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2018-03-25
Fisco e sberle all’Ue. Il premier non c’è, ma il programma sì
ANSA
E venne il giorno di Roberto Fico. Il giorno della prima poltrona istituzionale di rango conquistata da un parlamentare del Movimento 5 stelle, il giorno che prefigura gli scenari della trattativa sul governo. «Le istituzioni», dice il campano dallo scranno più alto di Montecitorio, «sono tenute a farsi carico della richiesta di rinnovamento che deve essere la linfa vitale di questa legislatura. Gli squilibri vanno riequilibrati, è ora prioritario superare definitivamente i privilegi». Poi la promessa di un nuovo giro di vite su vitalizi, e quella di non consentire più canguri, sub-emendamenti, proliferazione di decreti, e trucchi parlamentari per far prevalere l'esecutivo sulle Camere.
Bisogna provare a fotografare questo fermo immagine di un discorso tanto breve e pacato nella forma, quanto dirompente e forte nei contenuti; bisogna contemplare attentamente tutto quello che succede intorno a Fico nell'Aula e nel Transatlantico di Montecitorio. Perché è in questo fermo immagine che si nasconde un piccolo passaggio di epoca. Per dire: Maria Elena Boschi e Luca Lotti, le due punte di diamante del Giglio magico renziano, restano impietriti, non applaudono il discorso inaugurale del neo presidente. Mentre fuori dall'Aula, davanti allo schermo gigante, intorno al demiurgo mediatico Rocco Casalino - responsabile della comunicazione e forse ghost writer del nuovo presidente - si raccoglie una folla festante: sono i collaboratori dell'ufficio comunicazione del gruppo, sono i deputati che costituiscono la spina dorsale della vecchia compagine parlamentare: ecco Alfonso Bonafede, ministro ombra incaricato. Ecco Giulia Sarti, pilastro del Movimento in commissione, appena scagionata dalla vicenda dei rimborsi, tornata al suo ruolo dopo aver chiarito. Sorrisi solari, abbracci, qualche lacrima di gioia. Non è solo la festa per un deputato che assurge allo scranno più alto, ma quella di un intero gruppo dirigente che ha attraversato il deserto si sente promosso insieme a lui.
Sono passati cinque anni dall'ingresso dei tanti mister Smith nel Palazzo della politica, adesso gli ex debuttanti si sentono veterani che hanno piantato la bandiera. Le parole che Rocco Casalino pronuncia in questo campanello, sembrano già una sorta di codice di comportamento da tenere nella partita per il governo: «Abbiamo vinto senza omologarci», spiega, «abbiamo condotto una trattativa nel Palazzo e con la vecchia politica, senza fare nessun compromesso, e portando a casa il risultato». E ovviamente Casalino si riferisce anche al terreno dei simboli, quelli che stanno più a cuore al gruppo dirigente del Movimento 5 stelle in questo momento: «Hanno fatto qualsiasi offerta e qualsiasi tipo di pressione su di noi: avrebbero dato qualsiasi cosa perché Berlusconi incontrasse Di Maio, o un capogruppo, e alla fine qualsiasi deputato che avesse un ruolo. Ma noi», osserva, «abbiamo tenuto il punto». E qui Casalino, parlando a suoi, spiega che i grillini guardano alla battaglia appena conclusa per la presidenza della Camera come all'anteprima per la trattativa durissima che attende i pentastellati sul governo: «Continuano a non capire come siamo fatti. Vogliamo Palazzo Chigi, e arriveremo. Ma non a qualsiasi costo».
È solo legittimo entusiasmo? Oppure è la spiegazione di un codice che diventerà necessario per capire cosa faranno i 5 stelle nei prossimi giorni? La seconda lettura è quella che si avvicina di più alla realtà. A torto o a ragione il Movimento è convinto che il passo di Fico avvicini Di Maio a Palazzo Chigi. E che la prova di forza di Matteo Salvini su Silvio Berlusconi sia stata l'anteprima di una smarcatura che si ripeterà dopo le consultazioni.
Esiste un feeling tra i due leader che è stato messo alla prova nella giornata cruciale di venerdì pomeriggio: Salvini e Di Maio si sentono al ritmo di un Whatsapp. E lo stratega leghista Giancarlo Giorgetti ha già immaginato un protocollo minimo su cui si può trovare un'intesa: quella di un governo che vota subito due provvedimenti necessari e popolari come la legge elettorale e il blocco dell'aumento dell'Iva disinnescando la clausola di salvaguardia. Il secondo passo è più complesso, ma ancora più qualificante: allestire un provvedimento-simbolo che diventi il punto di incontro tra i due programmi. O uno «smontaggio» della legge Fornero. O un doppio antipasto incrociato per dare un segnale ai rispettivi elettorati: un reddito base che espanda il Rei, e uno scaglione di Flat Tax al 25%. Pochi sanno che anche nel programma del M5s l'idea della semplificazione fiscale era un punto di partenza di una idea di riforma. Terza fase: varare i provvedimenti-choc e attendere la reazione dell'Europa. Se fossero accettati sarebbe un trionfo. Se fossero bocciati diventerebbero il viatico per una campagna elettorale travolgente. C'è un ma, ovviamente, che è rappresentato dal doppio forno che entrambi i leader si tengono aperto. Di Maio coltiva buoni rapporti con il Pd e aspetta un segnale di disgelo. Salvini non ha rotto con Berlusconi dopo la prova di forza, e ieri ha abbracciato il Cavaliere. Ma dopo l'incoronazione di Fico, il prezzo non negoziabile di cui parlavano i deputati del Movimento è uno solo: il governo M5s-Lega, secondo loro, può nascere solo se a Palazzo Chigi ci va Luigi Di Maio.
I 5 stelle hanno perso la verginità. La Camera val bene un Berlusconi
Prima o poi doveva succedere. Da ieri i 5 stelle non sono più un movimento di piazza e di protesta, ma un partito politico. Che ragiona come quelli che hanno sempre combattuto e che, con le ultime elezioni, hanno sconfitto. Un partito che sa muoversi con consumata disinvoltura tra giochi e intrighi di palazzo. L'impegno, preso in prima persona da Beppe Grillo, di mantenere una natura «al di sopra dei partiti tradizionali» pare essere stato cancellato da Luigi Di Maio, nella sua inedita veste di tessitore di trame.Sembra di rileggere le pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, perché in fondo la storia è sempre la stessa: tutto cambia perché nulla cambi. Parliamo della Sicilia, dove il giallo ha dilagato, ma anche di Roma.Comunque sia, ieri i grillini, votando alla presidenza del Senato la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati, hanno superato quello che sono andati seminando in anni di vaffa e di blog. Cioè un odio viscerale nei confronti di Silvio Berlusconi, dipinto come l'origine di tutti i mali d'Italia e non solo.Solo qualche ora prima delle votazioni a Palazzo Madama e Montecitorio, Grillo, durante il suo spettacolo al Teatro Flaiano, ha liquidato Berlusconi con una battuta: «Questo uomo qui, sempre lo stesso, che vuole incontrare a tutti i costi il Movimento per vedere se c'è f…». Quindici giorni fa sempre Berlusconi era un «ologramma truccato e incandidabile», una «mummia», un «noto pregiudicato» a capo non di una formazione politica ma di una gang dedita al crimine. Gang alla quale apparterebbe anche la Casellati che i pentastellati hanno votato in massa. Potremmo continuare per intere pagine a elencare gli insulti dei grillini contro gli azzurri: «Larve, zombie, morti, ladri». E riportiamo soltanto i termini più simpatici.Restando in ambito sessuale, sulla scia dell'umorismo del comico genovese, si potrebbe dire che ieri, con lo scambio di voti per incoronare Roberto Fico presidente della Camera, i pentastellati hanno definitivamente perso la verginità. O quello che ne restava.Colpisce l'intervento trionfalistico di Alessandro Di Battista, all'assemblea dei deputati, che ha parlato di una giornata storica sfoderando il suo migliore sorriso. E negando anche l'evidenza, ovvero che la Casellati sia una fedelissima dell'ex premier. Una giravolta di cui i giornalisti gli hanno chiesto conto, appena uscito da Montecitorio. La sua risposta: «Gridava al golpe per la decadenza di Berlusconi al Senato? E che mi interessa. Per me è un nuovo schiaffo al sistema Renzusconi». E ancora: «Eleggere una di Forza Italia alla presidenza del Senato? Andate a vede' la faccia de Berlusconi». La conquista del potere deve averlo confuso. Aldilà di tutti i risiko di potere, i grillini hanno promosso una forzista della prima ora alla seconda carica dello Stato. Lo stesso ex Cavaliere è apparso soddisfatto e felice dell'accordo «per il bene del Paese». Poteva andargli molto peggio.Neppure un mese fa Di Battista aveva pubblicamente accusato Berlusconi di aver pagato Cosa Nostra. Urlando in piazza che «in un Paese normale, il leader di Forza Italia non starebbe in una villa lussuosa ma a San Vittore, Rebibbia o Regina Coeli». Aggiungendo anche che il presidente azzurro sarebbe «completamente rincoglionito». E l'11 marzo in una seduta della Camera lo aveva definito, tanto per rimarcare il concetto, un «delinquente».Bersaglio preferito degli strali grillini era, fino a qualche mese fa, anche il segretario della Lega che «fa più schifo di Renzi e Berlusconi messi insieme». Che oggi esista la possibilità di crearci un governo assieme, appare uno schiaffo alla logica e alla coerenza. Giudicando dalle loro parole. Nell'ottobre scorso Grillo intitolava un suo post «Matteo Salvini, il grande bluff». E scriveva dell'uomo che oggi è l'interlocutore favorito dei pentastellati: «Un traditore politico, ha gettato definitivamente la maschera. È uno di loro, è vergognoso. La sua Lega, dopo gli scandali degli investimenti in Tanzania e dei diamanti comprati da Belsito con i soldi pubblici, era arrivata al 3%. Per risollevarsi, Salvini ha fatto un lavoro sporco: ha copiato e si è appropriato di gran parte del programma del Movimento e ha iniziato una finta campagna elettorale contro il sistema dei partiti. Ma è tutto un bluff».Agli esponenti del Carroccio rinfacciava anche che «davano del piduista a Berlusconi e ora sono fedeli alleati nelle regioni e nei comuni». Insomma, li accusava di aver cambiato idea. Come è successo ieri, a palazzo Madama, agli eletti del partito da lui fondato e portato al successo. Se è finita l'epoca dei vaffa sembra essere cominciata quella che già racchiudere i primi germi degli inciuci, tanto odiati e detestati ai tempi dell'opposizione dura e pura. Ma oggi le cose sono diverse, c'è un loro uomo che siede al vertice della Camera. Compromesso, che era una brutta parola, quando non serviva. Anche Beppe Grillo ha spiegato la nuova linea sul suo blog, adesso personale ma non troppo: «La specie che sopravvive, anche in politica, non è la più forte, ma quella che si adatta meglio. Noi siamo un po' democristiani, un po' di destra, un po' di sinistra, un po' di centro. Possiamo adattarci a qualsiasi cosa». Infatti si sono adattati molto velocemente. Alfredo Arduino
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Il feeling tra i due vincitori delle elezioni va tradotto in azioni. Bruxelles è il nemico da sfidare con blocco dell'Iva, Fornero, flat tax e reddito base. Intanto dopo anni di insulti all'ex premier, i pentastellati rompono un tabù votando per la Casellati al Senato. Per accedere alla stanza dei bottoni, l'intransigenza anti Cav può momentaneamente andare in soffitta.E venne il giorno di Roberto Fico. Il giorno della prima poltrona istituzionale di rango conquistata da un parlamentare del Movimento 5 stelle, il giorno che prefigura gli scenari della trattativa sul governo. «Le istituzioni», dice il campano dallo scranno più alto di Montecitorio, «sono tenute a farsi carico della richiesta di rinnovamento che deve essere la linfa vitale di questa legislatura. Gli squilibri vanno riequilibrati, è ora prioritario superare definitivamente i privilegi». Poi la promessa di un nuovo giro di vite su vitalizi, e quella di non consentire più canguri, sub-emendamenti, proliferazione di decreti, e trucchi parlamentari per far prevalere l'esecutivo sulle Camere.Bisogna provare a fotografare questo fermo immagine di un discorso tanto breve e pacato nella forma, quanto dirompente e forte nei contenuti; bisogna contemplare attentamente tutto quello che succede intorno a Fico nell'Aula e nel Transatlantico di Montecitorio. Perché è in questo fermo immagine che si nasconde un piccolo passaggio di epoca. Per dire: Maria Elena Boschi e Luca Lotti, le due punte di diamante del Giglio magico renziano, restano impietriti, non applaudono il discorso inaugurale del neo presidente. Mentre fuori dall'Aula, davanti allo schermo gigante, intorno al demiurgo mediatico Rocco Casalino - responsabile della comunicazione e forse ghost writer del nuovo presidente - si raccoglie una folla festante: sono i collaboratori dell'ufficio comunicazione del gruppo, sono i deputati che costituiscono la spina dorsale della vecchia compagine parlamentare: ecco Alfonso Bonafede, ministro ombra incaricato. Ecco Giulia Sarti, pilastro del Movimento in commissione, appena scagionata dalla vicenda dei rimborsi, tornata al suo ruolo dopo aver chiarito. Sorrisi solari, abbracci, qualche lacrima di gioia. Non è solo la festa per un deputato che assurge allo scranno più alto, ma quella di un intero gruppo dirigente che ha attraversato il deserto si sente promosso insieme a lui. Sono passati cinque anni dall'ingresso dei tanti mister Smith nel Palazzo della politica, adesso gli ex debuttanti si sentono veterani che hanno piantato la bandiera. Le parole che Rocco Casalino pronuncia in questo campanello, sembrano già una sorta di codice di comportamento da tenere nella partita per il governo: «Abbiamo vinto senza omologarci», spiega, «abbiamo condotto una trattativa nel Palazzo e con la vecchia politica, senza fare nessun compromesso, e portando a casa il risultato». E ovviamente Casalino si riferisce anche al terreno dei simboli, quelli che stanno più a cuore al gruppo dirigente del Movimento 5 stelle in questo momento: «Hanno fatto qualsiasi offerta e qualsiasi tipo di pressione su di noi: avrebbero dato qualsiasi cosa perché Berlusconi incontrasse Di Maio, o un capogruppo, e alla fine qualsiasi deputato che avesse un ruolo. Ma noi», osserva, «abbiamo tenuto il punto». E qui Casalino, parlando a suoi, spiega che i grillini guardano alla battaglia appena conclusa per la presidenza della Camera come all'anteprima per la trattativa durissima che attende i pentastellati sul governo: «Continuano a non capire come siamo fatti. Vogliamo Palazzo Chigi, e arriveremo. Ma non a qualsiasi costo». È solo legittimo entusiasmo? Oppure è la spiegazione di un codice che diventerà necessario per capire cosa faranno i 5 stelle nei prossimi giorni? La seconda lettura è quella che si avvicina di più alla realtà. A torto o a ragione il Movimento è convinto che il passo di Fico avvicini Di Maio a Palazzo Chigi. E che la prova di forza di Matteo Salvini su Silvio Berlusconi sia stata l'anteprima di una smarcatura che si ripeterà dopo le consultazioni. Esiste un feeling tra i due leader che è stato messo alla prova nella giornata cruciale di venerdì pomeriggio: Salvini e Di Maio si sentono al ritmo di un Whatsapp. E lo stratega leghista Giancarlo Giorgetti ha già immaginato un protocollo minimo su cui si può trovare un'intesa: quella di un governo che vota subito due provvedimenti necessari e popolari come la legge elettorale e il blocco dell'aumento dell'Iva disinnescando la clausola di salvaguardia. Il secondo passo è più complesso, ma ancora più qualificante: allestire un provvedimento-simbolo che diventi il punto di incontro tra i due programmi. O uno «smontaggio» della legge Fornero. O un doppio antipasto incrociato per dare un segnale ai rispettivi elettorati: un reddito base che espanda il Rei, e uno scaglione di Flat Tax al 25%. Pochi sanno che anche nel programma del M5s l'idea della semplificazione fiscale era un punto di partenza di una idea di riforma. Terza fase: varare i provvedimenti-choc e attendere la reazione dell'Europa. Se fossero accettati sarebbe un trionfo. Se fossero bocciati diventerebbero il viatico per una campagna elettorale travolgente. C'è un ma, ovviamente, che è rappresentato dal doppio forno che entrambi i leader si tengono aperto. Di Maio coltiva buoni rapporti con il Pd e aspetta un segnale di disgelo. Salvini non ha rotto con Berlusconi dopo la prova di forza, e ieri ha abbracciato il Cavaliere. Ma dopo l'incoronazione di Fico, il prezzo non negoziabile di cui parlavano i deputati del Movimento è uno solo: il governo M5s-Lega, secondo loro, può nascere solo se a Palazzo Chigi ci va Luigi Di Maio.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/fisco-e-sberle-allue-il-premier-non-ce-2552337162.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-5-stelle-hanno-perso-la-verginita-la-camera-val-bene-un-berlusconi" data-post-id="2552337162" data-published-at="1765823931" data-use-pagination="False"> I 5 stelle hanno perso la verginità. La Camera val bene un Berlusconi Prima o poi doveva succedere. Da ieri i 5 stelle non sono più un movimento di piazza e di protesta, ma un partito politico. Che ragiona come quelli che hanno sempre combattuto e che, con le ultime elezioni, hanno sconfitto. Un partito che sa muoversi con consumata disinvoltura tra giochi e intrighi di palazzo. L'impegno, preso in prima persona da Beppe Grillo, di mantenere una natura «al di sopra dei partiti tradizionali» pare essere stato cancellato da Luigi Di Maio, nella sua inedita veste di tessitore di trame.Sembra di rileggere le pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, perché in fondo la storia è sempre la stessa: tutto cambia perché nulla cambi. Parliamo della Sicilia, dove il giallo ha dilagato, ma anche di Roma.Comunque sia, ieri i grillini, votando alla presidenza del Senato la forzista Maria Elisabetta Alberti Casellati, hanno superato quello che sono andati seminando in anni di vaffa e di blog. Cioè un odio viscerale nei confronti di Silvio Berlusconi, dipinto come l'origine di tutti i mali d'Italia e non solo.Solo qualche ora prima delle votazioni a Palazzo Madama e Montecitorio, Grillo, durante il suo spettacolo al Teatro Flaiano, ha liquidato Berlusconi con una battuta: «Questo uomo qui, sempre lo stesso, che vuole incontrare a tutti i costi il Movimento per vedere se c'è f…». Quindici giorni fa sempre Berlusconi era un «ologramma truccato e incandidabile», una «mummia», un «noto pregiudicato» a capo non di una formazione politica ma di una gang dedita al crimine. Gang alla quale apparterebbe anche la Casellati che i pentastellati hanno votato in massa. Potremmo continuare per intere pagine a elencare gli insulti dei grillini contro gli azzurri: «Larve, zombie, morti, ladri». E riportiamo soltanto i termini più simpatici.Restando in ambito sessuale, sulla scia dell'umorismo del comico genovese, si potrebbe dire che ieri, con lo scambio di voti per incoronare Roberto Fico presidente della Camera, i pentastellati hanno definitivamente perso la verginità. O quello che ne restava.Colpisce l'intervento trionfalistico di Alessandro Di Battista, all'assemblea dei deputati, che ha parlato di una giornata storica sfoderando il suo migliore sorriso. E negando anche l'evidenza, ovvero che la Casellati sia una fedelissima dell'ex premier. Una giravolta di cui i giornalisti gli hanno chiesto conto, appena uscito da Montecitorio. La sua risposta: «Gridava al golpe per la decadenza di Berlusconi al Senato? E che mi interessa. Per me è un nuovo schiaffo al sistema Renzusconi». E ancora: «Eleggere una di Forza Italia alla presidenza del Senato? Andate a vede' la faccia de Berlusconi». La conquista del potere deve averlo confuso. Aldilà di tutti i risiko di potere, i grillini hanno promosso una forzista della prima ora alla seconda carica dello Stato. Lo stesso ex Cavaliere è apparso soddisfatto e felice dell'accordo «per il bene del Paese». Poteva andargli molto peggio.Neppure un mese fa Di Battista aveva pubblicamente accusato Berlusconi di aver pagato Cosa Nostra. Urlando in piazza che «in un Paese normale, il leader di Forza Italia non starebbe in una villa lussuosa ma a San Vittore, Rebibbia o Regina Coeli». Aggiungendo anche che il presidente azzurro sarebbe «completamente rincoglionito». E l'11 marzo in una seduta della Camera lo aveva definito, tanto per rimarcare il concetto, un «delinquente».Bersaglio preferito degli strali grillini era, fino a qualche mese fa, anche il segretario della Lega che «fa più schifo di Renzi e Berlusconi messi insieme». Che oggi esista la possibilità di crearci un governo assieme, appare uno schiaffo alla logica e alla coerenza. Giudicando dalle loro parole. Nell'ottobre scorso Grillo intitolava un suo post «Matteo Salvini, il grande bluff». E scriveva dell'uomo che oggi è l'interlocutore favorito dei pentastellati: «Un traditore politico, ha gettato definitivamente la maschera. È uno di loro, è vergognoso. La sua Lega, dopo gli scandali degli investimenti in Tanzania e dei diamanti comprati da Belsito con i soldi pubblici, era arrivata al 3%. Per risollevarsi, Salvini ha fatto un lavoro sporco: ha copiato e si è appropriato di gran parte del programma del Movimento e ha iniziato una finta campagna elettorale contro il sistema dei partiti. Ma è tutto un bluff».Agli esponenti del Carroccio rinfacciava anche che «davano del piduista a Berlusconi e ora sono fedeli alleati nelle regioni e nei comuni». Insomma, li accusava di aver cambiato idea. Come è successo ieri, a palazzo Madama, agli eletti del partito da lui fondato e portato al successo. Se è finita l'epoca dei vaffa sembra essere cominciata quella che già racchiudere i primi germi degli inciuci, tanto odiati e detestati ai tempi dell'opposizione dura e pura. Ma oggi le cose sono diverse, c'è un loro uomo che siede al vertice della Camera. Compromesso, che era una brutta parola, quando non serviva. Anche Beppe Grillo ha spiegato la nuova linea sul suo blog, adesso personale ma non troppo: «La specie che sopravvive, anche in politica, non è la più forte, ma quella che si adatta meglio. Noi siamo un po' democristiani, un po' di destra, un po' di sinistra, un po' di centro. Possiamo adattarci a qualsiasi cosa». Infatti si sono adattati molto velocemente. Alfredo Arduino
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Piuttosto, è il tentativo di capire cosa si celi oltre quelle bellezze, sotto ciò che lo sguardo abbraccia, dentro la terra che oggi andrebbe scavata. Roma dovrebbe avere una linea metropolitana più efficiente. Più fermate, collegamenti migliori. Ma il condizionale è obbligatorio, figlio della necessità di appurare che non ci siano reperti a separare il dire dal fare. Il documentario, accompagnato dalla voce narrante di Domenico Strati e scritto con la consulenza storico-archeologica della dottoressa Claudia Devoto, non pretende di avere risposte, ma cerca di portare a galle le criticità del progetto. Chiedendo e chiedendosi che ne possa essere di Roma, se possa un giorno arrivare ad essere una metropoli contemporanea, il passato relegato al proprio posto, o se, invece, la sua storia sia destinata ad essere troppo ingombrante, impedendole la crescita infrastrutturale che vorrebbe avere.
Roma Sotterranea, disponibile per lo streaming su NowTv, racconta come ingegneri e archeologi abbiano lavorato in sinergia per realizzare un piano atto a portare all'inaugurazione delle nuove fermate della Linea C di Roma, quelle che (da progetto) dovrebbero collegare la periferia sudorientale a quella occidentale della città. E, nel raccontare questo lavoro, racconta parimenti come il gruppo di ingegneri e archeologi abbia cercato di prevedere e accogliere ogni imprevisto, così da accompagnare la città nel suo sviluppo. Questo perché i sondaggi di archeologia preventiva non sempre rivelano quanto poi potrà emergere durante lavori di scavo così imponenti. In Piazza Venezia, inaspettatamente, è tornata alla luce l’imponente struttura degli Auditoria adrianei, un complesso pubblico su due livelli costruito durante l’impero di Adriano (117-138 d.C.). Era destinato alla divulgazione culturale, alla pubblica lettura di opere letterarie e in prosa, all’insegnamento della retorica, e all’attività giudiziaria e la sua scoperta, la cui importanza storica è stata definita straordinaria, ha portato allo spostamento di uno degli accessi alla stazione presente nella piazza.
Diverso è stato il rinvenimento, inatteso, fatto scavando nei dintorni della nuova stazione di Porta Metronia: a nove metri di profondità, è stata scoperta una caserma del II d.C., 1700 metri quadri di superficie con mosaici e affreschi distribuiti in 30 alloggi per una compagnia di soldati che alloggiavano in ambienti di 4 mq e la domus del comandante, dotata di atrio e fontana. Le strutture sono state rimosse per costruire la stazione, dopo la scansione 3D di ogni singolo muro. A seguito della collocazione in magazzino, del restauro e della catalogazione dei reperti, le murature e i pavimenti sono tornati alla loro originaria collocazione, facendo della stazione uno straordinario sito archeologico.
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Secondo un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, la decarbonizzazione dell’auto europea stenta: le vendite elettriche sono ferme al 14%, le batterie e le infrastrutture sono arretrate. E mentre Germania e Italia spingono per una maggiore flessibilità, la Commissione europea valuta la revisione normativa.
La decarbonizzazione dell’automobile europea si trova a un bivio. Lo evidenzia un’analisi della Fondazione Eni Enrico Mattei, in un articolo dal titolo Revisione o avvitamento per la decarbonizzazione dell’automobile, che mette in luce le difficoltà del cosiddetto «pacchetto automotive» della Commissione europea e la possibile revisione anticipata del Regolamento Ue 2023/851, che prevede lo stop alle immatricolazioni di auto a combustione interna dal 2035.
Originariamente prevista per il 2026, la revisione del bando è stata anticipata dalle pressioni dell’industria, dal rallentamento del mercato delle auto elettriche e dai mutati equilibri politici in Europa. Germania e Italia, insieme ad altri Stati membri con una forte industria automobilistica, chiedono maggiore flessibilità per conciliare gli obiettivi ambientali con la realtà produttiva.
Il quadro che emerge è complesso. La domanda di veicoli elettrici cresce più lentamente del previsto, la produzione europea di batterie fatica a decollare, le infrastrutture di ricarica restano insufficienti e la concorrenza dei produttori extra-Ue, in particolare cinesi, si fa sempre più pressante. Nel frattempo, il parco auto europeo continua a invecchiare e la riduzione delle emissioni di CO₂ procede a ritmi inferiori alle aspettative.
I dati confermano il divario tra ambizioni e realtà. Nel 2024, meno del 14% delle nuove immatricolazioni nell’Ue a 27 è stata elettrica, mentre il mercato resta dominato dai motori tradizionali. L’utilizzo dell’energia elettrica nel settore dei trasporti stradali, pur in crescita, resta inferiore all’1%, rendendo molto sfidante l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050.
Secondo la Fondazione Eni Enrico Mattei, non è possibile ignorare l’andamento del mercato e le preferenze dei consumatori. Per ridurre le emissioni occorre che le nuove auto elettriche sostituiscano quelle endotermiche già in circolazione, cosa che al momento non sta avvenendo in Italia, seconda solo alla Germania per numero di veicoli.
«Ai 224 milioni di autovetture circolanti nel 2015 nell’Ue, negli ultimi nove anni se ne sono aggiunti oltre 29 milioni con motore a scoppio e poco più di 6 milioni elettriche. Valori che pongono interrogativi sulla strategia della sostituzione del parco circolante e sull’eventuale ruolo di biocarburanti e altre soluzioni», sottolinea Antonio Sileo, Programme Director del Programma Sustainable Mobility della Fondazione. «È necessario un confronto per valutare l’efficacia delle politiche europee e capire se l’Unione punti a una revisione pragmatica della strategia o a un ulteriore avvitamento normativo», conclude Sileo.
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Ecco #DimmiLaVerità del 15 novembre 2025. Con il senatore di Fdi Etel Sigismondi commentiamo l'edizione dei record di Atreju.
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina