2025-04-04
Torna il libro che aiutò la sinistra a salire sul piedistallo che non merita
Gabriele D'Annunzio e Luigi Pirandello (Ansa)
Nuova edizione di «Cultura di destra», il volume di Furio Jesi. Intorno a lui c’è da anni un alone mistico, ma nel suo testo mancano tante sfaccettature del mondo che racconta in modo violento e caricaturale.Furio Jesi aveva appena 39 anni quando pubblicò per Garzanti un libro che si sarebbe rivelato enormemente influente intitolato Cultura di destra. Volume che ora viene riportato in libreria da Nottetempo, dopo una quindicina d’anni d’assenza, nell’edizione a cura di Andrea Cavalletti con testi inediti e interviste. Lo studioso sarebbe morto di lì a poco, nel 1980, ucciso da un guasto allo scaldabagno. Critico letterario, studioso di antropologia e mitologia, Jesi era considerato un giovane prodigioso, e meritò persino la considerazione del grande filologo Károly Kerényi (che in seguito se ne allontanò, ma è un’altra storia). Non si era laureato e aveva lasciato il liceo subito dopo il ginnasio eppure gli era stato affidato «per meriti» un incarico di docente di letteratura tedesca all’università di Palermo. E di sicuro Jesi di talento e intelligenza ne aveva da vendere. Ma certo non gli mancava la passione ideologica, che riversò abbondantemente nei saggi con cui intendeva raggiungere il cuore della cultura destrorsa. Il risultato fu un libro che, riletto oggi, certo non manca di profondità e di importanti intuizioni. Ma che, in fondo, disegna una caricatura anche parecchi violenta della destra, ne svilisce il pensiero e non ne coglie le molte sfaccettature. Poco male, viene da dire, se non fosse che la figura di Jesi ha assunto nel mondo culturale progressista una sorta di alone mistico, e di conseguenza il suo pensiero ha influenzato generazioni di studiosi. Per farla semplice: se da tempo la grandissima parte dei (sedicenti) intellettuali di sinistra considera la destra priva di cultura, ignorante e irrimediabilmente autoritaria, è anche e soprattutto a causa degli stereotipi che gli scritti di Jesi hanno creato. Scrive Andrea Cavalletti nell’introduzione al volume: «Che cos’è la cultura di destra oggi? Rispondendo al giornalista di un noto settimanale, Furio Jesi ha offerto una volta una definizione tanto breve quanto meditata e precisa: è una cultura “caratterizzata (in buona o cattiva fede) dal vuoto”». Basterebbe questa frase per rendere l’idea di che cosa Jesi pensasse. Ma nei suoi scritti c’è molto altro: sotto la coltre anche suggestiva dello stile ricco e colto, si avverte un disprezzo raro, talvolta accecante, spesso mescolato a una irritante supponenza. Jesi attacca frontalmente un mostro sacro come Mircea Eliade, lo riduce a antisemita, insiste a svalutarlo con virulenza. Cavalletti, che con tutta evidenza parteggia per Jesi, ricostruisce l’episodio: «Leggendo il saggio sulla religione della morte, Ioan Culianu rimase sgomento e angosciato, e ne scrisse subito al maestro Mircea Eliade. Piú tardi, questi scelse di consegnare la propria versione dei fatti a una pagina del Journal (cioè alla memoria dei posteri): il 6 giugno 1979 Furio Jesi viene dipinto come un essere infido che ordisce biechi complotti, che asserisce di occuparsi dell’edizione italiana dell’Histoire des croyances et des idées religieuses ma sarebbe persino capace di falsificarne il dettato, “per farmi apparire... un Nazi!” e intanto sferra il “perfido attacco” di Cultura di destra». In effetti l’attacco c’era, ed era perfido eccome. Jesi ne ha per tutti: Luigi Pirandello, Gabriele D’Annunzio, per non parlare di Julius Evola. Se per lungo tempo il Vate è stato trascurato e se ancora oggi Evola è guardato con sospetto o peggio timore, è anche per via del trattamento ad essi riservato in Cultura di destra. Ma è soprattutto nelle interviste che Jesi dava il meglio di sé. Alla domanda su che cosa fosse la cultura di destra, rispondeva così: «La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. Nei secoli scorsi la cultura custodita e insegnata è stata soprattutto la cultura di chi era più potente e più ricco, o più esattamente, non è stata, se non in minima parte, la cultura di chi era più debole e più povero. È inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario cercare di sapere da dove provengano». Ecco da dove viene la presunta superiorità intellettuale di cui ancora adesso i progressisti si ammantano. Sarebbe interessante tuttavia sapere che cosa potrebbe dire oggi Jesi di quella che si definisce «cultura di sinistra». È anche e soprattutto quest’ultima, ai nostri giorni, a stabilire che vi siano valori su cui semplicemente non si può discutere, a esercitare l’autorità con arroganza, a fare largo uso di miti autoprodotti e di parole d’ordine. Se non fosse stato obnubilato dal clima ideologico in cui prosperava, Jesi avrebbe potuto intuire tutte le storture della «cultura di sinistra», ma scelse di concentrarsi sulla parte avversa. Negli anni Settanta era la norma, ma sembra proprio che la musica, da allora, non sia poi cambiata granché, a dispetto dei tanti discorsi sulla nuova egemonia culturale.
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