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2021-05-27
Hanno fatto una strage per qualche euro in più
Ansa
Luigi Nerini, del direttore del servizio e dipendente della Leitner di Vipiteno (società fornitrice delle cabine e che si occupava della manutenzione), ingegnere Enrico Perocchio (che è anche direttore della funivia di Rapallo), e del capo operativo Gabriele Tadini.
Il primo ad aver mollato la presa, durante il primo lunghissimo interrogatorio in caserma, è stato proprio Tadini, che con le sue dichiarazioni avrebbe coinvolto Nerini e Perocchio. L'avvocato Andrea Da Prato, difensore di Perocchio, ha spiegato che martedì mattina, tramite una pec, aveva scritto alla Procura per far sapere che l'ingegnere «avrebbe voluto riferire» proprio «sull'utilizzo dei forchettoni, ma non abbiamo avuto risposta». La Procura, poi, l'ha convocato dai carabinieri di Stresa come persona informata sui fatti e alle 3,20 di notte l'ha fermato. Ma al vaglio degli inquirenti c'è anche un ulteriore aspetto che riguarda la posizione dell'ingegnere, che si ritrova a ricoprire sia il ruolo di direttore del servizio sia quello di dipendente della società che ha rinnovato l'impianto.
Le accuse per i tre sono di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravi riportate da un minorenne, Eitan, l'unico sopravvissuto (che è stato estubato e ora respira da solo, con l'aiuto di poco ossigeno), e rimozione dolosa di cautele aggravata dal disastro. Tra gli indagati fermati c'è chi ha ammesso di aver inserito volontariamente il forchettone che bloccava i freni d'emergenza per evitare i continui stop della cabina. Un aspetto che pare sia emerso già durante l'audizione di alcuni dipendenti sentiti come testimoni in caserma a partire dal pomeriggio di martedì. Ma gli inquirenti intendono sentire anche gli altri dipendenti della società che gestisce l'impianto, per accertare se erano a conoscenza del fatto che la cabina viaggiava senza sistemi di sicurezza e se quella era diventata una prassi in azienda.
Il comandante provinciale dei carabinieri di Verbania, il tenente colonnello Alberto Cicognani, ha spiegato: «C'erano malfunzionamenti nella funivia ed è stata chiamata la manutenzione che non ha risolto il problema. Per evitare ulteriori interruzioni del servizio, hanno scelto di lasciare la forchetta».
«Gli interventi tecnici per la manutenzione», ha aggiunto il procuratore di Verbania Olimpia Bossi, «erano stati richiesti ed effettuati, ma non erano stati risolutivi e si è pensato di rimediare nella convinzione che mai si sarebbe potuto verificare una rottura del cavo». Secondo il magistrato, insomma, «si è corso il rischio che ha purtroppo poi determinato l'esito fatale». La Procura ritiene di aver raccolto «gravi indizi di colpevolezza», anche perché, quella di disattivare i freni d'emergenza sarebbe stata una scelta «precisa e condivisa». E ha quindi fermato gli indagati.
L'udienza di convalida del fermo si svolgerà stamattina in Tribunale a Verbania. La Procura chiederà l'emissione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, perché, si apprende da indiscrezioni, pare ritenga sussistenti sia il pericolo di reiterazione, sia quello di inquinamento delle prove. «Si è trattato di una scelta consapevole dettata da ragioni economiche», ha aggiunto il procuratore, spiegando che «l'impianto avrebbe dovuto restare fermo, perché presentava delle anomalie e avrebbe necessitato un intervento più radicale con un blocco se non prolungato, comunque consistente».
«Fa schifo pensare che siano morti per i soldi», ha commentato Corrado Guzzetti, che nell'incidente ha perso il nipotino Mattia. Il procuratore ritiene che quello del forchettone sia «un fatto concreto che è determinante rispetto all'incidente». Entrambi i forchettoni sono stati ritrovati dai volontari del Soccorso alpino e repertati dai carabinieri. Il primo era ancora attaccato alla struttura ed era ben visibile in alcune fotografie acquisite dai magistrati, il secondo, saltato durante l'urto, è stato trovato ieri mattina tra gli alberi, a poca distanza dalla cabina.
Ma che non è l'unico aspetto da chiarire. Perché domenica scorsa la fune di trazione sulla quale viaggiava la cabina della morte si è spezzata a pochi metri dall'arrivo. La cabina ha cominciato la sua corsa raggiungendo anche i cento chilometri orari, poi ha scarrucolato ed è precipitata, uccidendo 14 passeggeri.
«In questo momento», ha spiegato il procuratore, «non abbiamo elementi per ritenere i due fatti collegati», ovvero la rottura della fune e il blocco dei freni di sicurezza. «La rottura della fune», secondo il magistrato, «era un fatto in astratto prevedibile». Ma per ora preferisce non avanzare ipotesi. Anche perché il consulente tecnico arriverà oggi sul posto per il primo sopralluogo.
E con l'avvio degli accertamenti tecnici irripetibili altri nomi potrebbero presto finire sul registro degli indagati.
Il relitto è stato temporaneamente coperto con un telo per preservarlo e dopo il sopralluogo e la rimozione verrà trasportato al Politecnico di Torino per le indagini scientifiche.
Contemporaneamente si sta scavando tra i certificati delle manutenzioni, che sulla carta sembrano in regola. Sia quella periodica, affidata alla Leitner, (gli ultimi controlli dei freni risalgono al 3 maggio e sarebbe stata simulata anche la rottura del cavo portante per verificare che tutti i dispositivi di emergenza fossero in funzione), sia quelle della Sateco di Torino e degli addetti delle Ferrovie del Mottarone. Ma si cerca anche nei carteggi tra Regione Piemonte e Comune di Stresa, che dal giorno dell'incidente giocano allo scaricabarile sulla proprietà della funivia. Ma stando a quanto ricostruito dai magistrati, la proprietà dell'impianto «dovrebbe essere della Regione Piemonte, perché», ha affermato il procuratore, «non si è mai effettuato il passaggio al Comune di Stresa». Il sindaco Marcella Severino, insomma, sembra avere avuto ragione. «Ora abbiamo dedicato tempo alle cose più necessarie», continua il magistrato, «ma stiamo acquisendo tutta la documentazione relativa». Poi scatteranno gli avvisi di garanzia.
«Me li avete uccisi, non perdono». La rabbia dei familiari abbandonati.
«Me li avete ammazzati e a questo, mi spiace, non ci sarà mai nessun tipo di perdono». Sono le parole utilizzate da
Angelica Zorloni, primogenita di Vittorio morto insieme alla compagna Elisabetta Persanini e al loro figlio di cinque anni Mattia nella tragedia sulla funivia del Mottarone, in una storia su Instagram in cui è stata inserita anche una foto della famiglia sorridente. Il post è stato pubblicato poco dopo la divulgazione della notizia dei tre fermi, disposti dalla Procura di Verbania (a carico di Enrico Perocchio, Luigi Nerini e Gabriele Tadini), per l'incidente della scorsa domenica in cui hanno perso la vita 14 persone. Quello di ieri non è il primo messaggio sul disastro che Zorloni rilascia sui social network, la donna già lo scorso martedì sul suo profilo Facebook aveva scritto una lunga lettera di addio al padre Vittorio. «So che da lassù adesso faremo finalmente pace perché, semplicemente, in questa vita non eravamo destinati a riuscire a parlarci in modo giusto. Papà, ironia della sorte oggi io ero sul versante opposto della montagna con la mia famiglia voi avete pensato di andare finalmente a farvi un bel giro in funivia nel primo giorno di sole e libertà e invece le nostre strade si sono divise per sempre». In un altro passaggio del post la giovane, nata da una precedente relazione, ha ricordato le incomprensioni avute in passato con il padre: «Comunque papà ti ho amato tanto e per questo mi facevi così arrabbiare e so che anche tu mi hai amata tanto», e «anche se non leggerai mai queste parole c'è una cosa più grande e potente che ci legherà in eterno». Poi l'ultimo saluto al genitore che «non è stato in questa vita sarà la prossima in cui sistemeremo tutto e ci riabbracceremo». Infine Zorloni dà l'addio al piccolo Mattia: «Oggi diventi un angelo meraviglioso e tanto prezioso, accompagnato dalla tua mamma, vi porto nel cuore come solo le cose belle si possono portare». Nel tardo pomeriggio di ieri è intervenuto lo zio di Mattia e Angelica, Corrado Guzzetti, che ha duramente criticato le istituzioni: «Ci hanno detto che si sarebbero fatti i funerali di Stato e che avrebbero pensato a tutto loro, poi si sono rimangiati tutto, negandosi al telefono. Sono amareggiato per me e per i miei nipoti e voglio smascherare a nome di tutte le vittime queste promesse da marinaio fatte dalla politica». Ma non è finita qui: «Fa schifo pensare che siano morti per i soldi, sempre i soldi stanno dietro a tutto. Dove sono gli aiuti? Delle belle parole dette per tenerci buoni non ce ne facciamo niente. L'unica vicinanza sincera è stata quella dell'Arma dei carabinieri, soprattutto di Stresa e Verbania. Il resto è la solita politica scaricabarile». Guzzetti, ex cognato di Zorloni, è senza dubbio quello che tra i famigliari delle vittime ha attaccato con veemenza la classe politica. «Condoglianze? Non si può morire portando la famiglia in un posto tranquillo, o cadere da un ponte, le condoglianze della politica mi fanno solamente più rabbia, perché la responsabilità di queste tragedie è la loro». Il momento più duro per i famigliari delle vittime, oltre all'istante in cui qualcuno ha comunicato loro la ferale notizia, è stato l'attimo in cui hanno dovuto riconoscere i propri cari. A identificare il cadavere Vittorio Zorloni sono state le sorelle, in seguito una delle due ha dichiarato: «Nostro fratello era impossibile da riconoscere, solo un tatuaggio sul collo ha dimostrato che era lui».
La dinastia che fa affari da un secolo. Ma Gigi l’erede «ha corso troppo».
Sul Lago Maggiore, dove vive in una villa ereditata dal padre con la moglie e i due figli, lo associano subito alle Ferrovie del Mottarone. Soprattutto perché la sua famiglia, sulla quale ha pure scritto un libro, gestisce i viaggi in montagna da circa un secolo: prima della funivia, aperta nel 1970 (la concessione ha scadenza nel 2028), la sua famiglia aveva l'appalto di un trenino a cremagliera acchiappaturisti posato sulle rotaie per la prima volta nel 1911. Fino ad allora arrivare in cima al Mottarone non era semplice: il monte era accessibile da Stresa, raccontano le guide turistiche, soltanto a piedi, utilizzando le vecchie mulattiere degli alpigiani. E quel trenino a cremagliera, corso su e giù per quasi 50 anni, fu lo strumento sul quale si poggiò tutta l'offerta turistica. Il padre Mario lo dismise il 13 maggio 1963, quando cessò l'attività per mancanza di sicurezza dovuta a «eccessiva anzianità». A sostituire la ferrovia a cremagliera fu un servizio di autobus che, coincidenza, fu assegnato alla società Autoservizi Nerini, che faceva il percorso solo due volte al giorno. Ma Luigi Nerini detto Gigi, 56 anni, diploma di liceo scientifico, entra in scena e diventa l'uomo delle funi il 29 agosto 1970, con l'inaugurazione della funivia. Ora è in carcere, in attesa di essere interrogato dal gip per la convalida. «Soffro per quelle vittime come se fossero miei parenti», aveva confidato agli amici. Un'immagine che non sembra conciliarsi con i sospetti contenuti nel decreto di fermo emesso dalla Procura di Verbania nei suoi confronti. Domenica sera, subito dopo l'incidente, aveva raggiunto l'impianto accompagnato dal suo legale per sostenere con i presenti che «controlli e manutenzione erano a posto». Quello stesso giorno, aveva espresso cordoglio per la tragedia e vicinanza alle famiglie coinvolte, per poi sparire fino a martedì sera, quando è entrato nella caserma dei carabinieri di Stresa, dalla quale è uscito con i carabinieri che l'hanno accompagnato in carcere. A Verbania Gigi ha anche una agenzia di viaggi. E altre società con le quali gestisce attrazioni per turisti in vetta al Mottarone: una pista da bob su rotaia attiva sia in estate che in inverno e un Safari Park. Ma è la funivia il business core della famiglia Nerini. Un giro da 200.000 turisti all'anno prima del Covid. Nel 2019 l'impianto ha registrato quasi 2 milioni di euro di entrate, ma anche 2,6 milioni di debiti. Nerini prende un compenso di 96.000 euro dalla società della quale detiene il 100 per cento delle quote.
Quattro anni fa, ha ricostruito il
Corriere della sera, Nerini ha acquistato l'80 per cento delle Funivie di Mottarone, poi diventata Ferrovie del Mottarone tramite una fusione, dopo aver rilevato anche il restante 20 per cento dalla società altoatesina Leitner. Quest'ultima aveva finanziato la società di Nerini, di cui aveva in pegno il 100 per cento. La Leitner inoltre è la società a cui Ferrovie del Mottarone ha affidato nel 2017 la responsabilità della manutenzione della funivia Stresa-Mottarone. I Nerini, però, sono arrivati al punto di arrivo per una strada molto tortuosa. La Leitner aveva citato in giudizio sia Ferrovie del Mottarone che papà Mario Nerini chiedendo anche un'ipoteca sui beni di famiglia.
Il Comune di Stresa, invece, che eroga un contributo annuo che si aggira sui 130.000 euro, si è accontentato di due fideiussioni fornite dall'imprenditore per poco più di 100.000 euro. Inoltre, stando a una denuncia raccolta da
Dagospia, la famiglia Nerini sarebbe proprietaria del terreno accanto alla stazione in cui un tempo arrivava il trenino a cremagliera, «lasciato in stato di grave abbandono nonostante le proteste dei locali e mai sanzionato dal Comune». Tra alcuni operatori turistici, riporta l'Ansa, c'è chi afferma, con un po' di malizia, che Nerini abbia «corso troppo». E che la gestione dell'impianto era troppo «intraprendente» sin dai tempi del trenino a cremagliera. «Se quello che dicono risultasse vero, sarebbe gravissimo, anche perché ne va dell'immagine del lago e dell'interno Verbano. Tanto più che l'impianto rischia di restare fermo per anni», si fa scappare un avventore del bar accanto alla partenza della funivia, posta sotto sequestro dalla magistratura. Per un amico, sentito sempre dall'agenzia di stampa, «è un imprenditore che ha saputo costruirsi un'attività cresciuta nel tempo, dando anche lavoro». Il numero dei dipendenti di Ferrovie del Mottarone, come spesso accade per le aziende che vivono di turismo, cambia in base alla stagione. Si va da un massimo di 18 tra maggio e agosto a un minimo di otto a novembre. «Ho preso spunto», raccontava presentando il suo libro sulla Ferrovia elettrica Stresa-Mottarone, «dal centenario del primo viaggio effettuato dal Trenino il giorno 11 luglio 1911, della Società Ferrovie del Mottarone, che oggi rappresento, per prendere coraggio al fine di scrivere la storia e le origini della mia famiglia, a partire dalla seconda metà dell'800...».
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Riduci
Un indagato crolla e parla coi magistrati: scattano tre arresti, tra cui il gestore. L' impianto era difettoso, doveva essere chiuso. Mistero sulla rottura del cavo.I parenti delle vittime: i politici si sono rimangiati la promessa dei funerali di Stato.Il gruppo Nerini aveva vinto un appalto per un trenino a cremagliera nel 1911, poi è arrivata la cabinovia Prima di finire in cella, aveva detto: «Sto soffrendo». Il business della struttura nel 2019 è stato di 2 milioni.Lo speciale contiene tre articoli Luigi Nerini, del direttore del servizio e dipendente della Leitner di Vipiteno (società fornitrice delle cabine e che si occupava della manutenzione), ingegnere Enrico Perocchio (che è anche direttore della funivia di Rapallo), e del capo operativo Gabriele Tadini. Il primo ad aver mollato la presa, durante il primo lunghissimo interrogatorio in caserma, è stato proprio Tadini, che con le sue dichiarazioni avrebbe coinvolto Nerini e Perocchio. L'avvocato Andrea Da Prato, difensore di Perocchio, ha spiegato che martedì mattina, tramite una pec, aveva scritto alla Procura per far sapere che l'ingegnere «avrebbe voluto riferire» proprio «sull'utilizzo dei forchettoni, ma non abbiamo avuto risposta». La Procura, poi, l'ha convocato dai carabinieri di Stresa come persona informata sui fatti e alle 3,20 di notte l'ha fermato. Ma al vaglio degli inquirenti c'è anche un ulteriore aspetto che riguarda la posizione dell'ingegnere, che si ritrova a ricoprire sia il ruolo di direttore del servizio sia quello di dipendente della società che ha rinnovato l'impianto.Le accuse per i tre sono di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose gravi riportate da un minorenne, Eitan, l'unico sopravvissuto (che è stato estubato e ora respira da solo, con l'aiuto di poco ossigeno), e rimozione dolosa di cautele aggravata dal disastro. Tra gli indagati fermati c'è chi ha ammesso di aver inserito volontariamente il forchettone che bloccava i freni d'emergenza per evitare i continui stop della cabina. Un aspetto che pare sia emerso già durante l'audizione di alcuni dipendenti sentiti come testimoni in caserma a partire dal pomeriggio di martedì. Ma gli inquirenti intendono sentire anche gli altri dipendenti della società che gestisce l'impianto, per accertare se erano a conoscenza del fatto che la cabina viaggiava senza sistemi di sicurezza e se quella era diventata una prassi in azienda.Il comandante provinciale dei carabinieri di Verbania, il tenente colonnello Alberto Cicognani, ha spiegato: «C'erano malfunzionamenti nella funivia ed è stata chiamata la manutenzione che non ha risolto il problema. Per evitare ulteriori interruzioni del servizio, hanno scelto di lasciare la forchetta».«Gli interventi tecnici per la manutenzione», ha aggiunto il procuratore di Verbania Olimpia Bossi, «erano stati richiesti ed effettuati, ma non erano stati risolutivi e si è pensato di rimediare nella convinzione che mai si sarebbe potuto verificare una rottura del cavo». Secondo il magistrato, insomma, «si è corso il rischio che ha purtroppo poi determinato l'esito fatale». La Procura ritiene di aver raccolto «gravi indizi di colpevolezza», anche perché, quella di disattivare i freni d'emergenza sarebbe stata una scelta «precisa e condivisa». E ha quindi fermato gli indagati. L'udienza di convalida del fermo si svolgerà stamattina in Tribunale a Verbania. La Procura chiederà l'emissione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere, perché, si apprende da indiscrezioni, pare ritenga sussistenti sia il pericolo di reiterazione, sia quello di inquinamento delle prove. «Si è trattato di una scelta consapevole dettata da ragioni economiche», ha aggiunto il procuratore, spiegando che «l'impianto avrebbe dovuto restare fermo, perché presentava delle anomalie e avrebbe necessitato un intervento più radicale con un blocco se non prolungato, comunque consistente».«Fa schifo pensare che siano morti per i soldi», ha commentato Corrado Guzzetti, che nell'incidente ha perso il nipotino Mattia. Il procuratore ritiene che quello del forchettone sia «un fatto concreto che è determinante rispetto all'incidente». Entrambi i forchettoni sono stati ritrovati dai volontari del Soccorso alpino e repertati dai carabinieri. Il primo era ancora attaccato alla struttura ed era ben visibile in alcune fotografie acquisite dai magistrati, il secondo, saltato durante l'urto, è stato trovato ieri mattina tra gli alberi, a poca distanza dalla cabina.Ma che non è l'unico aspetto da chiarire. Perché domenica scorsa la fune di trazione sulla quale viaggiava la cabina della morte si è spezzata a pochi metri dall'arrivo. La cabina ha cominciato la sua corsa raggiungendo anche i cento chilometri orari, poi ha scarrucolato ed è precipitata, uccidendo 14 passeggeri.«In questo momento», ha spiegato il procuratore, «non abbiamo elementi per ritenere i due fatti collegati», ovvero la rottura della fune e il blocco dei freni di sicurezza. «La rottura della fune», secondo il magistrato, «era un fatto in astratto prevedibile». Ma per ora preferisce non avanzare ipotesi. Anche perché il consulente tecnico arriverà oggi sul posto per il primo sopralluogo.E con l'avvio degli accertamenti tecnici irripetibili altri nomi potrebbero presto finire sul registro degli indagati.Il relitto è stato temporaneamente coperto con un telo per preservarlo e dopo il sopralluogo e la rimozione verrà trasportato al Politecnico di Torino per le indagini scientifiche.Contemporaneamente si sta scavando tra i certificati delle manutenzioni, che sulla carta sembrano in regola. Sia quella periodica, affidata alla Leitner, (gli ultimi controlli dei freni risalgono al 3 maggio e sarebbe stata simulata anche la rottura del cavo portante per verificare che tutti i dispositivi di emergenza fossero in funzione), sia quelle della Sateco di Torino e degli addetti delle Ferrovie del Mottarone. Ma si cerca anche nei carteggi tra Regione Piemonte e Comune di Stresa, che dal giorno dell'incidente giocano allo scaricabarile sulla proprietà della funivia. Ma stando a quanto ricostruito dai magistrati, la proprietà dell'impianto «dovrebbe essere della Regione Piemonte, perché», ha affermato il procuratore, «non si è mai effettuato il passaggio al Comune di Stresa». Il sindaco Marcella Severino, insomma, sembra avere avuto ragione. «Ora abbiamo dedicato tempo alle cose più necessarie», continua il magistrato, «ma stiamo acquisendo tutta la documentazione relativa». Poi scatteranno gli avvisi di garanzia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/funivia-mottarone-incidente-2653122619.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="me-li-avete-uccisi-non-perdono-la-rabbia-dei-familiari-abbandonati" data-post-id="2653122619" data-published-at="1622110912" data-use-pagination="False"> «Me li avete uccisi, non perdono». La rabbia dei familiari abbandonati. «Me li avete ammazzati e a questo, mi spiace, non ci sarà mai nessun tipo di perdono». Sono le parole utilizzate da Angelica Zorloni, primogenita di Vittorio morto insieme alla compagna Elisabetta Persanini e al loro figlio di cinque anni Mattia nella tragedia sulla funivia del Mottarone, in una storia su Instagram in cui è stata inserita anche una foto della famiglia sorridente. Il post è stato pubblicato poco dopo la divulgazione della notizia dei tre fermi, disposti dalla Procura di Verbania (a carico di Enrico Perocchio, Luigi Nerini e Gabriele Tadini), per l'incidente della scorsa domenica in cui hanno perso la vita 14 persone. Quello di ieri non è il primo messaggio sul disastro che Zorloni rilascia sui social network, la donna già lo scorso martedì sul suo profilo Facebook aveva scritto una lunga lettera di addio al padre Vittorio. «So che da lassù adesso faremo finalmente pace perché, semplicemente, in questa vita non eravamo destinati a riuscire a parlarci in modo giusto. Papà, ironia della sorte oggi io ero sul versante opposto della montagna con la mia famiglia voi avete pensato di andare finalmente a farvi un bel giro in funivia nel primo giorno di sole e libertà e invece le nostre strade si sono divise per sempre». In un altro passaggio del post la giovane, nata da una precedente relazione, ha ricordato le incomprensioni avute in passato con il padre: «Comunque papà ti ho amato tanto e per questo mi facevi così arrabbiare e so che anche tu mi hai amata tanto», e «anche se non leggerai mai queste parole c'è una cosa più grande e potente che ci legherà in eterno». Poi l'ultimo saluto al genitore che «non è stato in questa vita sarà la prossima in cui sistemeremo tutto e ci riabbracceremo». Infine Zorloni dà l'addio al piccolo Mattia: «Oggi diventi un angelo meraviglioso e tanto prezioso, accompagnato dalla tua mamma, vi porto nel cuore come solo le cose belle si possono portare». Nel tardo pomeriggio di ieri è intervenuto lo zio di Mattia e Angelica, Corrado Guzzetti, che ha duramente criticato le istituzioni: «Ci hanno detto che si sarebbero fatti i funerali di Stato e che avrebbero pensato a tutto loro, poi si sono rimangiati tutto, negandosi al telefono. Sono amareggiato per me e per i miei nipoti e voglio smascherare a nome di tutte le vittime queste promesse da marinaio fatte dalla politica». Ma non è finita qui: «Fa schifo pensare che siano morti per i soldi, sempre i soldi stanno dietro a tutto. Dove sono gli aiuti? Delle belle parole dette per tenerci buoni non ce ne facciamo niente. L'unica vicinanza sincera è stata quella dell'Arma dei carabinieri, soprattutto di Stresa e Verbania. Il resto è la solita politica scaricabarile». Guzzetti, ex cognato di Zorloni, è senza dubbio quello che tra i famigliari delle vittime ha attaccato con veemenza la classe politica. «Condoglianze? Non si può morire portando la famiglia in un posto tranquillo, o cadere da un ponte, le condoglianze della politica mi fanno solamente più rabbia, perché la responsabilità di queste tragedie è la loro». Il momento più duro per i famigliari delle vittime, oltre all'istante in cui qualcuno ha comunicato loro la ferale notizia, è stato l'attimo in cui hanno dovuto riconoscere i propri cari. A identificare il cadavere Vittorio Zorloni sono state le sorelle, in seguito una delle due ha dichiarato: «Nostro fratello era impossibile da riconoscere, solo un tatuaggio sul collo ha dimostrato che era lui». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/funivia-mottarone-incidente-2653122619.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-dinastia-che-fa-affari-da-un-secolo-ma-gigi-lerede-ha-corso-troppo" data-post-id="2653122619" data-published-at="1622110912" data-use-pagination="False"> La dinastia che fa affari da un secolo. Ma Gigi l’erede «ha corso troppo». Sul Lago Maggiore, dove vive in una villa ereditata dal padre con la moglie e i due figli, lo associano subito alle Ferrovie del Mottarone. Soprattutto perché la sua famiglia, sulla quale ha pure scritto un libro, gestisce i viaggi in montagna da circa un secolo: prima della funivia, aperta nel 1970 (la concessione ha scadenza nel 2028), la sua famiglia aveva l'appalto di un trenino a cremagliera acchiappaturisti posato sulle rotaie per la prima volta nel 1911. Fino ad allora arrivare in cima al Mottarone non era semplice: il monte era accessibile da Stresa, raccontano le guide turistiche, soltanto a piedi, utilizzando le vecchie mulattiere degli alpigiani. E quel trenino a cremagliera, corso su e giù per quasi 50 anni, fu lo strumento sul quale si poggiò tutta l'offerta turistica. Il padre Mario lo dismise il 13 maggio 1963, quando cessò l'attività per mancanza di sicurezza dovuta a «eccessiva anzianità». A sostituire la ferrovia a cremagliera fu un servizio di autobus che, coincidenza, fu assegnato alla società Autoservizi Nerini, che faceva il percorso solo due volte al giorno. Ma Luigi Nerini detto Gigi, 56 anni, diploma di liceo scientifico, entra in scena e diventa l'uomo delle funi il 29 agosto 1970, con l'inaugurazione della funivia. Ora è in carcere, in attesa di essere interrogato dal gip per la convalida. «Soffro per quelle vittime come se fossero miei parenti», aveva confidato agli amici. Un'immagine che non sembra conciliarsi con i sospetti contenuti nel decreto di fermo emesso dalla Procura di Verbania nei suoi confronti. Domenica sera, subito dopo l'incidente, aveva raggiunto l'impianto accompagnato dal suo legale per sostenere con i presenti che «controlli e manutenzione erano a posto». Quello stesso giorno, aveva espresso cordoglio per la tragedia e vicinanza alle famiglie coinvolte, per poi sparire fino a martedì sera, quando è entrato nella caserma dei carabinieri di Stresa, dalla quale è uscito con i carabinieri che l'hanno accompagnato in carcere. A Verbania Gigi ha anche una agenzia di viaggi. E altre società con le quali gestisce attrazioni per turisti in vetta al Mottarone: una pista da bob su rotaia attiva sia in estate che in inverno e un Safari Park. Ma è la funivia il business core della famiglia Nerini. Un giro da 200.000 turisti all'anno prima del Covid. Nel 2019 l'impianto ha registrato quasi 2 milioni di euro di entrate, ma anche 2,6 milioni di debiti. Nerini prende un compenso di 96.000 euro dalla società della quale detiene il 100 per cento delle quote. Quattro anni fa, ha ricostruito il Corriere della sera, Nerini ha acquistato l'80 per cento delle Funivie di Mottarone, poi diventata Ferrovie del Mottarone tramite una fusione, dopo aver rilevato anche il restante 20 per cento dalla società altoatesina Leitner. Quest'ultima aveva finanziato la società di Nerini, di cui aveva in pegno il 100 per cento. La Leitner inoltre è la società a cui Ferrovie del Mottarone ha affidato nel 2017 la responsabilità della manutenzione della funivia Stresa-Mottarone. I Nerini, però, sono arrivati al punto di arrivo per una strada molto tortuosa. La Leitner aveva citato in giudizio sia Ferrovie del Mottarone che papà Mario Nerini chiedendo anche un'ipoteca sui beni di famiglia. Il Comune di Stresa, invece, che eroga un contributo annuo che si aggira sui 130.000 euro, si è accontentato di due fideiussioni fornite dall'imprenditore per poco più di 100.000 euro. Inoltre, stando a una denuncia raccolta da Dagospia, la famiglia Nerini sarebbe proprietaria del terreno accanto alla stazione in cui un tempo arrivava il trenino a cremagliera, «lasciato in stato di grave abbandono nonostante le proteste dei locali e mai sanzionato dal Comune». Tra alcuni operatori turistici, riporta l'Ansa, c'è chi afferma, con un po' di malizia, che Nerini abbia «corso troppo». E che la gestione dell'impianto era troppo «intraprendente» sin dai tempi del trenino a cremagliera. «Se quello che dicono risultasse vero, sarebbe gravissimo, anche perché ne va dell'immagine del lago e dell'interno Verbano. Tanto più che l'impianto rischia di restare fermo per anni», si fa scappare un avventore del bar accanto alla partenza della funivia, posta sotto sequestro dalla magistratura. Per un amico, sentito sempre dall'agenzia di stampa, «è un imprenditore che ha saputo costruirsi un'attività cresciuta nel tempo, dando anche lavoro». Il numero dei dipendenti di Ferrovie del Mottarone, come spesso accade per le aziende che vivono di turismo, cambia in base alla stagione. Si va da un massimo di 18 tra maggio e agosto a un minimo di otto a novembre. «Ho preso spunto», raccontava presentando il suo libro sulla Ferrovia elettrica Stresa-Mottarone, «dal centenario del primo viaggio effettuato dal Trenino il giorno 11 luglio 1911, della Società Ferrovie del Mottarone, che oggi rappresento, per prendere coraggio al fine di scrivere la storia e le origini della mia famiglia, a partire dalla seconda metà dell'800...».
iStock
Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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Riduci
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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