2024-03-12
La lezione dimenticata di Basaglia sulla scienza «serva» del potere
Franco Basaglia nel 1979 (Ansa)
La sinistra esalta lo psichiatra per la riforma dei manicomi. Ma il suo più grande, e attuale, lascito è la disamina degli specialisti-funzionari: una casta dedita a validare il pensiero dominante. Che abbiamo rivisto con il Covid. L’11 marzo del 1924 a San Polo, provincia di Venezia, nasceva uno degli uomini che, nel bene e nel male, hanno maggiormente influenzato la psichiatria a livello italiano e forse mondiale. Franco Basaglia, ispiratore della legge 180 che nel 1978 ha abolito i manicomi e teorizzatore di una nuova concezione della salute mentale che ancora adesso, tra alti e bassi, influenza il lavoro di medici e operatori sanitari. Proprio in virtù dell’impatto avuto dal suo pensiero, Basaglia è divenuto - già in vita - uno dei numi tutelari della sinistra italiana, molto citato e celebrato. Tanto si potrebbe e dovrebbe dire dei risultati prodotti dalla legge che ha ispirato e dell’opera di coloro che - talvolta estremizzandone o fraintendendone le teorie - hanno voluto proporsi come prosecutori della sua opera. E parecchio di quel che si potrebbe dire non è positivo: smantellato l’odioso sistema di contenimento dei pazienti psichiatrici, quanto accaduto dopo non ha esattamente migliorato la situazione. Ma non è questo che ci interessa nei giorni del centenario basagliano, mentre già sui quotidiani spuntano articoli commemorativi e incensatori. È più suggestivo, oggi, rileggere ciò che Basaglia scrisse all’apice della sua fama: i corposi saggi con cui ha diffuso le sue idee in tutto l’Occidente, molto letti all’epoca e molto meno sfogliati oggi. A ripubblicarli tutti ci ha pensato l’editore Baldini e Castoldi, che ha rimandato in libreria nuove edizioni di testi ormai classici. Tra questi spicca Crimini di pace, del 1975, che raccoglie interventi di stelle del pensiero progressista come Michel Foucault, Noam Chomsky, Erving Goffman, Ronald Laing, Thomas Szasz e altri, oltre ovviamente a scritti dello stesso Basaglia e di sua moglie Franca Ongaro. Nel saggio intitolato appunto Crimini di pace si dipanano tutti i contenuti più rivoluzionari del pensiero basagliano, e rileggerlo oggi è piuttosto impressionante. La sensazione è che la sinistra italiana e internazionale ancora così affascinata dal santino Basaglia abbia sostanzialmente cancellato la parte più utile ed efficace della sua lezione, e cioè quella che ruota attorno alla scienza come sistema di potere. Al netto delle incrostazioni marxiste che un po’ la viziano e tenendo sempre presente il contesto politico, sociale e culturale dell’epoca in cui certe idee si svilupparono, la critica scientifica di Basaglia alla scienza ha ancora adesso molto da dare, soprattutto alla luce di quanto accaduto durante il periodo del Covid e delle derive dello scientismo e del positivismo di ritorno. In Crimini di pace, Basaglia riprendeva le considerazioni di Antonio Gramsci sul ruolo degli intellettuali e spiegava che «i tecnici professionali (o gli intellettuali, per restare nella citazione gramsciana) hanno abitualmente il compito di assicurare legalmente la disciplina di quei gruppi che non “consentono” né attivamente, né passivamente». In effetti, negli anni della pandemia e in larga parte anche in seguito, esperti, tecnici e medici hanno svolto esattamente questo ruolo: si sono occupati di convincere o di garantire la disciplina dei gruppi dissenzienti, contribuendo a stigmatizzarli quando non si adattavano alle necessità imposte dall’ideologia. Basaglia spiegava che anche «la società “libera” ha bisogno di isolare e separare gli elementi di disturbo sociale e delega gli scienziati a controllarne il contenimento». E che questo sia avvenuto di recente non ci possono essere dubbi. Lo psichiatra veneziano era convinto che le classi subordinate vedessero nella scienza «un valore assoluto», che la massa accetta perché «al di là della propria possibilità di conoscere e di comprendere, e perché manipolata in modo da non conoscere, né comprendere». A suo dire, l’ideologia scientifica «riesce a far accettare alla classe subalterna misure che apparentemente rispondono ai suoi bisogni e che, di fatto, la distruggono (in questo consistono le ideologie)». Per Basaglia, «la critica teorico-pratica della scienza in quanto ideologia (cioè in quanto strumento di manipolazione in vista del consenso) comporta la conoscenza del rapporto diretto tra committente (gruppo dominante), funzionario (l’intellettuale o il teorico che produce l’ideologia e il tecnico che la traduce in pratica) e la finalità d’uso, da parte del committente, dell’ideologia in quanto tale». La critica basagliana risulta particolarmente efficace quando sostiene che l’ideologia scientifica, nella pratica del settore sanitario, conduca alla «creazione di nuovi servizi che, anziché far fronte alla malattia da curare, ne rileveranno nuove forme non ancora codificate, per le quali i servizi progettati saranno l’adeguata risposta ideologico-reale». E, ancora di più, questa critica appare notevolmente potente quando spiega che nell’attuale sistema «la norma è rappresentata dall’efficienza e dalla produttività; chi non risponde a questi requisiti, deve trovare una sua collocazione in uno spazio in cui non intralci il ritmo sociale. Scienza e politica economica vanno di pari passo, confermando la prima i limiti di norma più confacenti e utili alla seconda. La scienza serve così a confermare una diversità patologica che viene strumentalizzata secondo le esigenze dell’ordine pubblico e dello sviluppo economico, assolvendo la sua funzione di controllo sociale». Rapportando tutto ciò alla gestione del covid ne ricaviamo un quadro semplicemente spaventoso. Ciò che Basaglia - forse esagerando e generalizzando - prevedeva si è realizzato compiutamente nel corso della pandemia, quando medici, scienziati ed esperti sono diventati i tutori dell’ordine costituito e i vessilliferi del potere dominante, abdicando all’esercizio del dubbio e rinunciando all’utilizzo della ragione. In realtà, il discorso si potrebbe persino allargare: quando si parla dell’efficienza e della produttività come norme è difficile non pensare all’eutanasia, e all’insistenza con cui oggi si spinge per l’eliminazione fisica dei soggetti improduttivi e costosi da mantenere nelle strutture sanitarie. Ma visto che la produttività è appunto la norma, anche del pensiero si tende a conservare soltanto ciò che è utile, che porta vantaggio all’ideologia prevalente: tutto il resto è inutile e dannoso. Dunque di Basaglia si tengono l’immagine stereotipata e qualche slogan sull’inesistenza della malattia mentale (cosa che egli non ha mai teorizzato), ma si trascura serenamente il suo allarme sull’involuzione della scienza occidentale. O, meglio, degli esperti che la pervertono a proprio vantaggio.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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