2022-10-08
Il 70% dei fondi stanziati allo sviluppo non tutela il nostro interesse nazionale
Degli oltre 5 miliardi annui alla cooperazione, meno di un terzo va ai canali bilaterali. I soli che creano relazioni strategiche.La Repubblica italiana ha stanziato per il triennio in corso circa 15,5 miliardi per il sistema di cooperazione allo sviluppo. Fa una media ben al di sopra dei 5 miliardi all’anno, in crescita rispetto a quella dei tre anni precedenti che si era fermata a 4 miliardi. Un monte di soldi che non sempre viene speso tutto e che va ad alimentare e finanziare numerose attività in giro per il globo. Ciò che la diplomazia chiama «fare sistema». Gli obiettivi della cooperazione sono lo sradicamento della povertà, la riduzione delle disuguaglianze, l’affermazione dei diritti umani, la prevenzione dei conflitti e, quando serve, il sostegno ai processi di pacificazione. Sappiamo però tutti che dietro agli obiettivi formali c’è anche la creazione di un soft power e la possibilità di utilizzare questi miliardi per creare relazioni preferenziali in uno Stato piuttosto che in un altro e - nel caso africano - con una tribù piuttosto che con un’altra. È il modo che utilizzano tutte le nazioni occidentali per bilanciare le sfere di competenza degli alleati o contrastare quelle degli avversari e avviare canali preferenziali in ambienti dove la diplomazia tradizionale può fare poco. Forse dovremmo dire che quasi tutte le nazioni usano in pieno questi strumenti. L’Italia rischia, infatti, di essere un caso a parte. Il 70% dell’intera somma viene distribuita a iniziative con matrice multilaterale e solo il rimanente viene destinato a canali bilaterali. Nel 2020 la percentuale è stata addirittura del 73 e del 27. Mentre nel 2018 era 68 contro 32. In pratica l’Italia affida la fetta maggiore dei fondi raccolti tramite ministeri, ma anche Regioni, università, enti pubblici e l’otto per mille, a istituzioni sovranazionali che poi dislocano i fondi in base a decisioni che quasi nulla hanno a che fare con gli interessi nazionali del nostro Paese. Basti pensare che le iniziative multilaterali passano dalla Banca Mondiale o da strutture come la Fao. Mentre la parte del leone, in quanto a veicolo di erogazione sul campo, la fa l’Unione europea. Non è difficile comprendere che in molti casi chi beneficia dei fondi provenienti dall’Italia non sa nemmeno che arrivino da Roma. Lungi da noi voler eliminare i canali multilaterali. Dentro questa voce ci sono anche i fondi per l’Onu e per organizzazioni fondamentali per l’Italia. Sarebbe però opportuno che il prossimo ministro degli Esteri avviasse una radicale rivoluzione del comparto. Come minimo le proporzioni andrebbero invertite. Almeno il 70% degli oltre 5 miliardi stanziati per il prossimo anno sarebbero da destinare a opere gestite direttamente dal nostro Paese. Per di più non sarebbe difficile. Abbiamo strumenti all’avanguardia e la stessa Agenzia per la cooperazione e lo sviluppo (il braccio tecnico e operativo del settore) potrebbe essere utilizzata per il cambio di passo. È operativa da anni e già gestisce attività in vari Continenti e Paesi. Al momento, il 50% dei fondi bilaterali è destinato all’Africa. Il 33% ai Balcani e al Medioriente. Il rimanente ad Asia e Sud America. In Africa, in questo momento, la cooperazione si concentra su uno spicchio di Paesi che sono al centro delle rotte migratorie. «Gli interventi saranno volti a rafforzare la cooperazione con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, nei Paesi prioritari del Fondo Africa - Burkina Faso, Ciad, Eritrea, Etiopia, Guinea, Mauritania, Niger, Somalia, Sudan, Tunisia - nei Paesi limitrofi e nelle aree di maggiore provenienza dei flussi», si legge nel documento della Camera che commenta l’Agenda 2030. «Particolare attenzione sarà assegnata a Costa D’Avorio, Eritrea, Ghana e Nigeria. Le risorse includono quelle del Fondo Africa (50 milioni, ndr)». Forse qualche attenzione in più la meriterebbero il Mali, il Niger e la Mauritania. In ogni caso, se Roma decidesse di destinare all’Africa sempre il 50% di una torta da 3,5 miliardi è chiaro che sarebbe un po’ più facile gestire i rapporti non tanto con Paesi come la Libia (in piena guerra), ma in intere aree del Sahel dove i conflitti non sono ancora del tutto esplosi. C’è, infine, un passaggio relativo ai cosiddetti soggetti eroganti. Al momento i due ministeri che gestiscono più risorse sono la Farnesina e il ministero dell’Interno. Ben più di un miliardo ciascuno. Nel primo caso, è una scelta per competenze, nel secondo perché dentro il mare magnum dei fondi c’è anche la grande fetta che riguarda i rimpatri. Voce che forse varrebbe la pena scomputare, così come quella legata ai vaccini o ad altri capitoli di spesa «poco politici» o comunque con minore possibilità di incidere nel tessuto sociale e politico del Paese beneficiario. Visto come sta andando il mondo, anche il ministero della Difesa (oggi può impegnare meno di 2 milioni e la voce non compare nelle tabelle) meriterebbe maggiore attenzione e maggiori fondi per muoversi in Africa. Va bene aumentare la beneficenza, ma è altrettanto importante farla a chi poi si può rilevare un nostro amico e partner. Altrimenti finisce che i soldi vanno a chi poi appoggia russi, turchi o francesi.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)