2020-05-25
Fra i monti con Thomas Bernhard si ride di una umanità mostruosa
Thomas Bernhard (Wikipedia)
Adelphi pubblica «Midland a Stilfs», raccolta di racconti del grande scrittore austriaco. Che ci porta a contatto con la natura. Senza la parte spirituale, però, anche la vetta più splendida diventa «micidiale».Julius Evola, nelle sue Meditazioni delle vette, spiegava che la montagna è «via di liberazione, di superamento, di compimento interiore». Sulle cime, «i due grandi poli della vita allo stato puro: azione e contemplazione - vi si congiungono». Ecco ciò che accade quando l'esperienza della natura si fa spirituale e non meramente terrena, quando si compie «la vera realizzazione, cioè la trasformazione dell'esperienza della montagna in un modo d'essere». Se viene a mancare lo slancio verso l'alto - cioè verso l'ultraterreno - la situazione cambia radicalmente. «Destituito di ogni carattere spirituale e supernaturale», scriveva Evola, «tutto ciò che è forza e virilità assume qui un carattere oscuro, selvaggio, appunto “ctonio" e tellurico». Senza lo spirito, si scatenano forze sotterranee, inquiete, caotiche e brutali. Non importa quanto si sia saliti in alto, non conta a che altitudine si sia affondato il bastone: si sprofonda comunque in abissi popolati da entità mostruose e terribili. Ne sapeva qualcosa un altro autore molto amato dai tradizionalisti: H.P. Lovecraft. Egli è stato senz'altro il più grande cantore dell'orrore profondo nella storia della letteratura. Nei suoi libri gli esseri umani sono schiacciati da esseri alieni, bestie innominabili e immonde provenienti dagli abissi della storia e dell'universo. Mostri così antichi e potenti da rendere gli individui più piccoli di un granello di sabbia. A capirlo meglio di tutti è stato Michel Houellebecq, che in parte condivide la visione di Lovecraft. «Difficile a questo punto non sentirsi trapassati e annientati dal nulla assoluto di ogni aspirazione umana», ha scritto il francese. «L'universo non è altro che una accidentale combinazione di particelle elementari. Una figura di transizione verso il caos, che finirà per inghiottirla. La razza umana scomparirà. Altre razze compariranno per poi scomparire a propria volta. I cieli saranno distese gelide e vacue, solcate dalla fioca luce di stelle mezzo morte». Se si perde la dimensione spirituale, se il sacro viene spazzato via dalla natura, resta l'orrore senza fine che ci trascina in profondità. Ed è esattamente questo tipo di orrore che si manifesta nella località montana di Stilfs in cui Thomas Bernhard ha ambientato il primo dei tre racconti contenuti in Midland a Stilfs, appena uscito per Adelphi. I personaggi sono tra le vette, dunque vicini al cielo. Vivono «nell'alta montagna, che qui regna sovrana come natura assoluta, soli e lasciati a noi stessi, senza intrusi e senza stranieri». Si potrebbe supporre, dunque, che queste persone conducano un'esistenza ricca, a contatto come sono con la natura più rigogliosa. E invece no. Invece il loro paesino di montagna - capace quando vuole di attrarre turisti e cittadini in cerca d'aria buona - si è tramutato in una sorta di tomba, una prigione che li opprime più di quanto il lockdown non abbia oppresso tutti noi, un «luogo micidiale». Sono legati alle sorgenti della vita, gli abitanti di Stilfs, però nell'universo di Bernhard tutto ciò non ha alcun senso. Lo scrittore austriaco detestava la religione, faceva piazza pulita del sacro, vedeva soltanto l'umanità nella sua brutale quotidianità. Ed ecco allora che anche il luogo più paradisiaco si tramuta in un inferno. Anche la cima diventa un abisso come quelli di Lovecraft. Solo che, per il «solitario di Province» i mostri si chiamavano Shub-Niggurath o Bugg-Shash. A Stilfs i mostri si chiamano semplicemente Franz o Roth, ma sono altrettanto inquietanti. «Il nostro destino si chiama Stilfs, perpetua solitudine», è la condanna di Bernhard. Gli abitanti del paese subiscono un «martirio di alta montagna», abitano «un inferno di solitudine». Essi odiano Stilfs «con un'ossessività persino degradante». La natura senza spirito, per costoro, non è fonte di nutrimento, ma orrenda voragine di fatica e dolore. «Il nostro stato naturale è lo stato di sfinimento. Nella massima fatica viviamo controvoglia, cosa che sfinisce a morte». Gli uomini e le donne di Bernhard sono piegati da difficoltà bestiali, da malanni fisici invalidanti, da tare mentali. Sono esseri tellurici in preda agli istinti più caotici e belluini. Mostri lovecraftiani, appunto. Con una differenza. Lovecraft, seppure adepto della scienza più glaciale, dava alla sua opera un profumo di sacro. Il suo sovrannaturale è nerissimo, e ribaltato, ma c'è. Dunque i suoi mostri non si possono non prendere sul serio, spaventano. I mostri di Bernhard, invece, suscitano un riso isterico. Le loro fatiche sono fantozziane. La totale mancanza di senso della loro vita li rende perversamente comici. Ecco perché le opere di Bernhard, per quanto agghiaccianti, fanno ridere. Lo spiegava lui stesso, ciurlando un po' nel manico: «A volte prorompo io stesso in una sonora risata, penso, ecco è proprio da ridere. Ma a volte la gente trova che non ci sia affatto da ridere, mentre io scoppio in risate fragorose, - già quando scrivo o anche dopo, durante la revisione». Volete sapere per che cosa rideva Bernhard? Ecco un aneddoto che raccontò con grande soddisfazione in una intervista del 1982: «Sono venuto via da Vienna perché era troppo affollata. E poi tutti i miei amici erano morti. L'ultimo, lo scrittore Gerard Fritsch, durante una cena a casa sua tra amici si è assentato per un po'. Lo abbiamo trovato in un'altra stanza. Impiccato. Si era truccato da donna, aveva indosso i vestiti della moglie. Aveva scelto il costume tipico austriaco, quello col corpetto scollato».Privo dello spirito, l'uomo è soltanto un essere oppresso da pesi intollerabili, un groviglio di pulsioni senza capo né coda, un granello di sabbia in balia della natura feroce. E più le sue disgrazie sono grandi, più egli è ridicolo. Un mostro che non spaventa nemmeno più, perché «sappiamo che siamo alla fine e che la vita per non ha più alcun senso».
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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