- Volkswagen riduce la produzione nello stabilimento in Bassa Sassonia: la domanda è del 30% inferiore alle attese. I costi altissimi e i tempi di consegna infiniti scoraggiano i clienti. Non sarà rinnovato il contratto del 20% della forza lavoro a tempo.
- Accuse al segretario del Trasporto: è guidato dal gruppo di pressione ambientalista.
Volkswagen riduce la produzione nello stabilimento in Bassa Sassonia: la domanda è del 30% inferiore alle attese. I costi altissimi e i tempi di consegna infiniti scoraggiano i clienti. Non sarà rinnovato il contratto del 20% della forza lavoro a tempo.Accuse al segretario del Trasporto: è guidato dal gruppo di pressione ambientalista.Lo speciale contiene due articoliSe non ci fossero di mezzo migliaia di posti di lavoro che saltano, si potrebbe anche dire all’Unione europea «vi avevamo avvertito» con una certa soddisfazione. Invece tocca fare una nuova e seria riflessione sulla politica di Bruxelles in fatto di transizione ecologica del settore automotive: da un lato gli eurocrati vogliono un mercato libero, dall’altra lo drogano prima di ideologia e poi di provvedimenti – come lo stop del 2035 alla vendita di vetture con motore termico - senza ammettere che a fare i conti con euro, chilowatt e soprattutto prezzi, sono più bravi i clienti dei costruttori, perché possono scegliere di acquistare o meno e soprattutto che cosa. È notizia del 27 giugno che Volkswagen prevede già, almeno per il momento, di ridurre la produzione di vetture elettriche nello stabilimento di Emden, nella Bassa Sassonia. Non per mancanza di parti elettroniche e neppure di mano d’opera, bensì di clienti, che stanno mostrando una certa riluttanza all’acquisto. E questo avviene anche se gli stipendi tedeschi sono molto più alti di quelli italiani, ma è anche vero che spendere quasi 60.000 euro per una berlina elettrica di fascia B oppure aspettare 14 mesi per una Golf o una ID.4 non è certo un fattore che incoraggia la firma dei contratti. Manfred Wulff, presidente del consiglio di fabbrica di Emeden, che ha dichiarato al Nordwest-Zeitung questa notizia, ha anche spiegato che si annuncia un taglio ai volumi produttivi legato, in sostanza, alla mancanza di domanda per i modelli a batteria assemblati nel suo stabilimento. Queste le sue parole: «Notiamo riluttanza e incertezza verso il mondo dell’elettrico, la domanda è quasi del 30% inferiore ai volumi inizialmente programmati, così Volkswagen ha deciso per le prossime due settimane di non far svolgere alle maestranze il turno lavorativo straordinario previsto per realizzare sia il modello ID.4, sia per i primi modelli della più grande ID.7, e di mantenere questo ritmo fino a dopo la pausa estiva, che per taluni addetti sarà di tre settimane di ferie. Peggio ancora, Wulff ha anche ammesso: «In agosto non sarà rinnovato il contratto a circa 300 dei 1.500 operai attualmente a tempo determinato». C’è da chiedersi se si tratta di un rallentamento temporaneo provocato da una previsione non accurata dei manager, oppure se anche al di fuori dell’Italia qualcuno si sta accorgendo che l’auto elettrica non è esattamente una soluzione perseguibile dalla maggioranza degli automobilisti per via dei limiti che impone, dei tempi di ricarica e dei costi. Intanto, Olaf Lies, ministro degli Affari economici dello stato della Bassa Sassonia, ha commentato che le decisioni della Volkswagen riguardo l’impianto di Emden erano «comprensibili», tanto che per contrastare il crollo delle vendite ha chiesto una riduzione dell’imposta sul valore aggiunto (Iva) e ulteriori incentivi per i veicoli elettrici. Tutto ciò stride con il fatto che rispetto a un anno fa le vendite del Gruppo Volkswagen in Europa sono aumentate del 68% in nel primo trimestre del 2023, mentre negli Stati Uniti del 98%, dove però la quota di mercato è ridotta. Tuttavia, le vendite in Cina sono diminuite del 25%, ma proprio nel più grande mercato estero del gruppo, che coincide anche con il più grande mercato al mondo di auto plug-in. Nel 2022 Volkswagen aveva annunciato di aver pianificato di investire quasi 1,1 miliardi di dollari nella conversione e riorganizzazione dell’impianto di Emden per le auto elettriche basate su piattaforma Meb, impiegando in tutto 8.000 lavoratori. Resta il fatto che questa decisione arriva soltanto pochi giorni dopo che il celebre marchio, inventore della macchina del popolo, aveva dichiarato di raddoppiare la sua redditività al 6,5% e di voler produrre in Spagna il modello elettrico base da «soli» 25.000 euro, ma anche di voler licenziare parecchi colletti bianchi. Il piano di spesa quinquennale dell’azienda è salito oggi a 180 miliardi di euro spinto dalla spesa per software, veicoli elettrici e per invertire il calo della quota di mercato che hanno registrato in Cina. Ora Berlino dovrà correre ai ripari, poiché in aprile – i dati disponibili - le vendite totali di auto elettriche plug-in sono state inferiori rispetto a quelle di un anno fa per la quarta volta, fermandosi a 11.787 unità pari a un calo del 46%, coprendo una quota di mercato del 5,8% contro il 3,6% italiano. Con anche uno schiaffo alla preferenza del «made in Germany»: secondo la testata InsideEv, da quelle parti i modelli elettrici più venduti vedono al primo posto la Tesla model Y con 17.487 unità, le Volkswagen ID.4-ID.5 con 9.505, il modello ID.3 con 7.335, la Audi Q4 e-tron con 4.972 e ancora la Tesla con la model 3 a 4.776. Secondo alcuni analisti del settore automotive la casa di Wolfsburg avrebbe quindi «esagerato» nelle previsioni, poiché a oggi il marchio produce auto elettriche in più siti nel mondo, quattro dei quali in Germania: Emden, Hannover, Dresda e Zwickau, mentre i suoi stabilimenti internazionali di vetture a batteria si trovano nelle città di Anting e Foshan in Cina e a Chattanooga, nel Tennessee (Usa).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/flop-delle-auto-elettriche-la-germania-taglia-2662017902.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lincontro-del-ministro-di-biden-con-long-pro-clima-vicina-a-pechino" data-post-id="2662017902" data-published-at="1688019584" data-use-pagination="False"> L’incontro del ministro di Biden con l’Ong pro-clima vicina a Pechino Ombre cinesi sul Green deal americano? Il segretario ai trasporti americano Pete Buttigieg, molto attivo sul tema del cambiamento climatico e già nel mirino dei media per l’uso disinvolto di voli privati pagati con soldi pubblici, avrebbe incontrato lo scorso novembre il vertice di Rocky mountain institute, una Ong che ha sede, tra le altre, anche a Pechino. Il membro dell’amministrazione democratica guidata dal Presidente Joe Biden, secondo il gruppo di attivisti Americans for public trust (Apt), avrebbe incontrato l’amministratore delegato di Rmi Jon Creyts il 30 novembre 2022. Rmi è un gruppo di pressione che sostiene le politiche di decarbonizzazione nei campi dell’energia, dell’agricoltura e dei trasporti. Creyts, ex partner di McKinsey, è stato tra i fondatori del programma per la Cina che prevede anche una rappresentanza stabile a Pechino. Rmi si spende molto per l’obiettivo zero emissioni nel settore dei trasporti e per l’elettrificazione dell’intero settore dei trasporti Usa ma è stato anche molto attivo per vietare le stufe a gas nelle case degli americani. All’Apt non è piaciuto l’incontro: «Il motto fuorviante del segretario Buttigieg secondo cui “ogni decisione sui trasporti è una decisione sul clima” spiega perché si sta incontrando con il gruppo che fa gli straordinari per vietare le stufe a gas invece di garantire che i viaggi negli Stati Uniti siano sicuri ed efficienti», ha detto il direttore esecutivo dell'Apt Caitlin Sutherland. «Le regolari consultazioni di Buttigieg con attivisti radicali per il clima - il cui obiettivo principale è eliminare tutti i combustibili fossili - mentre vola in giro per il paese su jet privati finanziati dai contribuenti è l’apice dell’ipocrisia elitaria che è diventata un segno distintivo dell’amministrazione Biden», ha poi concluso Sutherland. «L’incontro si è concentrato sul lavoro di Rmi per elettrificare il settore dei trasporti, compresi i veicoli elettrici, le infrastrutture di ricarica dei veicoli e altre soluzioni di mobilità pulita», ha affermato la portavoce di Rmi Rachel Sarah. Rmi, oltre ad avere frequenti ed intensi contatti con la Cina, è anche membro della China clean transportation partnership, un gruppo di pressione collegato al governo cinese e un membro del consiglio di Rmi, Wei Ding, è un ex presidente della China international capital corporation. Esponenti di Rmi hanno incontrato lo scorso anno anche il segretario all’Energia Jennifer Granholm e Ali Zaidi, consigliere nazionale per il clima della Casa Bianca. Membri di Rmi erano anche presenti alla Casa Bianca alla cerimonia per l’approvazione dell’Inflation reduction act lo scorso settembre. Inoltre, Rmi avrebbe avuto una sovvenzione di oltre 4 milioni di dollari dal Department of energy per un progetto di efficienza energetica applicata ad un edificio in Massachusetts. I rapporti di Rmi con l’amministrazione Biden sembrano dunque frequenti e di altissimo livello e quello con Buttigieg è solo uno dei tanti incontri occorsi in passato. Già lo scorso febbraio un deputato repubblicano del Michigan, Bill Huizenga, aveva scritto «con profonda preoccupazione» al segretario all’energia Jennifer Granholm, osservando che l’amministrazione Biden aveva concesso «accesso elevato» al Rocky mountain institute: «Ora che apprendiamo di più, rimango profondamente preoccupato per il fatto che l’amministrazione Biden abbia concesso un accesso elevato a un’entità con legami cinesi nel perseguimento di un’agenda energetica radicale che aumenterà i costi per le famiglie e le piccole imprese americane». Il sospetto veicolato dai repubblicani è che l’agenda green dei democratici rappresenti un cavallo di Troia della Cina, intenzionata a minare l’indipendenza energetica degli Stati Uniti, basata sin qui sui combustibili fossili. Che si tratti di sinofobia o di un fatto reale, i repubblicani insisteranno molto in campagna elettorale su questo che sarà uno dei temi più rilevanti nella corsa alla Casa Bianca da qui al novembre 2024.
Roberto Burioni, Matteo Bassetti, Massimo Galli (Imagoeconomica)
Riguardo pandemia, Russia e ambiente le mistificazioni sulle nostre reti in questi anni hanno superato quelle dei britannici. Però nessuno ha chiesto scusa per aver messo sul piedistallo i vari Massimo Galli e Roberto Burioni. Anzi, ora oscurano il dietrofront di Bill Gates sul clima Il Garante della Privacy non si dimette. E l’Ue fa un altro passo per controllare l’informazione.
No, la Rai non è la Bbc. E neppure le altre reti tv. Ma forse sono peggio. I vertici della tv inglese si sono dimessi per aver diffuso notizie infondate e di parte, sia su Trump che su Hamas e pure sul gender. In un caso addirittura i cronisti hanno manipolato i discorsi del presidente americano. Ma non è che in Italia, quando c’è da accreditare una tesi che non ha corrispondenza con la realtà, ci vadano poi molto più leggeri. È sufficiente pensare al periodo del Covid: quante balle abbiamo sentito in televisione, ribadite con sicumera non soltanto da presunti esperti, ma anche da illustri colleghi? Qualcuno di loro si è dimesso?
Il Maestro, nella seconda puntata del podcast, svela i segreti della direzione d’orchestra, che tramanda alle giovani bacchette grazie all’Italian Opera Academy, in arrivo a Milano. E, da Mozart a Verdi, affronta il tema del gioco offerto dai significati nascosti dei libretti.
L'attacco al gasdotto Nord Stream (Getty)
I conflitti sono fatti anche di inganni, come nel caso del sabotaggio del Nord Stream. Mosca denuncia l’ideazione di un piano per far sconfinare un suo caccia in un Paese occidentale e attivare l’Alleanza.
Oltre che da morti e distruzioni, le guerre sono accompagnate dalle menzogne. Le battaglie, infatti, non si combatto no solo con bombe, carrarmati, aerei e navi, ma anche con gli inganni. Ne abbiamo avuto prova recente dall’indagine della Procura tedesca sull’attentato al gasdotto Nord Stream, ma questa forse non è la sola, perché altri complotti sembrano emergere. Cominciamo però dal primo. Quando un ordigno squarciò le condotte che dalle sponde del Mar Baltico trasportavano gas fino in Germania, nessuno si assunse la paternità dell’operazione. Tuttavia, giornali e tv accusarono Mosca di aver organizzato una specie di auto attentato per paralizzare l’economia europea.
Bbc (Getty)
Il caso dei discorsi manipolati del presidente Usa non è isolato. Come quando la tv britannica elogiava il latte prodotto dai trans.
La Bbc è sempre più nell’occhio del ciclone. Eppure, nonostante alcune sue condotte controverse, c’è chi continua a difenderla a spada tratta. Ma andiamo con ordine. Citando un «enorme danno reputazionale e finanziario», Donald Trump ha minacciato di fare causa per un miliardo di dollari all’emittente britannica, a meno che essa non ritratti le «dichiarazioni diffamatorie», contenute in un documentario su di lui trasmesso l’anno scorso. «I vertici della Bbc, incluso Tim Davie, il capo, si sono dimessi o sono stati licenziati perché sono stati sorpresi a “manipolare” il mio ottimo (perfetto) discorso del 6 gennaio», ha dichiarato il presidente americano, per poi aggiungere: «Grazie al Telegraph per aver smascherato questi “giornalisti” corrotti. Sono persone molto disoneste che hanno cercato di influenzare le elezioni presidenziali. Oltretutto, provengono da un Paese straniero, che molti considerano il nostro alleato numero uno. Che cosa terribile per la democrazia!». Ricordiamo che domenica, il direttore generale della Bbc, Tim Davie, e il suo Ceo, Deborah Turness, hanno rassegnato le proprie dimissioni, dopo che il Telegraph ha pubblicato un rapporto interno in cui emergevano seri problemi di accuratezza da parte dell’emittente.






