2021-10-08
Il frutti dell’albero del pass sono marci però ce li fanno cogliere lo stesso
La religione vaccinale discrimina, non è decisiva per i contagi, azzoppa le libertà e scatena odio sociale. Perché crederci ancora?Dal prossimo 15 ottobre diventerà obbligatorio sottoporsi a un trattamento sanitario invasivo, un tampone faringeo o un’iniezione ripetuti nel tempo, per poter svolgere un lavoro nel nostro Paese. Ormai non fa quasi più effetto osservare che si tratta di una misura senza riscontri nella nostra storia, nel mondo, nella storia del mondo. È bastato infatti un anno e mezzo di deroghe continue alle consuetudini e alle leggi per fare dell’eccezione un’abitudine e dell’inconcepibile una norma. Se per molti la desiderabilità del fine enunciato, di frenare il diffondersi di una malattia, può motivare ogni mezzo, altri hanno invece contestato l’utilità e la liceità della decisione. Ancora una volta i cittadini si sono divisi in un conflitto dove gli uni vanno all’attacco con l’arsenale offerto dai potentati della politica e dell’informazione, gli altri si difendono alla disperata, con i mezzi di cui dispongono.Nel trambusto di questa guerra asimmetrica è difficile orientarsi, impossibile soffermarsi sull’analisi quando paura, interesse e rabbia gridano le loro ragioni e, oltretutto, il tenore tecnico del contendere riduce al minimo il margine del giudizio informato. Compromessa la possibilità di conoscere, occorre allora un criterio restaurativo della conoscenza possibile, un criterio gerarchicamente superiore e quindi epistemico. Se l’acqua è torbida, bisogna attingere alla fonte. Una definizione autorevole e antica di questo criterio si trova nel Vangelo di Matteo, quando il Maestro spiega ai discepoli come smascherare i «falsi profeti»:«Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere (Mt 7,15-20)».Su questa verità poggia ogni altra verità. Non ci è dato conoscere le cose nella loro essenza, ma solo riconoscerle risalendo a ritroso dai loro fenomeni. Definiamo i sostantivi dai loro predicati: i composti chimici da come reagiscono, gli oggetti da come appaiono, il pensiero da ciò che si dice e si fa ecc. Confezioniamo così modelli e tassonomie dell’inconoscibile «scatola nera» (Watzlawick, Pragmatica della comunicazione umana) in cui si nasconde la realtà «reale», e quindi anche le scienze, le cui leggi sono vere se i frutti dell’osservazione combaciano con l’albero delle ipotesi «e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, non sopra un mondo di carta» (Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi). Il sermone evangelico estende il principio anche al dominio morale affinché valga per giudicare le intenzioni degli uomini: siccome «tu solo [Dio] conosci il cuore di tutti i figli degli uomini» (I Re 8,39), ai mortali tocca indovinare l’albero del cuore considerando i frutti delle azioni. Chi vuole il bene non farà il male, da chi fa il male non verrà un bene.La vicenda del passaporto verde e del suo intento sotteso, di «accelerare le vaccinazioni e farne fare di più» (così Paolo Mieli, tra i tanti), si presta assai bene alla prova evangelica perché il suo beneficio si declina nel tempo futuro della promessa, appunto di una «profezia» non ancora realizzata ma i cui frutti pendono già maturi dal ramo. Da questi ultimi si deve oggi riconoscere l’albero, se è buono o se va «tagliato e gettato nel fuoco». Proviamo a esaminarlo, ramo per ramo.Primo ramo: la tutela della salute. Per l’Organizzazione mondiale della sanità la salute è «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia» (Costituzione dell’Oms, 1946). Una discriminazione volta a limitare il godimento di alcuni diritti costituzionalmente ordinati, o una campagna denigratoria di vasta eco dove chi esprime una certa scelta diventa pubblicamente un «sorcio», un «pazzo» o un «criminale» sono evidentemente lesive del «benessere sociale», e quindi della salute. L’angoscia di chi ha perso o perderà il lavoro, lo stigma, la vergogna, il risentimento, l’emarginazione, il conflitto sono evidentemente lesivi del «benessere mentale», e quindi della salute. La negazione del reddito e la crisi di alcuni settori economici sono evidentemente lesivi del «benessere fisico» se non proprio della sussistenza, e quindi della salute. La sospensione di migliaia di medici e di altri operatori sanitari mina proprio l’«assenza di malattia», e quindi la salute anche nella sua accezione più elementare.Secondo ramo: ne vale la pena. Nei bollettini epidemiologici italiani si legge che da quando le coperture vaccinali hanno superato soglie significative, gli eventi clinici attribuiti alla malattia sono aumentati rispetto allo stesso periodo del precedente anno «pandemico», pur caratterizzato da meno restrizioni e dall’assenza di vaccinazioni. Lo stesso nesso è stato osservato nella conta dei contagi su scala globale (cfr. l’ultimo studio di Subramanian e Kuman, European Journal of Epidemiology). Senza trarre altre conclusioni, previsioni o interpretazioni, osserviamo galileianamente che la robustezza dei frutti promessi «nel mondo di carta» è lontana da quella dei frutti osservati nel «mondo sensibile».Terzo ramo: la libertà. Che i provvedimenti in arrivo servano a ripristinare le libertà perdute negli ultimi mesi è fattualmente falso in senso assoluto, perché al contrario introducono limiti al godimento dei diritti sociali e civili. Ma lo è anche in senso relativo, perché i nuovi limiti non escludono né sostituiscono i precedenti. In questa torsione che tanto sembra parafrasare un celebre motto orwelliano, ricorre la solita fallacia discronica dell’albero della profezia (saremo più liberi) che produce frutti a sé opposti (siamo meno liberi).Quarto ramo: un «atto d’amore». Così papa Francesco ha definito la nuova vaccinazione, caricandola di un’aura anche spirituale. Il segretario generale della Fraternità San Pio X, roccaforte dell’ala tradizionalista cattolica, ha rilanciato l’idea in modo più attorcigliato commentando che sì, «le condizioni attuali possono essere considerate abusive», ma proprio in virtù di queste condizioni «può accadere che l’obbligo di compiere un dovere di carità ci spinga ad accettare di essere vaccinati». È buffo osservare come tra i tanti frutti portati dall’albero di questi amorevoli precetti, i più evidenti siano invece proprio quelli dell’odio: di un odio feroce come quello che accompagna le persecuzioni e le guerre civili, che fa desiderare pubblicamente l’umiliazione, la miseria e anche la morte dell’avversario.E poi, quanto amore può esserci in un dispositivo consapevolmente congegnato come una vessazione e un ricatto? E se la prospettiva di perdere il lavoro e la retribuzione spaventa soprattutto le persone più bisognose, quanto è amorevole infierire su chi è debole? Nel catechismo non si parla di iniezioni, in compenso il peccato di opprimere i poveri è tra quelli che gridano vendetta a Dio. In un famoso commentario del 1963, padre Carlo Dragone lo descriveva con una precisione che oggi sembra profetica:«Chi abusa della sua forza fisica o morale, della sua autorità e della posizione sociale per opprimere gl’indifesi, per imporre la sua volontà ed estorcere quello che vuole, pecca gravemente contro il comandamento dell’amor del prossimo, rende insopportabile la vita, già dura per sé stessa, specialmente per i poveri. Quanti politicanti e quanti ricchi possidenti si rendono colpevoli di questo peccato, dicendo e facendo credere che procurano il bene del popolo, che tutelano gl’interessi delle classi umili e dei lavoratori, speculando sulla loro miseria e vivendo del loro sangue!».In breve, non c’è nulla di irrazionale nel dubitare della bontà di una cosa che fa male a così tanti livelli. Nulla di illogico nelle parole della consigliera comunale che valutava di vaccinarsi «ma l’aggressività e la coercizione che adottate sono così abnormi che ho deciso che non mi vaccinerò per nulla al mondo». O dell’insegnante altoatesino che argomentava ai microfoni della televisione: «Se mi costringono e dicono «ah, io ti procuro la morte economica se non ti fai vaccinare», allora è un indizio che è sbagliata la tesi». Nulla di irragionevole nel diffidare di un’offerta che non si può rifiutare: è la semplice applicazione di un criterio naturale e anche divino. Assurda è piuttosto la malintesa idea di complessità in cui si frantuma oggi il pensiero nei suoi legami più intimi ed elementari, la pretesa di anteporre all’esperienza dell’evidenza le verità invisibili e controintuitive delle indagini multifattoriali, delle inferenze ideologiche, dell’eterogenesi dei fini, dello psicologismo, delle strategie di lungo termine, delle auctoritates di settore e di ogni altro espediente con cui si dà al semicolto l’illusione di una scaltrezza analitica. In questo garbuglio le gerarchie informative si appiattiscono e tutto si equivale, tutto può essere indifferentemente e plausibilmente vero, sicché vince chi ha la voce più forte, qualunque cosa decida. Anche che l’uva cresce dalle spine e i fichi dai rovi.