2024-01-07
Francesco Cafiso: «Sulle spalle dei giganti porto il suono della Sicilia nell’Olimpo della musica»
Il sassofonista Francesco Cafiso
L’ex enfant prodige del sassofono, scoperto a 13 anni da Marsalis: «Il tour con Wynton, dall’Europa alla Casa Bianca, ha segnato la svolta. Trovare la mia voce è stata dura».Il Natale e l’Epifania tutti i festival si portan via, tranne Umbria Jazz in modalità inverno, da 30 anni l’ambìto rifugio di chi, tra un cotechino e un pandoro Balocco, oltre il picco glicemico rischia la crisi d’astinenza di musica dal vivo. Anche l’edizione appena andata in scena, come sempre abbarbicata su quella preziosa rupe di tufo chiamata Orvieto, ha sparato i suoi fuochi d’artificio a cavallo di Capodanno. Solo alcuni tra i più scintillanti, in ordine sparso: Cécile McLorin Salvant, cantante di Miami che da queste parti era già di casa quando ancora non collezionava Grammy e non inaugurava gli Us Open (una storia che si ripete - chiedere a Samara Joy e a Jon Batiste - grazie all’intuito di Carlo Pagnotta, padre della kermesse), e che stavolta si è sottoposta anche al blindfold test di Ashley Khan per la rivista Downbeat (chi vuole mettersi alla prova trova la playlist su Spotify). Poi, due rettori dell’università italiana della tromba jazz come Enrico Rava e Fabrizio Bosso. De André che rivive nello spettacolo di Luigi Viva, in cui vengono svelate alcune riflessioni inedite di Faber e si approfondisce il suo legame con il jazz di Jimmy Giuffre. Il Virginia State Gospel Choir, protagonista di una messa della pace in Duomo, oggi particolarmente necessaria. E, per chiudere, una degustazione verticale di sassofonisti per tutti i palati: Steve Wilson, Alexa Tarantino, Piero Odorici, Daniele Scannapieco, Nico Gori, Filippo Bianchini, Ray Gelato, Chico Freeman, Joe Lovano e Francesco Cafiso. Di quest’ultimo si parla da quando era un bambino prodigio, Umbria Jazz l’ha nominato «ambasciatore della musica jazz italiana nel mondo» quando aveva 20 anni. E oggi, che ne ha 34, ha appena ricevuto la nomina di cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica italiana nella sua Sicilia. Chi si sta domandando perché un giovane musicista può già vantare il curriculum di un diplomatico forse ha voglia di ascoltare questa storia.Partiamo da un flashback. Pescara Jazz 2002, sul palco c’è un duo: al pianoforte un’autorità come Franco D’Andrea, al sassofono lei (il video è ancora a disposizione su Youtube). La sua vita sembra già movimentata, visto che ha solo 13 anni, ma sta per cambiare radicalmente. «Ricordo tutto benissimo: il nostro è il set di apertura del concerto del trombettista Wynton Marsalis. Stiamo finendo di suonare, quando a un certo punto il batterista e il contrabbassista dell’orchestra del Lincoln Center salgono a sorpresa sul palco e ci chiedono di fare un paio di pezzi con loro. Va tutto alla grande, ringraziamo per gli applausi e andiamo a cena».Poi cosa accade?«Entro nel ristorante con Franco e la mia famiglia. Stanno per servirci da mangiare, ma arriva di corsa qualcuno dell’organizzazione che dice che Marsalis vuole conoscermi subito. All’epoca ero davvero un ragazzino e oggi posso confessare che allora non sapevo neanche bene chi fosse questo Marsalis. Per cui dico: “Va bene, appena finiamo veniamo a salutare”. Ma D’Andrea prende la parola».E cosa dice?«“Devi andare subito. Conoscere Wynton Marsalis significa entrare dalla porta principale del jazz mondiale”. Per cui niente, molliamo tutto e torniamo indietro. E così, in un lampo, mi ritrovo in tour con la band (il suo settetto) per tutta l’Europa. Tenga presente che non ero mai stato all’estero, non sapevo una parola d’inglese e mi ritrovavo in mezzo a musicisti di livello internazionale. All’inizio ero completamente spaesato, è stata un’esperienza così intensa che non ho scordato nulla: gli odori, le sensazioni, i dialoghi…».Marsalis, su queste colonne, di lei ha detto: «He’s my man… Francesco oggi cammina con le sue gambe, ma quella volta mi ha fatto morire dalle risate». «Si divertiva perché abbiamo attraversato la Germania, la Spagna, siamo stati a Parigi e Londra e in moltissime altre città. E davanti a tutte le meraviglie che ammiravamo, sia che si trattasse di architettura, di paesaggi, di cibo o di arte, io, che arrivavo dal profondo Sud, per la precisione da Vittoria (Ragusa), continuavo a ripetergli che l’Italia era meglio. Oltre al divertimento comunque abbiamo lavorato come matti».La vostra giornata tipo?«Spostamenti in pullman tra una città e l’altra e prove ovunque: a bordo del nostro mezzo o nelle camere d’albergo. Io cercavo di assorbire tutto, osservando Wynton in ogni cosa che faceva. Lui mi faceva prendere lezioni dai suoi amici musicisti, che spuntavano in ogni tappa. Ricordo per esempio l’incontro con Roy Hargrove (trombettista statunitense, scomparso all’età di 49 anni nel 2018, ndr) in Olanda e i consigli di Wessel Anderson, il sassofonista del gruppo».Dopo un paio di mesi di date, lei è tornato alla sua vita di prima in Sicilia?«Più o meno. A livello mediatico la notizia aveva fatto parecchio baccano, per cui la mia vita non è stata più la stessa, anche se ho continuato a vivere e a studiare nella mia terra. Qualche anno dopo, nel 2009, arriva un’altra mail dell’organizzazione di Marsalis, ma questa volta c’è anche il logo della Casa Bianca. Inizialmente penso che si tratti di spam. Invece, non faccio nemmeno in tempo a prendere il primo volo, che mi ritrovo a suonare all’insediamento di Barack Obama, sempre con l’orchestra di Wynton e due leggende come Roy Hanes alla batteria e Dave Brubeck al pianoforte». Dopo la ribalta da enfant prodige com’è andata avanti la sua evoluzione? Ricordo che all’inizio di lei si diceva che suonasse istintivamente qualcosa che non c’era ancora stato il tempo di insegnarle.«A un certo punto ho sentito l’esigenza di un percorso più introspettivo per trovare la mia dimensione, in termini di suono e di linguaggio, sviluppando anche una mia strada per la composizione. È stato un lungo lavoro su me stesso per discostarmi dai miti musicali che all’inizio tendevo a imitare».Anni fa lei mi parlò in particolare di Charlie Parker e di Phil Woods. «Sono rimasti dei fari, ma ho dovuto fare un passo indietro, soprattutto se parliamo di Woods, artista con il quale ero particolarmente fissato all’inizio. Ricordo di aver sentito la necessità di fare uno scatto in avanti, perché percepivo il rischio di non divertirmi più. Nel jazz mettersi in gioco è fondamentale».E a livello di suono cos’è cambiato?«Ho iniziato pian piano a capire che la voce che stavo cercando era a metà tra il sax tenore e l’alto. Né il classico suono grave del primo, né quello cristallino del secondo. Per un po’ ho proprio smesso di ascoltare i dischi degli altisti e mi sono concentrato sui tenoristi. Poi dev’essere cambiato qualcosa a livello fisiologico nel mio approccio allo strumento e ho percepito una svolta».Tra i sassofonisti che hanno sfilato in quest’ultima edizione di Umbria Jazz Winter ce n’è qualcuno che sente più vicino?«Se devo fare un nome solo dico Joe Lovano».Guarda caso un musicista americano molto fiero delle sue radici siciliane. «Esatto» (ride). «È uno dei miei sassofonisti preferiti in assoluto e nel 2004 è stato molto gentile a invitarmi a suonare con il suo supergruppo (Hank Jones al pianoforte, George Mraz al contrabbasso e Dennis Mackrel alla batteria). Da allora lo chiamo Uncle Joe. Per quanto riguarda la sue radici, recentemente ha voluto visitare i paesi dove erano nati i suoi nonni, prima che emigrassero a Cleveland: Alcara Li Fusi e Cesarò, entrambi in provincia di Messina».Senza scomodare il cornettista Nick La Rocca e il batterista Tony Sbarbaro, che incisero il primo disco di jazz della storia nel 1917, i musicisti siciliani hanno una radice riconoscibile secondo lei?«È quello che spero che gli altri possano sentire quando suono io, in termini di energia e di fraseggio. Per esperienza posso dire che negli Stati Uniti mi fanno notare, in senso buono, che sono diverso dagli americani».Percepiscono un’originalità?«Credo di sì. Su questo forse bisognerebbe aprire una parentesi sull’educazione musicale italiana e americana. Negli ultimi due anni mi sono trasferito a New York per frequentare l’Artist diploma della Juilliard, un programma per musicisti professionisti che ha lo scopo di formare un gruppo che rappresenti una scuola che, a mio avviso, non ha eguali nel mondo».Principali differenze con i Conservatori italiani?«L’organizzazione e i mezzi a disposizione non sono paragonabili. Ma è l’approccio l’aspetto che fa più la differenza. In America attraverso l’ascolto analitico dei dischi si gettano delle basi molto solide per costruire un’identità artistica. Dall’altro lato, il rischio di questo tipo di didattica è quello di uniformare i musicisti. Bisogna essere bravi ad apprendere i concetti più importanti senza perdere la propria voce. Da noi forse c’è più libertà, ma meno analisi».Nel futuro si vede più in Sicilia o nella Grande Mela?«A New York. Secondo me oggi è la tappa obbligata di chi vuol fare questo mestiere. Tanto è vero che la comunità dei jazzisti italiani che vivono lì continua a crescere».Per chiudere, uno degli ultimi concerti di Umbria Jazz Winter l’ha vista sul palco con il trio di Alessandro Lanzoni e con un ospite speciale: Enrico Rava, il trombettista a cui piace molto suonare con i giovani e incoraggiarli. Non a caso a Orvieto ha portato anche il suo progetto The Fearless Five, con Matteo Paggi, Francesco Diodati, Francesco Ponticelli ed Evita Polidoro. «Per quanto riguarda Lanzoni posso anticiparle che torneremo quest’estate a Perugia, sempre per Umbria Jazz. A Enrico invece posso solo voler bene. È un altro musicista che mi ha preso sotto braccio e mi ha fatto fare un sacco di esperienze. Quando alla Juilliard mi hanno chiesto di scegliere un artista da presentare agli altri musicisti non ho avuto dubbi e ho fatto una lezione sulla poetica di Rava».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.