sorte è stata identica. Tra gli edifici colpiti ci sono quelli del centro Amiu, l'azienda ambientale del Comune, che ha gli uffici proprio di fianco al ponte. Una parte del fabbricato risulta distrutta, due furgoni e un camion sono stati schiacciati. Eppure poteva andare peggio: esattamente sotto al viadotto, in corrispondenza del tratto rimasto in piedi, ci sono enormi palazzoni, con centinaia di famiglie residenti. Se il crollo avesse coinvolto anche quel tratto sarebbe stata un'ecatombe. Nel pomeriggio di ieri, infatti, tutte le abitazioni della zona sono state evacuate per timore di nuovi cedimenti e sono decine le famiglie che non possono far ritorno nelle proprie abitazioni, alcune delle quali ospitate in strutture del Comune. I soccorsi sono scattati subito. A mani nude per tutta la giornata 250 tra Vigili del fuoco e soccorritori hanno lavorato tra le macerie, assistiti dalle forze dell'ordine e coordinati dalla Protezione civile. All'ospedale Villa Scassi di Genova, dove è subito scattata l'allerta, tre persone sono state ricoverate in codice rosso. Hanno fratture e schiacciamenti a livello del torace, traumi cranici e alla colonna vertebrale. Si trovavano alla guida dei loro mezzi e sono stati travolti. Tanti anche i traumatizzati psichici accompagnati in ospedale dai soccorritori, soprattutto donne e bambini sotto choc dopo aver assistito all'evento. Le loro condizioni erano tali che, nel pomeriggio, è stata allestita per l'occasione un'unità psicologica e psichiatrica dedicata. Anche la viabilità cittadina è andata in tilt: autostrada chiusa, con ripercussioni fino al confine con la Francia dove i mezzi pesanti sono stati fermati alla frontiera, mentre i detriti hanno ostruito per ore le vie circostanti il cratere impedendo il deflusso delle auto verso Val Polcevera. Eppure, nonostante gli appelli delle autorità a tenersi a distanza, tanti genovesi si sono mossi verso la zona del disastro, per vedere con i propri occhi quello che sembrava impossibile fino a poco prima. Sotto il ponte passa anche la ferrovia, che però non è stata colpita dal crollo. Il traffico è rimasto, comunque, bloccato fino alle 14 e sul nodo di Genova si sono registrati pesanti rallentamenti. Sulle cause del crollo non c'è ancora nessuna ipotesi precisa. Ponte Morandi è un'opera inaugurata nel 1967, da sempre oggetto di importanti manutenzioni e bersaglio di critiche. In questo periodo «erano in corso lavori di consolidamento della soletta del viadotto», ha fatto sapere ieri in una nota la società Autostrade, precisando che la sicurezza del ponte non era considerata a rischio. «I lavori e lo stato del viadotto erano sottoposti a costante attività di osservazione e vigilanza», continua la società, garantendo che «le cause del crollo saranno oggetto di approfondita analisi». Alcuni testimoni hanno raccontato che un fulmine avrebbe colpito il ponte pochi istanti prima del crollo. «Erano da poco passate le 11,30 quando abbiamo visto il fulmine colpire un pilone», hanno spiegato all'Ansa «e il ponte è venuto giù». L'ipotesi del fulmine «non è stata confermata né accertata nel corso del comitato operativo», ha precisato in serata la Protezione civile. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/genova-crollo-2595891904.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="christian-ho-inchiodato-in-tempo-davide-e-precipitato-pero-e-vivo" data-post-id="2595891904" data-published-at="1766492884" data-use-pagination="False"> Christian: «Ho inchiodato in tempo». Davide è precipitato, però è vivo L'Italia non dimenticherà mai quel suo grido disperato: «Oddio, oddio, oddio, oh Dio Santo». Davide Di Giorgio è un ragazzone allegro ed estroverso. Lavora all'Ansaldo Energia ed è appassionato di teatro. Davide ha ripreso il crollo, ha pubblicato il video su Facebook: 26 secondi di puro terrore. I bagliori dei cavi dell'energia elettrica tranciati, il ponte che si sfarina e viene giù, quelle urla disperate, sono già parte della storia dei più immani disastri del nostro paese. «Mi sento male», dice Davide prima di interrompere la ripresa. Genova spezzata, Genova terrorizzata. Il pronto soccorso dell'ospedale Villa Scassi di Sampierdarena, quello più vicino al luogo della tragedia, accoglie i feriti ma anche decine di persone in stato di choc. Uomini e donne che hanno visto con i loro occhi il ponte crollare, altri che erano passati di lì cinque minuti prima che venisse giù tutto, o che si sono fermati giusto in tempo: sono vivi per miracolo e hanno il terrore negli occhi. Nel pronto soccorso viene allestita una unità di supporto psicologico, l'impatto emotivo per i genovesi è stato terribile. La differenza tra la vita e la morte si misura in secondi e in centimetri: pochissimi quelli che separavano due camion che stavano percorrendo il ponte Morandi, uno dietro l'altro, quando si è scatenato l'inferno. Quello dietro, verde, è rimasto sul ciglio della voragine che si è aperta davanti agli occhi dell'autista, rimasto vivo. Quello davanti, bianco con una scritta rossa, è caduto giù, e per il conducente è stata la fine. Chi non crede ai miracoli, ascolti la testimonianza di Davide. Il ragazzo è volato giù insieme alla sua auto. Dall'ambulanza racconta la sua incredibile storia al Secolo XIX: «Sono andato giù col ponte, non so cosa mi ha salvato. Sono finito di sotto, è caduto tutto proprio mentre passavo. Ora sono in ambulanza, sono uscito dall'auto con le mie gambe». La vigilia di Ferragosto è un momento di svago, ma la morte non va in vacanza. Due famiglie uguali: papà, mamma, un bambino, l'autoradio accesa e tanta voglia di divertirsi. Una delle due famiglie non c'è più: è rimasta schiacciata sotto le macerie, i soccorritori hanno visto i corpi dilaniati dalle lamiere accartocciate, schiacciati da tonnellate di maledetto calcestruzzo. «All'interno dell'auto», raccontano i Vigili del fuoco, «c'erano anche ombrelloni e valigie». Un altro papà, un'altra mamma e un altro bambino, invece, sono vivi. Questione di secondi, di centimetri: «Eravamo stati al centro commerciale», racconta l'uomo al Secolo XIX, «e stavamo tornando da corso Perrone quando abbiamo sentito un tuono fortissimo e abbiamo visto crollare tutto. Dietro di me c'era una macchina e avevo paura di non riuscire a fare retromarcia. Per fortuna quello dietro di me si è spostato e siamo andati in retromarcia per un centinaio di metri, mentre veniva giù di tutto. Abbiamo mollato la macchina. Mia moglie», aggiunge, «ha preso il bambino e siamo scappati verso Cornigliano. Tremo ancora, è stato terribile». Decine di sopravvissuti raccontano lo stesso film dell'orrore. Protagonista, la retromarcia: mentre il ponte si sbriciolava davanti a loro, hanno tentato di ingranarla, prima di rendersi conto che la strada era bloccata e l'unica speranza era fuggire a piedi. Christian ha smesso di fumare da dieci anni, ma chiede una sigaretta. «Sono un miracolato», dice a una cronista dell'Ansa, «ero in macchina a 100 metri dal punto del crollo quando ho sentito tremare la strada sotto di me e mi sono fermato sulla corsia di sinistra. Ma non so dire perché l'ho fatto, subito dopo ho visto il ponte che si sbriciolava. Sono sceso dalla macchina e mi sono messo a correre più che potevo», aggiunge, «non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Una cosa da fine del mondo, mi rendo conto adesso di cosa ho scampato. La strada dondolava tutta, io sono scappato, urlavo: correte, correte e tutti scappavano. Ho visto il camion bianco in bilico, poi… è andato giù. L'autista», chiede, «sarà morto, vero? Ci sono morti, vero?». Lo chiede a tutti, Christian: «Quanti morti ci sono?». Nessuno ha il coraggio di rispondergli. Lui si volta, guarda la parte di ponte rimasta in piedi, sospesa tra la vita e la morte, e ripete: «Cosa ho scampato». Gianluca, 28 anni, autotrasportatore, diventerà papà tra un mese. La sua compagna, Giulia, arriva al policlinico San Martino, dove Gianluca è stato ricoverato: «Il mio compagno», racconta Giulia, «è rimasto appeso al suo camion e io penso che sia rimasto attaccato alla vita per amore del suo bambino che sta arrivando. Ora lo stanno operando, ha molte fratture ma non è in pericolo di vita. Del suo collega non si hanno ancora notizie. Non so di più», aggiunge Giulia, «perchè non l'ho ancora visto e non vedo l'ora di poterlo abbracciare». A pochi metri, un camionista racconta l'incubo al Corriere Tv: «Ero dentro al camion», dice l'uomo, «ho sentito un boato e sono volato via. Sono andato a urtare contro un muro e poi sono caduto per una decina di metri. Mi sembrava di volare, non ricordo altro. Ho solo una slogatura e una contusione all'anca, penso sia stato un miracolo».
Il Napoli festeggia la Supercoppa italiana dopo aver battuto il Bologna 2-0 a Riyadh (Ansa)
A Riyadh il Napoli conquista la seconda Supercoppa italiana della sua storia battendo 2-0 il Bologna. La finale si decide tra la fine del primo tempo e l’inizio della ripresa con la doppietta del brasiliano. Conte: «I ragazzi trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia». Italiano: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Questa esperienza ci farà crescere».
Il Napoli è supercampione d’Italia. A Riyadh gli azzurri battono 2-0 il Bologna e conquistano la seconda Supercoppa italiana della loro storia, chiudendo la finale già all’inizio della ripresa con la doppietta di Neres. In una finale mai realmente sfuggita al controllo degli azzurri è stata la squadra di Antonio Conte a confermarsi supercampione d’Italia. Il Bologna è rimasto in gara soltanto nel primo tempo fino al momento in cui il lampo di Neres ha abbagliato prima Ravaglia e poi tutti i 17.869 spettatori del Al-Awwal park, compresi i cosiddetti figuranti che durante la partita non hanno comunque fatto mancare la propria partecipazione da una parte e dall’altra urlando «Napuli, Napuli, Napuli» o «Bulugna, Bulugna, Bulugna»; ma che arrivato il triplice fischio di Colombo hanno pensato bene di abbandonare in fretta e furia lo stadio senza godersi nemmeno lo spettacolo della premiazione.
Fermo restando che il bilancio degli spettatori presenti alla finalissima ha comunque superato di circa un migliaio quello della semifinale di venerdì tra Bologna e Inter, va al tempo stesso sottolineato per dovere di cronaca che per evitare un colpo d’occhio non da finale le due curve del secondo anello sono state coperte con teloni raffiguranti il logo della Supercoppa e quelli dei club. Ma lo spettacolo è stato soprattutto quello confezionato dalla Lega Serie A prima del calcio d’inizio, con la passerella sul prato per alcune leggende del calcio italiano, da Roberto Baggio e Alessandro Del Piero a Fabio Capello, Christian Vieri e Marco Materazzi, Leonardo Bonucci, Ciro Ferrara, Vincent Candela e Christian Panucci. A completare lo show prepartita un mix di giochi di luci laser, getti di fuoco a bordo campo e fuochi d’artificio a illuminare il cielo di Riyadh. Finito lo spettacolo, finalmente il campo.
Conte non ha toccato nulla rispetto alla semifinale vinta contro il Milan e ha confermato l’undici titolare con Neres e McTominay ad agire alle spalle di Hojlund. Vincenzo Italiano, privo di Bernardeschi, ha inserito Cambiaghi e rilanciato Ferguson in mediana al posto di Moro. Per gran parte del primo tempo il Bologna ha provato a reggere l’urto generato dalle fiammate napoletane con attenzione difensiva, con la coppia dei centrali Heggem-Lucumi praticamente perfetta e un Ravaglia ancora una volta protagonista assoluto come contro l’Inter. La prima vera occasione è arrivata al 10’, quando Elmas è entrato in area da sinistra e ha calciato fuori a tu per tu con Ravaglia. È il segnale di un dominio territoriale che si è consolidato col passare dei minuti. Il Bologna ha tenuto, ma ha faticato a ripartire e si è affidato soprattutto alle iniziative di Orsolini. Al 31’ McTominay è andato vicino al vantaggio, poi al 37’ Spinazzola ha provato lo scavetto, trovando ancora la risposta del portiere rossoblù. Il muro, però, è crollato al 39’: Neres ha ricevuto su una rimessa laterale apparentemente innocua, si è spostato il pallone sul mancino e ha disegnato una traiettoria imparabile sotto l’incrocio. È l’1-0 che ha indirizzato la finale in maniera decisiva.
Nella ripresa il Napoli è infatti ripartito forte. Ravaglia ha salvato su Hojlund e Rrahmani, ma il Bologna può recriminare per non aver sfruttato la più grande occasione per rimettersi in carreggiata: al 55’ Orsolini ha sfondato a destra e servito Ferguson, che di testa non è riuscito però ad angolare, facilitando la presa di Milinkovic-Savic. È l’episodio che avrebbe potuto riaprire la gara. Un minuto dopo, invece, è arrivato il colpo del ko. Il raddoppio è un mix di pressione e errore: Heggem ha appoggiato corto, Ravaglia ha giocato male su Lucumi e Neres si è avventato sul pallone, anticipando tutti e superando il portiere con un tocco sotto per la doppietta personale. La finale è finita lì. Conte ha gestito, Italiano ha provato a cambiare uomini ma non l’inerzia. Il Napoli ha sfiorato anche il 3-0 nel finale, mentre il Bologna si è spento progressivamente, con qualche tentativo velleitario di Rowe.
Al fischio finale è festa azzurra sotto le luci dell’Al-Awwal Park, con il trofeo sollevato al cielo di Riyadh da Di Lorenzo sulle note di ’O surdato ’nnammurato. Secondo trofeo per Conte alla guida del Napoli, conferma di una squadra che ha saputo trasformare la Supercoppa in una naturale estensione della stagione precedente.
Nelle parole dei protagonisti c’è la fotografia della serata. Conte ha celebrato la voglia di vincere dei suoi e ha reso onore al Bologna: «Siam venuti qui per difendere lo Scudetto sulla maglia e difendere il motivo perchè abbiamo lo Scudetto sulla maglia. Abbiamo fatto un’ottima semifinale contro il Milan che è una grandissima squadra. Oggi abbiamo battuto il Bologna, non parlerei di rivincita ma faccio i complimenti ai ragazzi perché trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia. Complimenti a loro quindi. Però nella vittoria vorrei sottolineare ciò che sta facendo il Bologna: complimenti a loro, sono cresciuti tantissimo, una certezza è diventata, come l’Atalanta. Ha eliminato l’Inter, in campionato ci ha battuto e grande merito a Vincenzo Italiano e onore non solo ai vincitori ma anche a chi non ha vinto. Non mi piace dire sconfitti. Vanno i miei più grandi complimenti». Italiano, invece, ha fatto i complimenti ai suoi ragazzi e rivendicato il percorso: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Merito al Napoli. Noi ci dobbiamo portare dentro questa bellissima esperienza e secondo me cresceremo ancora perché dobbiamo affrontare altre tre competizioni importanti e questa esperienza ci insegnerà tanto. Mi dispiace per la nostra gente, ma noi abbiamo dato il massimo, ma ripeto merito al nostro avversario che è una squadra fortissima che oggi secondo me ha over performato e ha fatto una partita straordinaria. Noi abbiamo dato e di questo nessuno può dire nulla. Cercheremo di fare meglio in futuro».
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I servizi di emergenza polacchi sul luogo dell'incidente di un drone nel villaggio di Wohyn, nella Polonia orientale, lo scorso 10 settembre (Ansa)
Qualche volta le paure finiscono addirittura nel ridicolo, come nel caso di un’incursione aerea nei cieli di Varese. Nella primavera scorsa il sistema di sicurezza del centro di ricerca della commissione europea di Ispra aveva segnalato l’incursione di un drone sopra la sede della divisione elicotteri di Leonardo, a Vergiate. Subito era scattato l’allarme e si era ipotizzato che il velivolo fosse stato fatto sorvolare dai russi, allo scopo di carpire i segreti della principale azienda italiana impegnata nel settore della Difesa. A distanza di mesi, l’inchiesta ha invece accertato che non si trattava di un’attività spionistica di agenti al servizio di Putin, ma semplicemente di un’interferenza generata da un software difettoso, perché usato senza rispettare le indicazioni del produttore, e di un amplificatore di segnale Gsm, comprato su Amazon da un ignaro italiano che voleva aumentare la ricezione del suo cellulare tra le mura della sua casa. Sì, il pericolo non arrivava da Mosca né dalle mire espansionistiche del Cremlino, ma da una villetta di Ispra il cui segnale disturbava i rilevatori dell’istituto di ricerca della Commissione europea. Insomma, tanta paura per nulla.Ma se si riavvolge il nastro degli ultimi mesi, non si tratta della prima volta in cui i fischi vengono scambiati per fiaschi. Il ministro della Difesa danese Troels Lund Poulsen di recente ha dovuto ammettere che le incursioni di velivoli senza pilota su vari aeroporti del Paese al momento non sono riconducibili alla Russia. Nelle settimane scorse era infatti scattato l’allarme per il timore di un attacco ibrido, ma poi si è scoperto che i droni non erano arrivati da lontano, ma erano decollati localmente. Dunque, a meno di ipotizzare la presenza di spie al soldo di Putin a pochi chilometri da Copenaghen, quella che pareva una minaccia in realtà era più probabilmente l’azione di qualche privato, un po’ come nel caso della villetta di Ispra. Del resto, quelle che negli ultimi mesi sono state presentate come operazioni russe di disturbo, quasi sempre dopo qualche settimana sono state ridimensionate a incidenti o errori. Prendete il drone sulla Polonia caduto a fine settembre. Subito si era parlato di un velivolo russo, ma poi si è scoperto che a sfondare il tetto di un’abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, non era un aereo senza pilota lanciato dai russi, ma un missile polacco difettoso, sparato da un F-16 per abbattere alcuni droni entrati nello spazio aereo di Varsavia, probabilmente perché la loro traiettoria era stata deviata dai sistemi elettronici di Kiev. Sì, insomma, non un attacco ma un incidente provocato dalla difesa ucraina e polacca. A inizio settembre c’era poi stato «l’attacco» al volo su cui viaggiava il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Anche allora le principali testate parlarono di una manovra di sabotaggio del sistema aereo da parte della Russia, notizia rivelatasi poi priva di fondamento e smentita da Bruxelles. La sindrome dell’aggressione gioca dunque brutti scherzi, o forse qualcuno sta provando a forzare la mano perché a forza di lanciare allarmi capiti un incidente, magari con una risposta preventiva a un presunto attacco. Del resto, non è quello che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone, immaginando non una reazione di difesa, ma una di offesa per dare un segnale ai russi. Che cosa voglia dire un intervento preventivo ve lo potete immaginare. Di solito è così che cominciano le guerre. In fondo non c’è un motto secondo cui chi colpisce per primo colpisce due volte? A quanto pare è la strategia militare a cui si ispirano alcuni comandanti che non vedono l’ora di fare la guerra invece che la pace.
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In un battibaleno, si è sgretolata l’inquietante spy story dalla Russia con amore: i tentativi di spionaggio erano, in realtà, un pasticciaccio elettronico. I pm hanno chiesto l’archiviazione. E il quotidiano di via Solferino ha relegato la notizia in un trafiletto. Al contrario, quando un apparecchio acquistato sul Web e un programma sino-lituano hanno generato una sfilza di falsi allarmi, i media, a titolo unificato, denunciavano l’ennesima incursione dei velivoli di Vladimir Putin.
Come lo scorso settembre a Copenaghen e Oslo, quando gli scali delle due capitali erano stati chiusi dopo l’avvistamento di «droni di grandi dimensioni». Passato qualche giorno, il ministro della Difesa danese è stato costretto a rettificare: nessuna prova che Mosca fosse coinvolta; gli apparecchi non erano arrivati «da una lunga distanza», anzi, erano stati lanciati «localmente». Il capo della diplomazia norvegese, intanto, escludeva «collegamenti» tra gli episodi capitati nei due Paesi scandinavi.
Non c’era la «mano russa» (per citare l’Ansa) nemmeno nell’incidente di tre mesi fa in Polonia, nella regione di Lublino. A sfondare il tetto di un’abitazione nel villaggio di Wyryki-Wola, per fortuna senza provocare vittime, era stato un aria-aria difettoso, scagliato da un F-16 decollato per abbattere i droni russi penetrati nello spazio aereo di Varsavia. Con ogni probabilità, erano stati dirottati dai meccanismi di difesa ucraini. «Tutto indica che si sia trattato di un missile partito da un nostro caccia», aveva dichiarato il coordinatore degli 007 polacchi, Tomasz Siemoniak. Il razzo farlocco costava 850.000 euro. Leggere i resoconti della stampa non ha prezzo. Il Sole24Ore, ad esempio, enfatizzava il monito di Sergio Mattarella: «Ci si muove su un crinale dal quale si può scivolare in un baratro di violenza incontrollato». Il capo dello Stato, evocando lo «scoppio della prima guerra mondiale, nel luglio 1914», parlava di un episodio «gravissimo». Ma sarebbe stato difficile invocare l’articolo 5 della Nato, sulla mutua assistenza bellica in caso di attacco, visto che l’attacco era un auto-attacco.
La Polonia era già stata teatro di un tragico equivoco. A novembre 2022, un ordigno, lì per lì identificato come russo, era caduto nel paesino di Przewodow, uccidendo due persone. «Mosca sotto accusa», segnalava Repubblica. Anche quella volta, però, la firma non era dello zar: «L’indagine condotta dalla Procura polacca», comunicò mesi dopo il ministro della Giustizia, «ha portato all’emissione di un parere che indica categoricamente che quel missile era ucraino». Ma «di produzione sovietica o russa», eh.
Per collegare il Cremlino all’esplosione del Nord Stream, a settembre 2022, era stata sufficiente la presenza, riportata ad esempio dal Messaggero, di «navi russe» nella zona dei gasdotti. I tedeschi, poi, avrebbero scoperto che in verità la «mano» era ucraina. Secondo lo Spiegel, uno dei presunti sabotatori, Serhij Kuznietzov, arrestato mentre si trovava a Rimini, al momento dell’attentato era in servizio in un’unità speciale dell’esercito di Kiev. Quasi quasi, toccava invocarlo davvero, l’articolo 5.
Pericolose interferenze, oltre che mettere in agitazione i siti di Leonardo in Lombardia, a inizio settembre hanno trasformato in un incubo un volo di Ursula von der Leyen, atterrato a Sofia con un’ora di ritardo. «Hacker manomettono il Gps dell’aereo», raccontava il Sole. I pirati informatici, naturalmente, battevano bandiera moscovita: «I russi mandano in tilt il Gps del volo di Von der Leyen», annunciava l’Ansa. Pure il Corriere riferiva, senza tema di smentita, di «interferenze dei russi». Peccato che le autorità bulgare avessero smentito: il jet, confermava in Parlamento il premier, non aveva subito «né interferenze né disturbi prolungati». Alla fine, la Commissione Ue stessa ha dovuto precisare di non aver «mai detto» che si fosse trattato di «un attacco rivolto «espressamente» contro la presidente. Autocrate che vai, trasporti che trovi: col Duce, i treni arrivavano in orario; con Putin, i voli atterrano in ritardo. O sconfinano in Estonia per 12 minuti, finendo intercettati dagli F-35 italiani; o si «avvicinano» alla Lettonia e vengono agganciati dai caccia ungheresi.
Adesso che la polizia tedesca ha censito oltre 1.000 incursioni di droni nel 2025, alla lista mancava solo un blitz della fanteria. Finalmente, la settimana scorsa, tre soldati russi in uniforme hanno attraversato il confine estone e sono rimasti in territorio Nato «per mezz’ora». L’invasione è cominciata. All’armi!
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Ansa
L’esplosione che ieri mattina ha ucciso il tenente generale Fanil Sarvarov ha scosso Mosca e l’intero apparato militare russo. L’attentato è avvenuto all’alba, quando l’auto di servizio del capo della Direzione per l’addestramento operativo dello Stato maggiore è stata distrutta da un ordigno collocato con un magnete sotto il veicolo (una Kia Sorento di colore chiaro), vicino al sedile del conducente. Secondo le ricostruzioni basate su fonti investigative russe citate dalle agenzie Tass e Rbk, la bomba sarebbe esplosa nel momento in cui Sarvarov ha azionato il freno. Le autorità hanno confermato la morte del generale e l’apertura di un’indagine per omicidio, mentre la Commissione investigativa ha fatto sapere che i rilievi sono iniziati immediatamente dopo la deflagrazione. Gli inquirenti puntano con decisione su una pista: il coinvolgimento dei servizi speciali dell’Ucraina. In serata, la commissione ha precisato che «una delle principali versioni allo studio riguarda il ruolo dei servizi d’intelligence ucraini».
Da Kiev non è arrivata alcuna rivendicazione né commenti ufficiali, ma i media russi ricordano che Sarvarov figurava da tempo nel database del sito nazionalista ucraino Myrotvorets, che ieri lo ha classificato come «liquidato». Un segnale interpretato a Mosca come una sorta di firma indiretta. Il Cremlino ha reagito con durezza. Il portavoce Dmitri Peskov ha dichiarato che «il presidente Vladimir Putin è stato informato immediatamente» dell’attentato e ha definito l’esplosione «un terribile omicidio» e «un atto terroristico diretto contro la Federazione russa». Ha aggiunto che «i responsabili saranno individuati e puniti», lasciando intendere che Mosca considera l’attacco parte di una strategia ostile che richiede una risposta. Le autorità non hanno fornito ulteriori dettagli, limitandosi a confermare l’apertura di un’indagine per omicidio e a ribadire che tutte le piste restano aperte.
Sarvarov, nato nel 1969 nella regione di Perm, aveva trascorso quasi tutta la carriera nelle forze corazzate, combattendo nelle campagne cecene e partecipando alle operazioni russe in Siria prima di entrare nei vertici dello Stato maggiore. Da due anni guidava la Direzione per l’addestramento operativo, un incarico cruciale nell’attuale fase del conflitto: a lui facevano capo la preparazione delle truppe di terra, l’aggiornamento delle tattiche d’impiego e la valutazione delle esperienze maturate sul fronte ucraino. Pur non essendo una figura mediatica, il suo ruolo era considerato strategico per mantenere lo sforzo bellico russo su livelli costanti nonostante le perdite e l’usura del conflitto.
L’uccisione di Sarvarov si inserisce in una serie di eliminazioni mirate che negli ultimi anni ha colpito tanto i vertici militari quanto alcuni volti simbolici del nazionalismo russo. Nell’agosto 2022 Daria Dugina, figlia dell’ideologo Aleksandr Dugin, era stata assassinata con un’autobomba nella regione di Mosca: l’ordigno, piazzato sotto la sua Toyota Land Cruiser, era esploso mentre rientrava da un festival culturale. Le autorità russe avevano attribuito l’attacco ai servizi speciali ucraini, mentre Kiev aveva negato ogni coinvolgimento. Nell’aprile 2023, a San Pietroburgo, era stato il turno del blogger militare Maksim Fomin. Noto come Vladlen Tatarsky e allineato sulle posizioni più radicali della propaganda patriottica, il blogger è rimasto ucciso nell’esplosione di un ordigno nascosto in una statuetta consegnatagli durante un evento pubblico: un attacco che provocò decine di feriti e suscitò forte clamore mediatico.
Nel dicembre 2024, invece, era stato ucciso il generale Igor Kirillov, capo delle truppe di difesa nucleare, biologica e chimica, colpito da una bomba nascosta in un monopattino elettrico: le autorità di Mosca avevano indicato Kiev come responsabile, mentre fonti dei servizi ucraini (Sbu) avevano confermato ai media il coinvolgimento, pur senza una rivendicazione ufficiale. Infine, lo scorso aprile, un ordigno collocato sotto la sua vettura ha ucciso a Mosca il generale Iaroslav Moskalik, figura di rilievo dello Stato maggiore. Si tratta di attacchi diversi per modalità ma accomunati, secondo le ricostruzioni russe, dall’intento di colpire personalità legate allo sforzo bellico o alla narrativa patriottica del Cremlino, a conferma di un conflitto che si è esteso ben oltre le linee del fronte. In questo contesto, infatti, la morte di Sarvarov rappresenta per Mosca un duro colpo soprattutto a livello simbolico: non un semplice comandante operativo, ma uno dei funzionari incaricati di garantire l’efficienza e la continuità dell’apparato militare impegnato in Ucraina. E la rapidità con cui il Cremlino ha parlato di «atto terroristico» indica che la risposta politica - qualunque forma assumerà - non tarderà ad arrivare.
Zelensky: «Risultati concreti vicini»
Dopo i due giorni di colloqui sulla pace in Ucraina con l’inviato americano, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, al club Shell Bay di Miami, il rappresentante del Cremlino, Kirill Dmitriev, si prepara ad aggiornare il presidente russo, Vladimir Putin, sugli ultimi sviluppi.
Ciò che emerge, al momento, è che le trattative tra la Russia e la Casa Bianca si sono concluse in un clima cordiale. Dmitriev ha scritto su X: «La prossima volta a Mosca», non escludendo quindi che il prossimo bilaterale con gli americani si possa tenere sul suolo russo. Nel frattempo, Witkoff ha descritto gli incontri con la delegazione ucraina e con quella russa con gli stessi termini: «Produttivi e costruttivi». Riguardo al faccia a faccia con Dmitriev, l’inviato americano ha aggiunto su X che «la Russia resta pienamente impegnata a raggiungere la pace in Ucraina» e che «apprezza molto gli sforzi e il sostegno degli Stati Uniti». A rispondere direttamente alle parole di Witkoff è stato lo stesso Dmitriev: «Grazie costruttori di pace per il vostro lavoro attento e instancabile».
In ogni caso vige la massima cautela. Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, in un’intervista a UnHerd, ha affermato che nonostante «tutte le questioni siano ora alla luce del sole», non è certo che venga raggiunto un accordo. Ha precisato che l’Ucraina «probabilmente perderà» la regione di Donetsk «tra 12 mesi o anche più avanti». E pare che «privatamente» i leader di Kiev ne siano consapevoli. Anche il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, ha riconosciuto «i lenti progressi» nei negoziati con Washington, ma ha puntato il dito contro «i dannosi e nefasti tentativi di un gruppo di Paesi influenti che cercano di far deragliare il processo diplomatico». Ha osservato che Mosca «è favorevole a un accordo di pace che garantisca il suo assetto costituzionale tenendo conto dei nuovi territori», ma esclude la tregua. Ryabkov ha anche ribadito la disponibilità russa a «formalizzare legalmente» l’impegno a non attaccare la Nato e l’Ue. Anche perché «permangono rischi significativi di uno scontro» tra Mosca e l’Alleanza atlantica «a causa delle azioni ostili e inappropriate dei Paesi europei». Sullo stesso tema è intervenuto Dmitriev: «L’Europa dovrebbe smettere di fomentare la Terza guerra mondiale con false narrazioni e imparare di nuovo la diplomazia». E affermando che è arrivato «il tempo di liberarsi dalla visione del mondo di Biden», ha aggiunto che «l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca indicano la strada». Ma Bruxelles, per ora, approva «la strada» del presidente francese, Emmanuel Macron: un portavoce della Commissione Ue ha espresso il benestare sulla volontà del leader francese di dialogare con l’omologo russo negli «sforzi per la pace».
Dall’altra parte, a esprimere ottimismo è il leader di Kiev, Volodymyr Zelensky. Riguardo alle trattative a Miami tra la delegazione ucraina e quella statunitense, pur aspettando «i dettagli» questa mattina, ha dichiarato: «Siamo molto vicini a un risultato concreto». Ha spiegato che «il piano prevede 20 punti» e che ci sono «garanzie di sicurezza» tra l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’Europa. A ciò si aggiunge «un documento separato» tra Kiev e Washington che riguarda «garanzie di sicurezza bilaterali» che «devono essere esaminate dal Congresso degli Stati Uniti». E ha annunciato che è in itinere «la prima bozza dell’accordo sulla ricostruzione dell’Ucraina». Questo non frena le sanzioni contro la Russia, anzi Zelensky ha dichiarato che, oltre ai russi e ai cinesi, nel mirino rientrano pure gli atleti: «Stiamo preparando misure sanzionatorie contro coloro che giustificano l’aggressione russa e promuovono l’influenza russa attraverso la cultura di massa, nonché contro gli atleti che utilizzano la loro carriera sportiva e l’attenzione del pubblico verso lo sport per glorificare l’aggressione russa».
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