2020-07-22
Fu Carlo Giuliani a mettersi nei guai. Perché celebrarlo come un martire?
Si trovava nel posto sbagliato, al momento sbagliato, soprattutto nel modo sbagliato. Diciannove anni dopo, è ora di ragionare.Perdonate il quesito urticante: cosa sarebbe successo se in quel maledetto 20 luglio 2001, durante il G8 a Genova, Carlo Giuliani fosse riuscito a scagliare lʼestintore allʼinterno di quella jeep dei carabinieri circondata da una pattuglia di manifestanti animati dalle peggiori intenzioni (urlavano: «Bastardi, adesso vi ammazziamo», secondo la testimonianza di uno di loro al processo)? Se uno dei militari fosse morto con la testa fracassata? Che oggi non saremmo più qui a parlarne, probabilmente.Dei servitori dello Stato caduti in servizio è lo stesso Stato a dimenticarsi in fretta, figuriamoci l'opinione pubblica di un Paese distratto e senza memoria come il nostro. Che però, per l'uccisione di quel giovane di 23 anni, fa un'eccezione. Da 19 anni, infatti, il rito si ripete: lo si evoca come martire della democrazia.Proviamo a ragionare insieme. Con una premessa sentita e non di maniera. Fossi stato un ragazzo-padre, Giuliani (anagrafe alla mano: lui classe 1978, io 1960) avrebbe potuto essere mio figlio. Ho sempre riconosciuto ai parenti di una vittima, di qualunque vittima, il diritto di difendere la memoria del proprio caro sottraendola all'oblio. Tanto più se si tratta dei genitori. Assistere al funerale della propria creatura: niente è più straziante per un papà e per una mamma. Soprattutto se è stata ammazzata come Giuliani. Non c'è stato anniversario in cui la ferita di quella morte non sia stata riaperta in nome del ricordo. Ma il ricordo di cosa? «Di Carlo e di una delle grandi ingiustizie commesse in questo nostro povero Paese», ha commentato qualche giorno fa il padre Giuliano Giuliani. Carlo, secondo la vulgata di amici, compagni e simpatizzanti, è stato «giustiziato». Chi usa quel participio passato non tollera subordinate, e censura qualunque obiezione che metta in dubbio il dogma. Ovvero l'elevazione agli altari di Giuliani come «santo della chiesa no global», definizione del grande Giampaolo Pansa, un democratico e un antifascista, che ho ritrovato in un bell'articolo del 2002 di Gian Antonio Stella proprio su questo tema. Segno che il tempo è passato invano, se siamo ancora qui ad affrontarlo praticamente negli stessi termini.Il bello è che a nutrire perplessità sulla ricostruzione dal sapore agiografico è anche chi, come me, ritiene che a Genova sia stata dispiegata un'azione repressiva che ha integrato una «sospensione del diritto» («mai più», ha scritto il sito Polizia e democrazia): la «macelleria messicana» con l'irruzione alla scuola Diaz e le torture nella caserma di Bolzaneto, con il ministro della Giustizia nel governo presieduto da Silvio Berlusconi, il leghista Roberto Castelli, a sostenere l'insostenibile: «Tennero gli arrestati in piedi per ore contro un muro per impedire che i ragazzi molestassero le ragazze», dimenticandosi le manganellate, i pugni, i piercing strappati e soprattutto il fatto che i fermati, con il black bloc, non c'entravano nulla.Ma, chissà perché, si finge sempre di ignorare che il G8 di luglio fu preceduto dal Global forum a Napoli in marzo, quando presidente del Consiglio era Giuliano Amato e ministro dell'Interno Enzo Bianco: anche lì ci furono eccessi e brutalità sui manifestanti, portati alla caserma Raniero, picchiati e umiliati, ma grazie a Dio nessun morto (in seguito furono istruiti processi ad appartenenti alle forze dell'ordine per violenza e sequestro di persona). Tornando a Genova, il giorno precedente al momento in cui il carabiniere Mario Placanica spara il colpo fatale che strappa la vita a Carlo Giuliani e rovina irrimediabilmente la propria, si svolse una manifestazione di 50.000 persone per i diritti degli immigrati. Pacifica. Senza incidenti. Venerdì 20, invece, l'Armageddon. Per colpa di chi? Chi crede alla teoria del complotto, accusa gli «infiltrati» -poliziotti e carabinieri in borghese - di aver aizzato la folla così da scatenare la reazione degli apparati dello Stato. Anche se così fosse, c'è da dire che evidentemente i sobillatori hanno potuto contare su un discreto numero di fiancheggiatori, vista l'enormità delle devastazioni (almeno 7 banche, 2 uffici postali, 51 agenzie di credito, 45 esercizi commerciali, 20 distributori di benzina, 23 uffici pubblici, 90 automobili). Purtroppo gli scontri di piazza hanno dinamiche imprevedibili, si nutrono di improvvise escalation e suggestioni collettive che sono come l'ossigeno per gli incendi. È così che si arriva a piazza Alimonda. Carlo Giuliani si ritrovò con passamontagna e un estintore in mano, in mezzo a una pattuglia di giovani che brandivano mazze, spranghe, travi, a dare l'assalto a un Defender che era rimasto isolato e il cui motore si era spento. A bordo, tre militari, tra cui Placanica, 20 anni, in servizio di leva. Si è sempre sostenuto: «Placanica avrebbe potuto non sparare» (estremamente facile a dirsi, dato il contesto). Si è sempre replicato: «Giuliani avrebbe potuto non correre verso la jeep brandendo un estintore», non immaginando certo che all'interno ci fosse un giovane più giovane di lui andato nel panico. Con il senno di poi, e per quanto sia duro ammetterlo perché si corre il rischio di essere marchiati come complici morali in un famigerato quanto presunto «omicidio di Stato», è stato Giuliani a mettersi in un'oggettiva situazione di pericolo. Ben gli è stato, allora? Mio Dio, no. Ma non è stata neppure un'esecuzione. Si trovava nel posto sbagliato, al momento sbagliato, soprattutto: nel modo sbagliato. Non era, per capirci, Giorgiana Masi, uccisa a Roma nel 1977 da un proiettile mentre era a passeggio con il fidanzato (con il consueto rimpallo di responsabilità: il ministro dell'Interno Francesco Cossiga puntò il dito contro gli autonomi di estrema sinistra, la sinistra e i radicali contro i poliziotti in borghese, peraltro fotografati e finiti sui giornali). Tant'è vero che nel 2009 la Corte europea dei diritti dell'uomo, pur riconoscendo che «le autorità italiane non hanno condotto un'inchiesta adeguata sulle circostanze della morte» (per verificare «le eventuali mancanze nella pianificazione e gestione dell'ordine pubblico»), ha stabilito che Placanica agì per legittima difesa, senza uso eccessivo della forza: «La sua è stata solo una risposta a quello che ha percepito come un reale e imminente pericolo per la sua vita e quella dei colleghi». Sentenza confermata in via definitiva, con la piena assoluzione anche dello Stato italiano, nel 2011.Negli anni, Carlo Giuliani è rimasta una vivida presenza per molti, ma anche un fantasma che non ha dato pace a Placanica, la cui esistenza si è avvitata su se stessa: ha ritrattato giurando di non aver sparato, ha affermato di essere stato incastrato come capro espiatorio, ritrovandosi congedato dall'Arma, pronto a candidarsi nelle liste di Alleanza nazionale al comune di Catanzaro, denunciato nel 2009 per violenza sessuale ai danni di una bambina di 11 anni, imputazione da cui è stato assolto nel 2017 su richiesta dello stesso pubblico ministero perché «il fatto non sussiste».Ps. L'anno prossimo saranno vent'anni dal G8 ma anche dieci anni dalla battaglia tra «indignados» e polizia nella Capitale. In quell'occasione fu immortalato un giovane cui il lancio di un estintore riusciva. Un giovane emulo di Giuliani, più fortunato di lui, Fabrizio Filippi alias «Er Pelliccia». Condannato a tre anni per resistenza aggravata e violenza a pubblico ufficiale, diventati due in appello (con lo sconto è scattata la condizionale), al primo interrogatorio si dichiarò pentito, provando a giustificarsi sostenendo di aver cercato di dare una mano a spegnere un incendio. L'episodio conferma lʼassunto di Karl Marx: «La storia si presenta sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa».
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