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2018-10-05
Denunciato don Biancalani, aveva pubblicato le foto dei migranti in piscina
La smania di protagonismo è una belva difficile da domare, e quando esce dalla gabbia provoca danni notevoli. Ne sa qualcosa don Massimo Biancalani, il sacerdote di Vicofaro, a Pistoia, che da anni si affanna per apparire in televisione e sui giornali nel ruolo di paladino dei migranti. Per farsi notare le ha provate tutte e molto spesso non gli è andata bene. L'ultima vicenda che lo vede protagonista, però, è probabilmente la più eclatante. Mercoledì, il prete ha tenuto una conferenza stampa in cui ha espresso solidarietà al sindaco di Riace e ha raccontato di essere indagato. «Di questo fatto non ho mai parlato fino ad oggi», ha dichiarato, «lo dico solamente per far capire quanto sia difficile e rischioso occuparsi dell'accoglienza dei migranti, ma anche delle altre persone che ho accolto».
Chiaro no? Il sant'uomo ha pensato bene di sfruttare i guai giudiziari di Mimmo Lucano per rimediare un po' di pubblicità gratuita, credendo di potersi atteggiare anche lui a vittima del sistema razzista e intollerante. Solo che le cose stanno molto diversamente da come il prete le ha descritte. Tanto per cominciare, come spiega il suo avvocato Ermanno Buiani, don Biancalani non è indagato. Semplicemente, nel dicembre scorso ha ricevuto un verbale di identificazione ed elezione di domicilio da parte della Questura.
Nel suo caso, quindi, non c'è alcuna «resistenza civile» che genera «avvisi di garanzia». C'è, però, una storia grottesca che merita di essere raccontata. Ecco i fatti. Alla fine dello scorso anno, la questura di Pistoia si è rivolta al garante della privacy segnalando una faccenda che, in effetti, coinvolgeva in prima persona Biancalani. Il sacerdote, infatti, aveva pubblicato sui social network le fotografie di alcuni richiedenti asilo ospiti del suo Centro di accoglienza straordinaria a Vicofaro.
Forse ve le ricordate: sono le immagini dei migranti che, belli soddisfatti, sguazzano in piscina. Il prete le diffuse su Facebook nell'agosto del 2017, con il commento: «Loro sono la mia patria, i razzisti e i fascisti i miei nemici». Non pago, nel dicembre dello stesso anno, decise di utilizzare quelle immagini per realizzare un calendario. «È un modo che ho trovato per svelenire e sdrammatizzare il clima di odio che si è venuto a creare dopo la pubblicazione delle foto in piscina di questa estate», disse ai giornali. «Una copia del calendario la invierò a Matteo Salvini che alimentò la polemica».
Insomma, Biancalani utilizzò quelle foto per far bisticciare con Salvini. E qui sorge il problema. Prima di pubblicare le immagini del bagnetto, don Massimo non chiese l'autorizzazione ai migranti. Motivo per cui la questura è intervenuta con la segnalazione al Garante della privacy.
Biancalani presenta questa storia come la prova dell'accanimento delle istituzioni nei suoi confronti. Ma la realtà è diversa. Fonti della Questura di Pistoia, sentite dalla Verità, spiegano che la denuncia in effetti è stata fatta. Ma le autorità, in questi casi, non si muovono spontaneamente. Se si sono rivolte al Garante della privacy è perché qualcuno ha «dato un input». Ed è molto probabile che sia stato un migrante.
Del resto, chi poteva lamentarsi della violazione della privacy degli stranieri se non gli stranieri stessi? Per farla breve: se Biancalani è stato denunciato, con tutta probabilità, è perché uno degli stranieri fotografati in piscina si è lamentato. La Questura ha indagato, ha scoperto che a nessuno era stato chiesto il consenso per la pubblicazione delle immagini, e a quel punto ha girato la pratica al garante. Secondo l'avvocato di Biancalani, poi, il procedimento non ha avuto conseguenze. Ma non è ancora finita. Dalla Questura fanno notare che diffondere sui social network le foto dei richiedenti asilo non è affatto cosa buona. Anzi, è addirittura pericoloso. In teoria, i migranti che richiedono la protezione fuggono da guerre, persecuzioni, minacce gravi. Insomma, sarebbero a rischio della vita. Dunque mostrare all'universo mondo dove essi si trovino potrebbe rivelarsi dannoso per la loro sicurezza.
È un clamoroso caso di eterogenesi dei fini. Don Biancalani ha pubblicato le immagini per (dice lui) sostenere la causa dei migranti. In realtà li ha danneggiati, e li ha pure fatti irritare. Tuttavia, il prete si atteggia a martire, a perseguitato politico. Ha addirittura iniziato lo sciopero della fame, per protestare contro il provvedimento del Comune di Pistoia (risalente a settembre) che gli vieta di accogliere stranieri. Nel frattempo, 190 abitanti di Vicofaro hanno firmato una petizione in cui spiegano che, nella zona, «è impossibile vivere tranquillamente». Ci sono ospiti del centro profughi che «orinano e defecano» in strada, e poi liti, risse, caos.
Ecco, magari don Massimo, invece di pubblicare foto e fare la vittima, farebbe meglio ad ascoltare un po' di più i suoi parrocchiani. Non finirebbe sui giornali, ma tutti sarebbero più felici.
Francesco Borgonovo
Le Ong sfidano ancora il governo. E la Rai sponsorizza il loro festival
«C'è una nave dei centri sociali che vaga nel Mediterraneo», ha detto ieri Matteo Salvini in diretta Facebook, inviando questo messaggio all'equipaggio: «Potete raccogliere chi volete, ma in Italia non sbarcherete». La «nave dei centri sociali» fa parte di una nuova missione delle Ong, stavolta tutta italiana.
Il nome del progetto è Mediterranea ed è promosso da varie associazioni che, in effetti, sono tutte gravitanti nell'area dell'associazionismo e della militanza nell'estrema sinistra: Arci nazionale, Ya Basta di Bologna, la Ong Sea Watch, il magazine online I Diavoli e l'impresa sociale Moltivolti di Palermo. Ma c'entra anche la politica istituzionale, nel pieno dell'ubriacatura per la presunta «disobbedienza civile» di questi giorni: Mediterranea è sostenuta politicamente e finanziariamente da Nichi Vendola e tre parlamentari di Leu (Nicola Fratoianni, Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni). I parlamentari di Sinistra italiana hanno sottoscritto una fideiussione da 460.000 euro per finanziare il tutto.
La nave di soccorso Mare Ionio, accompagnata dalla nave appoggio chiamata Burlesque (e qui non si sa se ridere o piangere...) è salpata all'alba di ieri da Augusta e ha preso il largo verso il Mediterraneo centrale. Batte bandiera italiana, è lunga 37 metri e larga nove e può imbarcare un centinaio di persone. L'equipaggio è composto da undici persone.
Si tratta, ma a questo punto è quasi superfluo specificarlo, di un progetto politico da cima a fondo, pensato in esplicita sfida al governo italiano, come peraltro appare chiaro leggendo la presentazione sul sito della missione: «Quella di Mediterranea è un'azione di disobbedienza morale ma di obbedienza civile. Disobbedisce al discorso pubblico nazionalista e xenofobo e al divieto, di fatto, di testimoniare quello che succede nel Mediterraneo; obbedisce, invece, alle norme costituzionali e internazionali, da quelle del mare al diritto dei diritti umani, comprese l'obbligatorietà del salvataggio di chi si trova in condizioni di pericolo e la sua conduzione in un porto sicuro se si dovessero verificare le condizioni».
Viste le rassicurazioni di Salvini, che come abbiamo visto ha negato con fermezza che l'imbarcazione possa portare migranti in Italia, è lecito a questo punto attendersi un nuovo caso Aquarius all'orizzonte. O forse, dato che la nave stavolta è italiana, qualcosa di più simile al caso Diciotti. La voglia di forzare la mano da parte delle Ong c'è tutta, stavolta con il coinvolgimento diretto di una sinistra istituzionale in piena fregola «resistenziale»: l'arresto del sindaco di Riace per quello che, in modo a dir poco surreale, è stato letto come un «reato di umanità», ha generato una paranoia ribellistica dai toni talora eversivi. C'è da combattere contro un regime, dicono. Ma è una curiosa resistenza, quella che si fa con l'appoggio della tv pubblica.
Già perché la Rai sembra aver fatto da tempo una precisa scelta di campo. Abbiamo già visto il logo di viale Mazzini sulla manifestazione appena conclusasi a Lampedusa per ricordare il naufragio del 3 ottobre 2013 (cosa di per sé lodevole, se il tutto non si fosse risolto nella solita passerella per Ong). Ed è stata Rai cinema a produrre Iuventa, il documentario di Michele Cinque che racconta l'anno e mezzo di attività tra 2016 e 2017 della discussa nave al servizio della Ong tedesca Jugend Rettet, formata da studenti tedeschi di estrema sinistra noti per l'atteggiamento sfrontato e una certa tendenza a operare sul filo delle regole. Iuventa verrà proiettato anche a Sabir, il «festival diffuso delle culture mediterranee» che si terrà dall'11 al 14 ottobre a Palermo, organizzato da Arci e collegato a tutto il solito circuiti di enti sorosiani e attivismo progressista (Asgi, A buon diritto, Carta di Roma, per esempio).
Nel programma, conferenze imperdibili come «Decriminalizzare la solidarietà», «Frontiere armate», «Buone prassi di accoglienza», ma anche «laboratori di cinema e videomaking rivolto ai rifugiati», spettacoli teatrali come «Tutti abbiamo sangue rosso», a cura della Caritas diocesana di Brescia, risultato di un laboratorio con ragazzi richiedenti asilo. E via di questo passo. Iuventa non sarà peraltro l'unico film proiettato. Tra gli altri, ci sarà anche Last man in Aleppo, il documentario danese-siriano del 2017 diretto da Firas Fayyad e dedicato all'epopea (si fa per dire) dei Caschi bianchi, la controversa organizzazione umanitaria siriana accusata da più parti di essere vicina ad Al Nusra, cioè, in buona sostanza, ad Al Qaeda.
Una kermesse che sembra uscita dalla stagione estiva di qualche centro sociale, e che invece, gode dei patrocini di Rai, ma anche di Anci e Comune di Palermo. Tanto perché siamo in un orribile regime liberticida.
Francesco Borgonovo e Adriano Scianca
Lucano provoca: «Io rispetto solo la Costituzione»
Aveva detto «è tutto a posto» anche dopo l'interrogatorio in Procura un anno fa. Per la seconda volta Domenico Mimmo Lucano, sindaco di Riace sospeso dalla prefettura, re dell'accoglienza a tutti i costi e, stando alle accuse, combinatore di matrimoni farlocchi e fuorilegge tra giovani immigrate e vecchietti calabresi, dopo aver incontrato una toga mostra il petto: «C'è chi mi accusa di non aver rispettato le regole ma forse la Costituzione italiana la rispetto più io di molti che si nascondono dietro le leggi. La prima regola della Costituzione italiana che nasce dalla resistenza è il rispetto degli esseri umani. E non hanno colore della pelle o nazionalità».
Sembra un manifesto politico dell'ultrasinistra. Ovviamente recitato a modo suo, con una cadenza mix tra Cetto La Qualunque e Franco Neri di Zelig. Alle 9 di ieri mattina, per il suo interrogatorio di garanzia, si è seduto davanti a Domenico Di Croce, il gip che l'ha privato della libertà e dal quale dipende la decisione sulla misura cautelare. La giornata è cominciata presto. Locri dista da Riace una quarantina di minuti. Uscendo dalla casa in cui il sindaco è costretto ai domiciliari si è fatto scappare qualche parola: «È tutto assurdo».
In quella occasione, però, è bastata un'occhiataccia del suo avvocato per silenziarlo. La falla si è aperta appena uscito dal tribunale. Lucano infatti riparte con la stessa frase: «È tutto assurdo. Anche gli inquirenti hanno riconosciuto che mi contestano il reato di umanità». Peccato che il procuratore di Locri Luigi D'Alessio poco dopo abbia detto all'agenzia Reuters che Lucano «ha violato la legge con una allarmante naturalezza». E che avrebbe commesso, sempre secondo l'accusa, «una serie di illeciti per una visione assolutamente personalistica dell'accoglienza, fatta senza alcuna considerazione delle regole e in barba alle leggi».
E allora Lucano si gioca la carta di Becky Moses, la ragazza nigeriana morta carbonizzata mesi fa nella tendopoli di San Ferdinando di Rosarno. «Chi ha pagato per questo?», chiede Lucano. «Io quello che ho fatto è evitare che ci fossero tante Becky. Salvare una sola persona dalla strada vale fare il sindaco». Pareva un'arringa difensiva. Poi è arrivata una seconda mazzata: il procuratore di Locri ha annunciato che ricorrerà ai giudici del Riesame per chiedere di valutare tutti i documenti dell'inchiesta che a suo parere il gip non ha valutato, riconoscendo per la misura cautelare solo le accuse di aver organizzato nozze di comodo e assegnato il servizio di raccolta di rifiuti aggirando le regole.
Le prove sui matrimoni, d'altra parte, appaiono schiaccianti anche a Lucano. Tant'è che l'indagato, pur cercando di sminuire, lo ammette: «Il matrimonio che è stato celebrato è uno solo ed è vero». Le telefonate? Quelle invece sono state «interpretate male».
E i fondi? Lucano sul punto non pontifica. Per il gip la gestione è stata disordinata. Roba da Corte dei conti. Ma alla Verità gli investigatori confermano: «Le iscrizioni restano quelle». Anche quella di associazione a delinquere stampata sulla copertina della richiesta d'arresto. Secondo il procuratore sono stati acquisiti elementi utili per dimostrare la distrazione di fondi che, spiega il magistrato, «sono stati giustificati con fatture per operazioni inesistenti». Ma questo non conta per i giudici popolari dell'ultrasinistra alla Roberto Saviano che hanno già assolto Lucano, senza leggere una sola pagina degli atti d'accusa. Ora spetta al gip però amministrare la legge e decidere se confermare la misura cautelare, modificarla o annullarla.
Nel frattempo nel municipio di Riace, teatro dei reati secondo il pm, ha preso le redini il vicesindaco Giuseppe Gervasi per guidare il primo consiglio comunale senza Mimmo Lucano. Da qualche giorno ripete: «Ho pianto di rabbia, stavamo sognando perché Riace era, è e sarà un esempio meraviglioso. Un amministratore può commettere un errore, ma qui è stata messa in ginocchio la parte buona della Calabria». Sulle delibere per la raccolta dei rifiuti, denuncia da tempo l'opposizione, c'è anche la sua firma. Come quella di una buona fetta dell'amministrazione comunale.
Fabio Amendolara
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Il prete pro migranti spara: «Indagato perché accolgo». In realtà, è stato segnalato al Garante della privacy per aver diffuso le immagini dei richiedenti asilo in acqua senza il loro consenso. Molto probabilmente, a lamentarsi sono stati gli stessi stranieri.Nel Mediterraneo torna una nave di attivisti, sostenuta dai parlamentari di sinistra: «È disobbedienza morale». Intanto la tv pubblica patrocina la kermesse che sostiene le frontiere aperte e i tassisti del mare.Il sindaco di Riace, interrogato, ostenta sicurezza. Per il procuratore, però, «violava la legge con allarmante naturalezza».Lo speciale contiene tre articoliLa smania di protagonismo è una belva difficile da domare, e quando esce dalla gabbia provoca danni notevoli. Ne sa qualcosa don Massimo Biancalani, il sacerdote di Vicofaro, a Pistoia, che da anni si affanna per apparire in televisione e sui giornali nel ruolo di paladino dei migranti. Per farsi notare le ha provate tutte e molto spesso non gli è andata bene. L'ultima vicenda che lo vede protagonista, però, è probabilmente la più eclatante. Mercoledì, il prete ha tenuto una conferenza stampa in cui ha espresso solidarietà al sindaco di Riace e ha raccontato di essere indagato. «Di questo fatto non ho mai parlato fino ad oggi», ha dichiarato, «lo dico solamente per far capire quanto sia difficile e rischioso occuparsi dell'accoglienza dei migranti, ma anche delle altre persone che ho accolto».Chiaro no? Il sant'uomo ha pensato bene di sfruttare i guai giudiziari di Mimmo Lucano per rimediare un po' di pubblicità gratuita, credendo di potersi atteggiare anche lui a vittima del sistema razzista e intollerante. Solo che le cose stanno molto diversamente da come il prete le ha descritte. Tanto per cominciare, come spiega il suo avvocato Ermanno Buiani, don Biancalani non è indagato. Semplicemente, nel dicembre scorso ha ricevuto un verbale di identificazione ed elezione di domicilio da parte della Questura.Nel suo caso, quindi, non c'è alcuna «resistenza civile» che genera «avvisi di garanzia». C'è, però, una storia grottesca che merita di essere raccontata. Ecco i fatti. Alla fine dello scorso anno, la questura di Pistoia si è rivolta al garante della privacy segnalando una faccenda che, in effetti, coinvolgeva in prima persona Biancalani. Il sacerdote, infatti, aveva pubblicato sui social network le fotografie di alcuni richiedenti asilo ospiti del suo Centro di accoglienza straordinaria a Vicofaro. Forse ve le ricordate: sono le immagini dei migranti che, belli soddisfatti, sguazzano in piscina. Il prete le diffuse su Facebook nell'agosto del 2017, con il commento: «Loro sono la mia patria, i razzisti e i fascisti i miei nemici». Non pago, nel dicembre dello stesso anno, decise di utilizzare quelle immagini per realizzare un calendario. «È un modo che ho trovato per svelenire e sdrammatizzare il clima di odio che si è venuto a creare dopo la pubblicazione delle foto in piscina di questa estate», disse ai giornali. «Una copia del calendario la invierò a Matteo Salvini che alimentò la polemica». Insomma, Biancalani utilizzò quelle foto per far bisticciare con Salvini. E qui sorge il problema. Prima di pubblicare le immagini del bagnetto, don Massimo non chiese l'autorizzazione ai migranti. Motivo per cui la questura è intervenuta con la segnalazione al Garante della privacy. Biancalani presenta questa storia come la prova dell'accanimento delle istituzioni nei suoi confronti. Ma la realtà è diversa. Fonti della Questura di Pistoia, sentite dalla Verità, spiegano che la denuncia in effetti è stata fatta. Ma le autorità, in questi casi, non si muovono spontaneamente. Se si sono rivolte al Garante della privacy è perché qualcuno ha «dato un input». Ed è molto probabile che sia stato un migrante. Del resto, chi poteva lamentarsi della violazione della privacy degli stranieri se non gli stranieri stessi? Per farla breve: se Biancalani è stato denunciato, con tutta probabilità, è perché uno degli stranieri fotografati in piscina si è lamentato. La Questura ha indagato, ha scoperto che a nessuno era stato chiesto il consenso per la pubblicazione delle immagini, e a quel punto ha girato la pratica al garante. Secondo l'avvocato di Biancalani, poi, il procedimento non ha avuto conseguenze. Ma non è ancora finita. Dalla Questura fanno notare che diffondere sui social network le foto dei richiedenti asilo non è affatto cosa buona. Anzi, è addirittura pericoloso. In teoria, i migranti che richiedono la protezione fuggono da guerre, persecuzioni, minacce gravi. Insomma, sarebbero a rischio della vita. Dunque mostrare all'universo mondo dove essi si trovino potrebbe rivelarsi dannoso per la loro sicurezza. È un clamoroso caso di eterogenesi dei fini. Don Biancalani ha pubblicato le immagini per (dice lui) sostenere la causa dei migranti. In realtà li ha danneggiati, e li ha pure fatti irritare. Tuttavia, il prete si atteggia a martire, a perseguitato politico. Ha addirittura iniziato lo sciopero della fame, per protestare contro il provvedimento del Comune di Pistoia (risalente a settembre) che gli vieta di accogliere stranieri. Nel frattempo, 190 abitanti di Vicofaro hanno firmato una petizione in cui spiegano che, nella zona, «è impossibile vivere tranquillamente». Ci sono ospiti del centro profughi che «orinano e defecano» in strada, e poi liti, risse, caos. Ecco, magari don Massimo, invece di pubblicare foto e fare la vittima, farebbe meglio ad ascoltare un po' di più i suoi parrocchiani. Non finirebbe sui giornali, ma tutti sarebbero più felici. Francesco Borgonovo<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/foto-in-piscina-denunciato-don-biancalani-2610059591.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-ong-sfidano-ancora-il-governo-e-la-rai-sponsorizza-il-loro-festival" data-post-id="2610059591" data-published-at="1765672730" data-use-pagination="False"> Le Ong sfidano ancora il governo. E la Rai sponsorizza il loro festival «C'è una nave dei centri sociali che vaga nel Mediterraneo», ha detto ieri Matteo Salvini in diretta Facebook, inviando questo messaggio all'equipaggio: «Potete raccogliere chi volete, ma in Italia non sbarcherete». La «nave dei centri sociali» fa parte di una nuova missione delle Ong, stavolta tutta italiana. Il nome del progetto è Mediterranea ed è promosso da varie associazioni che, in effetti, sono tutte gravitanti nell'area dell'associazionismo e della militanza nell'estrema sinistra: Arci nazionale, Ya Basta di Bologna, la Ong Sea Watch, il magazine online I Diavoli e l'impresa sociale Moltivolti di Palermo. Ma c'entra anche la politica istituzionale, nel pieno dell'ubriacatura per la presunta «disobbedienza civile» di questi giorni: Mediterranea è sostenuta politicamente e finanziariamente da Nichi Vendola e tre parlamentari di Leu (Nicola Fratoianni, Erasmo Palazzotto e Rossella Muroni). I parlamentari di Sinistra italiana hanno sottoscritto una fideiussione da 460.000 euro per finanziare il tutto. La nave di soccorso Mare Ionio, accompagnata dalla nave appoggio chiamata Burlesque (e qui non si sa se ridere o piangere...) è salpata all'alba di ieri da Augusta e ha preso il largo verso il Mediterraneo centrale. Batte bandiera italiana, è lunga 37 metri e larga nove e può imbarcare un centinaio di persone. L'equipaggio è composto da undici persone. Si tratta, ma a questo punto è quasi superfluo specificarlo, di un progetto politico da cima a fondo, pensato in esplicita sfida al governo italiano, come peraltro appare chiaro leggendo la presentazione sul sito della missione: «Quella di Mediterranea è un'azione di disobbedienza morale ma di obbedienza civile. Disobbedisce al discorso pubblico nazionalista e xenofobo e al divieto, di fatto, di testimoniare quello che succede nel Mediterraneo; obbedisce, invece, alle norme costituzionali e internazionali, da quelle del mare al diritto dei diritti umani, comprese l'obbligatorietà del salvataggio di chi si trova in condizioni di pericolo e la sua conduzione in un porto sicuro se si dovessero verificare le condizioni». Viste le rassicurazioni di Salvini, che come abbiamo visto ha negato con fermezza che l'imbarcazione possa portare migranti in Italia, è lecito a questo punto attendersi un nuovo caso Aquarius all'orizzonte. O forse, dato che la nave stavolta è italiana, qualcosa di più simile al caso Diciotti. La voglia di forzare la mano da parte delle Ong c'è tutta, stavolta con il coinvolgimento diretto di una sinistra istituzionale in piena fregola «resistenziale»: l'arresto del sindaco di Riace per quello che, in modo a dir poco surreale, è stato letto come un «reato di umanità», ha generato una paranoia ribellistica dai toni talora eversivi. C'è da combattere contro un regime, dicono. Ma è una curiosa resistenza, quella che si fa con l'appoggio della tv pubblica. Già perché la Rai sembra aver fatto da tempo una precisa scelta di campo. Abbiamo già visto il logo di viale Mazzini sulla manifestazione appena conclusasi a Lampedusa per ricordare il naufragio del 3 ottobre 2013 (cosa di per sé lodevole, se il tutto non si fosse risolto nella solita passerella per Ong). Ed è stata Rai cinema a produrre Iuventa, il documentario di Michele Cinque che racconta l'anno e mezzo di attività tra 2016 e 2017 della discussa nave al servizio della Ong tedesca Jugend Rettet, formata da studenti tedeschi di estrema sinistra noti per l'atteggiamento sfrontato e una certa tendenza a operare sul filo delle regole. Iuventa verrà proiettato anche a Sabir, il «festival diffuso delle culture mediterranee» che si terrà dall'11 al 14 ottobre a Palermo, organizzato da Arci e collegato a tutto il solito circuiti di enti sorosiani e attivismo progressista (Asgi, A buon diritto, Carta di Roma, per esempio). Nel programma, conferenze imperdibili come «Decriminalizzare la solidarietà», «Frontiere armate», «Buone prassi di accoglienza», ma anche «laboratori di cinema e videomaking rivolto ai rifugiati», spettacoli teatrali come «Tutti abbiamo sangue rosso», a cura della Caritas diocesana di Brescia, risultato di un laboratorio con ragazzi richiedenti asilo. E via di questo passo. Iuventa non sarà peraltro l'unico film proiettato. Tra gli altri, ci sarà anche Last man in Aleppo, il documentario danese-siriano del 2017 diretto da Firas Fayyad e dedicato all'epopea (si fa per dire) dei Caschi bianchi, la controversa organizzazione umanitaria siriana accusata da più parti di essere vicina ad Al Nusra, cioè, in buona sostanza, ad Al Qaeda. Una kermesse che sembra uscita dalla stagione estiva di qualche centro sociale, e che invece, gode dei patrocini di Rai, ma anche di Anci e Comune di Palermo. Tanto perché siamo in un orribile regime liberticida. 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La prima regola della Costituzione italiana che nasce dalla resistenza è il rispetto degli esseri umani. E non hanno colore della pelle o nazionalità». Sembra un manifesto politico dell'ultrasinistra. Ovviamente recitato a modo suo, con una cadenza mix tra Cetto La Qualunque e Franco Neri di Zelig. Alle 9 di ieri mattina, per il suo interrogatorio di garanzia, si è seduto davanti a Domenico Di Croce, il gip che l'ha privato della libertà e dal quale dipende la decisione sulla misura cautelare. La giornata è cominciata presto. Locri dista da Riace una quarantina di minuti. Uscendo dalla casa in cui il sindaco è costretto ai domiciliari si è fatto scappare qualche parola: «È tutto assurdo». In quella occasione, però, è bastata un'occhiataccia del suo avvocato per silenziarlo. La falla si è aperta appena uscito dal tribunale. Lucano infatti riparte con la stessa frase: «È tutto assurdo. Anche gli inquirenti hanno riconosciuto che mi contestano il reato di umanità». Peccato che il procuratore di Locri Luigi D'Alessio poco dopo abbia detto all'agenzia Reuters che Lucano «ha violato la legge con una allarmante naturalezza». E che avrebbe commesso, sempre secondo l'accusa, «una serie di illeciti per una visione assolutamente personalistica dell'accoglienza, fatta senza alcuna considerazione delle regole e in barba alle leggi». E allora Lucano si gioca la carta di Becky Moses, la ragazza nigeriana morta carbonizzata mesi fa nella tendopoli di San Ferdinando di Rosarno. «Chi ha pagato per questo?», chiede Lucano. «Io quello che ho fatto è evitare che ci fossero tante Becky. Salvare una sola persona dalla strada vale fare il sindaco». Pareva un'arringa difensiva. Poi è arrivata una seconda mazzata: il procuratore di Locri ha annunciato che ricorrerà ai giudici del Riesame per chiedere di valutare tutti i documenti dell'inchiesta che a suo parere il gip non ha valutato, riconoscendo per la misura cautelare solo le accuse di aver organizzato nozze di comodo e assegnato il servizio di raccolta di rifiuti aggirando le regole. Le prove sui matrimoni, d'altra parte, appaiono schiaccianti anche a Lucano. Tant'è che l'indagato, pur cercando di sminuire, lo ammette: «Il matrimonio che è stato celebrato è uno solo ed è vero». Le telefonate? Quelle invece sono state «interpretate male». E i fondi? Lucano sul punto non pontifica. Per il gip la gestione è stata disordinata. Roba da Corte dei conti. Ma alla Verità gli investigatori confermano: «Le iscrizioni restano quelle». Anche quella di associazione a delinquere stampata sulla copertina della richiesta d'arresto. Secondo il procuratore sono stati acquisiti elementi utili per dimostrare la distrazione di fondi che, spiega il magistrato, «sono stati giustificati con fatture per operazioni inesistenti». Ma questo non conta per i giudici popolari dell'ultrasinistra alla Roberto Saviano che hanno già assolto Lucano, senza leggere una sola pagina degli atti d'accusa. Ora spetta al gip però amministrare la legge e decidere se confermare la misura cautelare, modificarla o annullarla. Nel frattempo nel municipio di Riace, teatro dei reati secondo il pm, ha preso le redini il vicesindaco Giuseppe Gervasi per guidare il primo consiglio comunale senza Mimmo Lucano. Da qualche giorno ripete: «Ho pianto di rabbia, stavamo sognando perché Riace era, è e sarà un esempio meraviglioso. Un amministratore può commettere un errore, ma qui è stata messa in ginocchio la parte buona della Calabria». Sulle delibere per la raccolta dei rifiuti, denuncia da tempo l'opposizione, c'è anche la sua firma. Come quella di una buona fetta dell'amministrazione comunale. Fabio Amendolara
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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