2022-03-27
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: come si mangiano gli spaghetti
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Includere escludendo, il club degli intelligenti per decreto è sempre un giro avanti anche sul Natale. Dopo avere trasformato i pastori in migranti, i re Magi in attivisti pro Pal, la Madonna in una peripatetica, San Giuseppe in una drag queen e la stella cometa in un razzo su Gaza, non restava che cancellare Gesù Bambino. In attesa di farlo dal presepe, a Reggio Emilia lo hanno espulso dal canto più amato dai bimbi, Jingle Bells. Una deportazione canora in piena regola, messa a punto dai parolieri della scuola primaria San Giovanni Bosco (istituto comprensivo Ligabue) che hanno deciso l’epurazione religiosa dalla versione italiana per il consueto motivo peloso: non urtare la suscettibilità dei musulmani. I quali, peraltro, da anni vedono in questa gratuita sottomissione culturale uno dei segnali più evidenti della degenerazione dei valori occidentali.
Il laicismo intrinseco della canzone americana - nata nel New England per celebrare la festa del ringraziamento fra cavalli, slitte e campanelli - non bastava a soddisfare il fanatismo anticlericale progressista. Nel testo italiano c’è quel nome, Gesù, che in vista della recita di Natale infastidiva a pelle gli ayatollah del woke. Nessun problema, i Mogol da scuola elementare hanno cambiato due strofe. Invece di «Aspettando quei doni che regala il buon Gesù» ecco «Aspettano la pace e la chiedono di più». E ancora «Oggi è nato il buon Gesù» diventa «Oggi è festa ancor di più». Il Dio cristiano è sparito dai radar e le nuove rime somigliano a un’omelia del cardinal Matteo Zuppi.
Tutti contenti in collegio docenti, soprattutto la preside Francesca Spadoni che ai genitori perplessi si è limitata a dire: «Jingle Bells, canto laico e folcloristico, esiste in molteplici versioni. Il team docente, nell’esercizio della propria libertà d’insegnamento, ha semplicemente scelto una versione in linea con i suoi obiettivi pedagogici e didattici». Se valesse il principio, sarebbe interessante leggere la sua versione onirica della Divina Commedia o del 5 Maggio del Manzoni. Del resto, se Dio è morto (Friedrich Nietzsche) non si capisce perché debba resistere quel neonato nella mangiatoia. Poiché siamo a Reggio Emilia, farebbero prima a metterci la benemerita Francesca Albanese con il pugno chiuso, e come nenia utilizzare gli sfottò della medesima al sindaco Marco Massari.
Il Pd locale gongola. Non gli restava che cancellare Gesù Bambino dai canti di Natale, terremotare i simboli della cristianità. Il consigliere comunale dem Federico Macchi ha parlato per tutti con prosopopea da Luciano Canfora: «La scuola, che peraltro è laica, deve educare e nel testo proposto ai bambini (in particolare dove al posto dell’attesa dei doni si è sostituita l’attesa di pace) colgo proprio un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace, temi che sempre dovrebbero caratterizzare la missione educativa dei nostri istituti». Già, perché Jingle Bells (titolo italiano Din don dan) è una pericolosa canzone bellicista.
L’annullamento culturale in nome di un’inclusione superficiale e sgangherata non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio di uno Stato, ma fa parte dello sciocchezzaio progressista al quale si accodano timidi cattodem avvolti nei sensi di colpa. In questo caso il partito di maggioranza si sentiva in dovere di assecondare le richieste dell’assessora alle Politiche educative con delega alla Scuola dell’obbligo, Marwa Mahmoud (musulmana di origine egiziana), che un mese fa aveva catechizzato gli insegnanti invitandoli a «decolonizzare lo sguardo» e a promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Detto fatto. Sbianchettare Gesù Bambino da Jingle Bells in italiano è il nobile risultato, ottenuto applicando il vecchio principio comunista «eliminarne uno per educarne cento».
L’iniziativa sta provocando inevitabili polemiche. Il capogruppo della Lega di Reggio Emilia, Alessandro Rinaldi, ha alzato il volume della radio: «Censurare Gesù dalle canzoni di Natale nelle scuole in nome dell’inclusione è una deriva inaccettabile. Una scelta sbagliata, ideologica e profondamente diseducativa. Il Natale ha un’identità chiara: è una festa cristiana». Il segretario provinciale di Fdi, Alessandro Aragona, definisce l’episodio «atto di autolesionismo culturale, la prova di una deriva ideologica della sinistra che mira a cancellare le radici storiche e della civiltà europea».
Il dossier è sulla scrivania del ministro Giuseppe Valditara, che potrebbe decidere di inviare gli ispettori per chiarire le responsabilità. Ma la reazione ministeriale sarebbe sproporzionata, addirittura superflua. In questi casi dovrebbero essere i genitori a prendere le distanze dal ridicolo. Anche perché la sacra famiglia, pur strapazzata dalla superficialità di chi pretende di includere escludendo 2.000 anni di cristianesimo, continua a parlarci. E giudica chi la sta violentando.
È ufficiale: Maurizio Landini, ossia colui che da tempo prova a paralizzare l’Italia rivendicando fantasiose scelte di politica economica, parla di tasse e redditi senza sapere nulla di tasse e redditi.
Pur di giustificare l’ennesima manifestazione a ridosso del fine settimana (senza weekend i cortei andrebbero deserti), in un’intervista concessa a Repubblica il segretario della Cgil spiega le ragioni dello sciopero di oggi con una serie di balle, inventando di sana pianta numeri a sostegno delle sue tesi. Cominciamo dalla magica soluzione con cui lui risolverebbe il problema delle risorse finanziarie per aumentare i redditi di lavoratori e pensionati. L’idea è la solita vecchia trovata della patrimoniale, che però Landini non applicherebbe sulla proprietà, ma sui redditi. «Chiediamo al governo di introdurre un contributo di solidarietà (meglio non chiamarla tassa, è poco carino, ndr) dell’1,3 per cento su 500.000 italiani con redditi netti annui sopra i due milioni: vale 26 miliardi».
Immagino che il segretario della Cgil abbia fatto i conti prevedendo redditi lordi intorno ai quattro milioni, perché un prelievo dell’1,3 per cento su redditi netti da due milioni applicato a 500.000 italiani dà esattamente la metà di quel che stima Landini. Ma il tema non è se il leader del principale sindacato abbia calcolato il contributo di solidarietà al netto o al lordo dello stipendio. Il problema è che in Italia non esistono 500.000 italiani che percepiscano né due né quattro milioni l’anno. Non so chi abbia raccontato questa balla al segretario, ma basta consultare le tabelle ministeriali per fasce di contribuenti per scoprire che nel nostro Paese a dichiarare più di 300.000 euro lordi (ossia meno di un decimo di quanto Landini vorrebbe tassare) sono 59.533 italiani, ovvero all’incirca un ottavo dei 500.000 a cui il leader Cgil vorrebbe prelevare l’1,3 per cento. Le statistiche del ministero non rivelano quanti siano i contribuenti che percepiscono quattro milioni lordi l’anno, ma basta girare la domanda a Chatgpt per vedersi rispondere che la fascia di chi si mette in tasca ogni anno due milioni netti è «una sottoclasse molto piccola di quella già piccolissima dei redditi molto elevati». Vado al sodo: se gli italiani che guadagnano 300.000 euro lordi sono meno di 60.000, a incassare quattro milioni saranno, forse, centinaia di persone. Dunque, la mirabolante soluzione di Landini è una «supercazzola» che, se introdotta, sarebbe un super flop, perché non porterebbe mai agli introiti da lui immaginati.
Ma Landini inanella anche altre sciocchezze degne di nota. Innanzitutto intima al governo di restituire 25 miliardi di tasse pagate da 38 milioni di lavoratori negli ultimi tre anni (guarda caso sono proprio gli anni in cui governa Giorgia Meloni: si vede che prima, pensionati e lavoratori non erano soggetti a scippi). Come spiega spesso numeri alla mano Alberto Brambilla, fondatore di «Itinerari previdenziali», centro di ricerca che si occupa di pensioni e redditi, il 43 per cento degli italiani non paga l’Irpef e il 12 per cento versa 26 euro. Dunque, dove stanno questi 38 milioni (i contribuenti in Italia sono 42 milioni) a cui sono stati scippati 25 miliardi? Nella fantasia del segretario. Il quale parla degli effetti del drenaggio fiscale, ma, come ha ben spiegato giorni fa il nostro Giuseppe Liturri, una recente ricerca della Bce ha dimostrato come le riforme fiscali del 2022-2023, unitamente alla riduzione dei contributi sociali, hanno quasi completamente azzerato il prelievo fiscale sui salari che viene applicato per effetto dell’aumento delle retribuzioni, con l’applicazione di aliquote più elevate. Anche qui lo dicono i numeri, quindi le decine di miliardi che sarebbero state sottratte a pensionati e lavoratori e di cui Landini chiede la restituzione sono un’altra super balla, perché dal 2022 l’aumento dei salari reali ha superato l’inflazione cumulata nello stesso periodo. Insomma, niente di quel che il segretario rivendica corrisponde al vero. Dunque, perché cerca di trascinare in piazza pensionati e lavoratori? Per difendere il suo salario prossimo venturo. Cioè per garantirsi una rendita di posizione quando non sarà più alla guida della Cgil.
Passi per l’opposizione puramente politica al centrodestra, che con diverse tonalità di rosso è sempre stata (purtroppo) un tratto distintivo della Cgil. Si può soprassedere pure sull’uso improprio di uno strumento di protesta che andrebbe centellinato come quello dello sciopero. E al limite viene scusato persino l’isolamento del sindacato di Corso d’Italia da Cisl e Uil, anche se l’ultima separazione, quella da Bombardieri, ha fatto storcere il naso a una buona parte dei dirigenti e della base cigiellina. Ma quello che davvero non va giù sul territorio e nei settori più riformisti del sindacato è la mancata presa di distanza dai fatti di Genova.
L’aggressione denunciata dai colleghi della Uilm che sono stati rincorsi e presi a calci e pugni da una ventina di pseudo-compagni con le felpe della Fiom andava condannata. Sarebbe bastato scusarsi, per un episodio rispetto al quale evidentemente Landini non ha nessuna responsabilità diretta, e il fuoco si sarebbe spento lì. Invece l’ex leader dei metalmeccanici ha preferito fare spallucce. Nessuna presa di posizione sul momento e nessuna dichiarazione di solidarietà nemmeno quando i soliti giornali del gruppo Gedi (prima La Stampa e poi La Repubblica) gli hanno concesso a stretto giro una doppia paginata per pubblicizzare lo sciopero di oggi. Ancora di venerdì. Ancora per andare addosso al governo. Ancora contro la manovra.
Per qualcuno la misura era colma da prima, per molti lo è diventata dopo i fatti che hanno segnato la vertenza sull’ex Ilva in Liguria. Per le federazioni che puntano sul dialogo e sulla necessità di portare a casa dei risultati per iscritti e lavoratori, la linea Landini è sempre stata indigesta, ma adesso non se ne può più. Si parte dalle telecomunicazioni per arrivare fino ai chimici, al tessile e ai trasporti, per non parlare di alcune Camere del Lavoro (Milano su tutte) e delle Poste. Tra i dirigenti di fascia alta di diverse categorie è iniziato un dialogo per capire cosa fare. Per evitare una deriva che al momento non conosce limiti. E da questo punto di vista lo sciopero di oggi sarà una cartina di tornasole.
Secondo molti è inutile, secondo altri andava accorpato con la protesta degli autonomi del 28. Sta di fatto che se dovessimo trovarci di fronte all’ennesimo flop e all’ennesima giornata di lavora persa in assenza di risultati concreti, quelle che al momento sono dei discorsi carbonari potrebbe trovare manifestazione pubblica. E nessuna ipotesi sarebbe esclusa. Soprattutto se i pensionati, che rappresentano da sempre una sorta di sindacato nel sindacato rosso dovessero propendere per lo strappo. A quel punto il rischio di messa in discussione della posizione del capo, diciamo pure, dell’esternazione di una linea alternativa, diventerebbe concreto.
Intendiamoci, la storia della Cgil parla di altro. Parla di compagni che difficilmente mollano il Lider Maximo, ma mai come in questo momento si sta formando una saldatura di insoddisfazione che tocca varie anime del sindacato. Anche il pubblico impiego. Che prima si è affidato alla opposizione senza se e senza ma al rinnovo dei contratti e poi si è ritrovata con il cerino in mano. Mollati dalla Uil e isolati sul fronte del no mentre tutti gli accordi venivano firmati. Cisl e Uil si sono potuti rivendere di aver ottenuto un incremento di 170 euro lordi per le buste paga di circa 3 milioni di lavoratori, e la Cgil? Oppure le Poste. Da sempre un feudo della Cisl, ma rispetto alle quali in questo momento Landini & C. sono completamente tagliati fuori da qualsiasi tavolo. E anche sulla manovra. Il compagno Maurizio chiama i suoi all’ennesimo sciopero in solitaria, mentre Daniela Fumarola (Cisl) può dire di aver avuto un’importante voce in capitolo su quasi tutti i dossier legati ai salari (riforma dell’Irpef in primis) della legge di bilancio e Bombardieri rivendicare che la detassazione degli aumenti contrattuali che «dà risposta a quattro milioni persone» è una misura che stava particolarmente a cuore alla Uil.
Il no a prescindere paga? In molti all’interno dello stesso sindacato rosso da tempo pensano di no e adesso potrebbero passare dalla critica celata all’azione: basta isolarsi, riprendiamo l’obiettivo dell’unità sindacale e pensiamo a rinnovare contratti e firmare accordi. Soprattutto in caso di altri altri passi falsi o azzardati di Landini. A partire appunto dai risultati dello sciopero e anche da quelli del referendum sulla riforma della Giustizia, con la Cgil che è pronta a fare da traino di un comitato ad hoc.
Il segretario ne è consapevole e sta serrando i ranghi. Ancora non è stato ufficializzato, ma la decisione di cambiare il numero due è presa.
Da un bel po’ di settimane ormai, Landini ha comunicato al segretario organizzativo, Luigi Giove, che le sue deleghe sarebbero passate a Pino Gesmundo.
Un fulmine a ciel sereno per chi dopo aver appoggiato il leader nella battaglia elettorale ed essere stato sempre fedele alle posizioni del capo si sarebbe aspettato tutt’altro trattamento.
Ma evidentemente al compagno Maurizio oggi serve qualcosa in più. E anche questo è un chiaro segnale di difficoltà per l’uomo che sognava di guidare una sorta di terzo polo rosso e adesso si ritrova con mezzo sindacato che non vede l’ora di non averlo più tra i piedi.
Chissà se i numerosi politici, prevalentemente del Pd, che nei giorni scorsi hanno orgogliosamente esposto sui social la bandiera della Ue, abbiano mai riflettuto sull’effettivo contributo della Ue al benessere dell’Italia e degli altri 26 Stati membri. Così, giusto per poter rivendicare con ancora maggior orgoglio, davanti alle ripetute accuse di Donald Trump, che la Ue è un progetto che nei suoi primi 35 anni (di cui 26 anche con la moneta unica) ha costituito un vantaggio per i Paesi aderenti, rispetto alla situazione ante 1992.
Proprio ieri, è stato il professor Francesco Giavazzi a fornirci un inatteso assist parlando delle lezioni da trarre per l’Italia osservando la Corea del Sud e Taiwan. Concentrandoci sulla prima, troviamo parecchi tratti che la rendono comparabile al nostro Paese: pur con una popolazione coreana lievemente inferiore, entrambe sono economie industriali avanzate e si collocano tra le prime potenze manifatturiere globali (l’Italia è spesso al settimo posto, la Corea del Sud al quinto) con forte vocazione all’esportazione.
Allora, utilizzando il database della World Bank, abbiamo osservato l’andamento del Pil pro capite, misurato a parità di potere d’acquisto (per tenere conto del diverso livello di costo della vita) e a dollari costanti 2021 (per neutralizzare l’effetto cambio). Ed abbiamo scoperto che nel 1990 l’Italia - quella tanto vituperata di Tangentopoli, per intenderci - vantava un invidiabile Pil pro capite di 42.657 dollari. Molto vicino a quello degli Usa (44.379 dollari) e nettamente superiore a quello della Ue (33.427) e della Corea del Sud (13.840).
Facendo un rapido salto in avanti di 34 anni, arriviamo ad oggi e troviamo che la Corea ha quasi agganciato l’Italia (50.414 dollari contro 53.115), gli Usa sono decollati verso lo spazio (75.492) e la Ue ci ha pure superato (54.291). Osservando la dinamica nel tempo, l’Italia è riuscita a tenere il passo della crescita fino alla fine degli anni Novanta, per poi iniziare un lungo declino, particolarmente grave nel decennio iniziato con la «cura Monti» del 2011-2012 e i successivi governi Letta, Renzi, Gentiloni. A prescindere dalla specificità dell’andamento dell’Italia, anche la Ue nel suo complesso ha progressivamente ampliato la larghezza della forbice rispetto agli Usa. In 35 anni, oltreoceano hanno aumentato il Pil complessivo (tenendo quindi conto della componente demografica) del 350%, la Ue poco meno del 200% e l’Italia all’incirca del 100%. Da considerare che la crescita della Ue tiene conto dell’ingresso dei 12 Paesi orientali tra 2004 e 2007. La dinamica e il confronto appaiono particolarmente sfavorevoli dopo la doppia crisi del 2008-2009 e 2011-2012. Usa e Corea hanno recuperato con notevole rapidità e ripreso la crescita col passo pre crisi, Italia e Ue sono cadute in un decennio di torpore che nemmeno la ripresa post Covid è riuscito a scuotere.
Pare quasi superfluo sottolineare che - per ammissione di protagonisti di quegli anni come Paolo Gentiloni e Mario Draghi - quella modesta performance sia stata il risultato di una serie di fallimentari politiche economiche a loro volta esito di una struttura istituzionale gravemente disfunzionale. Risuonano ancora le parole quasi balbettanti di Draghi in commissione parlamentare il 18 marzo scorso («noi in quegli anni pensavamo… tenevamo i salari bassi come strumento di concorrenza») per descrivere le cause di questo declino. Cambiando l’angolo di osservazione i risultati non cambiano: l’andamento del rapporto tra Pil pro capite Ue e Usa, a partire dalla crisi del 2008-2009, è una linea verticale in caduta libera. In termini nominali, il Pil pro capite di un cittadino Ue oggi è poco meno del 50% di quello di un cittadino Usa. Aldilà dei numeri è rilevante anche il freno del mostro regolatorio che è la Ue: basti pensare che decine di migliaia di imprese sono state tenute per mesi in ostaggio dell’obbligo del report di sostenibilità e della due diligence sui fattori Esg, per poi liberarle solo pochi giorni fa. Non si riesce nemmeno a misurare lo spreco di tempo e denaro che c’è stato nel frattempo.
Ma da soli saremmo andati peggio e saremmo affondati nel Mediterraneo, si affrettano a precisare e controbattere le Picierno, i Gori, i Gentiloni et similia. Perché la massa critica per competere oggi nel mondo e stare al passo di Usa e Cina è solo quella raggiungibile stando uniti. Stendendo un velo pietoso sul drastico calo di investimenti pubblici causato dall’austerità di bilancio imposta da Bruxelles, allora viene da chiedersi perché la Corea non sia affondata nel Mar Giallo o Seoul non abbia deciso una (mortale) alleanza con la Cina o con il Giappone.
La risposta ce l’ha fornita proprio Giavazzi ieri su un piatto d’argento: «Il governo della Corea del Sud intervenne sin dall’inizio per mantenere i salari alti […] il governo favorì la ricomposizione dell’industria attraverso il credito pubblico […] che fu il fattore determinante di quella rapida crescita». Esattamente ciò che nella Ue è risultato impossibile, perché sarebbe scattata la tagliola del divieto di aiuti di Stato e si è puntato tutto sulla deflazione salariale. Ma forse Giavazzi ha dimenticato che l’Italia è nella Ue da 33 anni, perché afferma che «comprimere i salari e proteggere le imprese dalla concorrenza internazionale, come si è fatto a lungo in Italia, sono entrambi freni alla crescita». Possibile che in quasi due anni a Palazzo Chigi, Draghi non gli abbia detto che quelle scelte sono l’effetto di un’unione disfunzionale, soprattutto quella monetaria?
È benvenuta la lezione secondo cui «bassi salari non significano solo bassi redditi, scarsi consumi e crescita asfittica. Significano anche scarsi pungoli a puntare sulla produttività», ma l’invito a riflettere rivolto a Giorgia Meloni, avrebbe dovuto contenere l’essenziale precisazione che si sarebbe trattato di una lezione e un invito pertinente qualora l’Italia fosse stata fuori dalla Ue. In quel caso, l’Italia sarebbe potuta diventare la Corea d’Europa e invece da Bruxelles ci hanno piombato le ali.
