2024-07-14
Gaetano Aloisio: «Con ago, filo e macchine da cucire i detenuti sognano un altro domani»
Il presidente dell’antica Accademia dei sartori racconta il progetto che vede coinvolti i reclusi di Rebibbia: «Insegniamo loro a creare pantaloni, giacche e gilet. Così imparano un mestiere per reintegrarsi in società».Per una sera indossatori, per 650 ore in un anno (tanto dura il corso) sarti, e anche di più. Il riscatto per alcuni detenuti di Rebibbia parte da lì, dalla voglia d’imparare un mestiere e di tentare di farcela una volta fuori, dopo aver scontato la pena. La mano viene tesa, dal 2017, dall’Accademia nazionale dei sartori, la più antica associazione italiana nel settore dell’abbigliamento che dimostra come la tradizione sartoriale possa essere non solo un simbolo di eleganza e stile, ma anche un potente strumento di trasformazione sociale. «“Made in Rebibbia. Ricuciamolo insieme” è il nome del progetto, nato dall’idea dell’ex presidente dell’Accademia nazionale dei sartori, il maestro Ilario Piscioneri, per consentire ai detenuti di trovare lavoro in un laboratorio sartoriale», spiega alla Verità l’attuale presidente dell’Accademia, Gaetano Aloisio, maestro sartore. «L’apprendimento dell’arte del cucito richiede pazienza, precisione, autocontrollo, doti importanti anche per realizzare un percorso di recupero e reinserimento». Il progetto, sostenuto da Bmw Roma con l’avallo di Bmw Italia, sarà portato anche in altre realtà come Rebibbia? «Stiamo lavorando sia per portarlo all’interno delle carceri minorili e ci è giunta richiesta in questi giorni da parte di un carcere femminile. C’è tanto interesse perché oltre ad aver avuto il riconoscimento da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dell’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, che partecipò ad alcune chiusure dell’anno scolastico, è un progetto sempre apprezzato da parte di chi lo ha conosciuto. La sensibilità verso l’inclusività dell’Accademia deve poter svilupparsi sempre di più proprio per dare risposte sociali». Dal 2017, non vi siete mai fermati? «Abbiamo sempre fatto i corsi a parte l’anno del Covid ma i detenuti hanno potuto lavorare lo stesso confezionando le mascherine. È stato utile anche in quel periodo». All’interno di Rebibbia come siete organizzati? «Prima di tutto allestimmo gli spazi che ci vennero aggiudicati e che adibimmo a laboratorio con tavoli da lavoro, macchine da cucire, da stiro e attrezzi vari comprese le forbici: per questo siamo organizzati, si portano al mattino e poi si restituiscono alle guardie. I detenuti che partecipano a questi corsi sono persone che hanno superato test psicologici che vengono fatti all’interno delle carceri, persone che possono usare oggetti come le forbici». Il corso è impegnativo? «Inizia a ottobre e termina a fine maggio, le ore sono parecchie. Si tengono lezioni tutti i giorni coadiuvate da Sebastiano Di Rienzo, ex presidente e maestro storico dell’Accademia nazionale dei sartori, direttore del corso dell’Accademia. Il corso è lo stesso dell’Accademia, un triennale suddiviso in tre step, tre specializzazioni: il primo è insegnare a fare pantaloni e gilet, poi la giacca e il terzo anno si completa il ciclo e si insegnano le rifiniture, la parte finale del nostro lavoro. Si tratta di un percorso formativo a 360 gradi». C’è chi, una volta imparato il mestiere, esce dal carcere e continua? «Abbiamo la soddisfazione di avere il primo allievo che ha finito il corso e che una volta scontata la pena ha trovato lavoro presso una sartoria romana, oggi assunto regolarmente. Ha cominciato una vita nuova ed è molto felice. Ce ne sono stati altri e altri ce ne saranno, più gli anni passano e più vedremo i risultati. Già partecipare a questo progetto li fa sentire liberi, diversi. Noi facciamo il bello e fare il bello all’interno di un istituto penitenziario cambia la prospettiva. È l’unico modo per l’inserimento, per riuscire a reintegrarli nella società». Nel vostro mestiere trovate manodopera, c’è ricambio generazionale? «È sempre più difficile e le nostre imprese artigiane soffrono. Non è solo la sartoria, questo interessa tutto l’artigianato italiano a lamentare la carenza di gente specializzata. Spesso si deve rifiutare il lavoro perché mancano le persone per farlo. Il Paese non è in crisi perché è un Paese di artigiani che hanno tante possibilità di crescita, e oggi ciò che manca sono le competenze. Non credo che i giovani non vogliano fare questo lavoro, ma non lo conoscono, non sanno che ci sono possibilità diverse dalle scuole superiori classiche. Alla fine, il loro, è un percorso già segnato. Bisognerebbe partire dai licei nel far conoscere quante altre opportunità un ragazzo può avere oltre che a studiare medicina, ingegneria, economia o giurisprudenza. C’è bisogno di parlare di artigianato dando il giusto valore. È il tessuto dell’Italia reale, noi siamo un Paese di piccole imprese artigiane che sono il nostro grande patrimonio». Più valore alle scuole professionali? «Bisogna creare scuole professionali di altissima qualifica artigianale per permettere agli artigiani di trasmettere quella che è l’arte del creare. Il mondo è cambiato, l’artigiano non è più il lavoratore di una volta che lavorava dalla mattina alla sera e basta, oggi è anche un imprenditore, ha bisogno di cultura, di preparazione, di saper gestire e far crescere un’azienda per grande o piccola che sia. Chi lavora nell’artigianato può guadagnare molto bene e se poi uno riesce a essere imprenditore artigiano sicuramente avrà possibilità maggiori per avere successo». L’Accademia quanti sarti raggruppa?«Siamo 120 soci in Italia dal Nord al Sud. Siamo l’associazione più antica che esiste in Italia, nati nel 1575 per volontà di Papa Gregorio XIII ed è stata una delle prime corporazioni nate. Una volta sciolte le corporazioni fu rifatta ai primi del Novecento. Al Campidoglio abbiamo ancora il portale della nostra prima sede del 1575, Università Sutorum, università dei cucitori. Ecco, ridiamo alle scuole artigianali il nome che spetta: università, come allora».
Jose Mourinho (Getty Images)