2025-11-19
Quel finto moderato che detesta la destra
Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Francesco Saverio Garofani viene, come Mattarella, dal mondo della sinistra Dc, dai cui ranghi scagliò attacchi contro Berlusconi. Mantenendo un basso profilo, ama tessere la propria rete di influenza, che va dall’ex Mister Tasse, Ruffini, a esponenti della Difesa.C’è una figura che attraversa con passo felpato tre decenni di politica e istituzioni italiane, spesso senza esporsi del tutto, ma che - quando decide di intervenire - rivela un carattere molto più netto di quanto lasci intuire la sua consueta riservatezza. È quella di Francesco Saverio Garofani, classe 1962, cattolico democratico di tradizione doc, ex direttore di quotidiani d’area, già deputato dell’Ulivo e del Partito democratico, oggi figura centrale negli equilibri quirinalizi sul fronte della Difesa. Chi lo conosce bene lo definisce «riservato» e «prudente». Spesso viene avvistato intorno a Montecitorio e a Palazzo Madama insieme con l’amico senatore dem Stefano Losacco.Eppure, nella sua carriera politica non ha mai rinunciato ad assumere dure prese di posizione contro il centrodestra. Come dimostrano anche le frasi che ha confidato a cena nei giorni scorsi e riportate ieri dalla Verità. Del resto, diversi parlamentari di area confermano che da almeno un anno Garofani sta portando avanti l’idea di candidare l’ex numero uno dell’agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini. Come da tempo sostiene la nascita di una lista civica nazionale, unico antidoto per non disperdere la tradizione politica della Dc di sinistra, al potere da decenni. Del resto, la biografia di Garofani è quella tipica dei «superdemocristiani» (i cosiddetti «democristianoni» ) di ultima generazione: serietà di facciata, preferenza per i corridoi istituzionali rispetto alle telecamere, linguaggio misurato e una riservatezza che è quasi un manifesto personale. Eppure, come spesso accade in Italia, dietro il profilo basso convivono antiche battaglie politiche, parole critiche e una rete di rapporti che affonda in stagioni lontane ma ancora influenti: in sostanza una «pecora mannara». La prima vita di Garofani, infatti, è quella del giornalista d’area. Caporedattore de La Discussione, poi vicedirettore e quindi direttore de Il Popolo (a sceglierlo fu proprio Sergio Mattarella quando si occupava dello storico quotidiano fondato da Giuseppe Donati e don Luigi Sturzo), infine cofondatore e vicedirettore del quotidiano Europa. Una carriera che attraversa l’intera parabola del cattolicesimo democratico dopo il collasso della Dc. In quelle redazioni, Garofani non è mai un semplice cronista: è un intellettuale militante, sempre sul versante progressista. Gli editoriali che verga all’inizio del nuovo millennio raccontano il suo orientamento: critica severa al berlusconismo, sospetto verso il nuovo centrodestra, difesa di un bipolarismo che vedeva in un centrosinistra riformista l’unico argine «alla torsione mediatica della politica italiana».Non si può non citare, per chi sfoglia gli archivi di Europa, il suo lungo editoriale sullo scandalo privato che investì l’allora presidente del Consiglio Berlusconi nel maggio del 2009, durante gli attacchi dell’ex moglie Veronica Lario. Garofani scrive una lunga analisi critica del rapporto tra leadership politica e modello televisivo, dove l’allora premier diventava l’emblema di un’Italia in cui «il privato diventa pubblico e il pubblico diventa privato» in un circuito di spettacolarizzazione continuo: toni da editorialista militante più che da futuro consigliere del Colle. Così come militanti sono gli affondi contro Roberto Calderoli, definito sempre nel 2009 «il ministro della porcata», o ancora le accuse rivolte al Pdl di volersi «far pagare la campagna elettorale coi soldi pubblici».Dietro la compostezza, insomma, c’è sempre stato un orientamento politico netto: un cattolico progressista che del centrodestra ha sempre diffidato in modo radicale, in una cornice culturale molto simile - non a caso - a quella del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con cui condivide storia politica e un’amicizia che dura ormai da anni. Eletto nel 2006 come fedelissimo di Dario Franceschini (che i suoi li fa sempre eleggere), Garofani resta alla Camera per tre legislature, fino al 2018. Lavora soprattutto nella commissione Difesa, dove arriva quasi per caso. Ma è qui che costruisce il suo vero capitale politico: un approccio che gli vale la fiducia di molti ufficiali e la stima anche di avversari politici. Da vicepresidente e poi da presidente della commissione, guida alcuni dei passaggi più delicati sulle missioni internazionali, sui bilanci militari, sulla riforma dello strumento difesa.Nel 2018 (non potendo essere più candidato in Parlamento per limiti di regolamento interno del Pd) Garofani entra al Quirinale dalla porta principale, come consigliere per gli affari istituzionali. Nel 2022 arriva però la svolta: Mattarella lo nomina segretario del Consiglio supremo di Difesa, incarico tradizionalmente affidato a generali come Rolando Mosca Moschin, già vicino a Giorgio Napolitano. Una decisione sorprendente proprio mentre la Nato affronta una fase critica e il Trattato del Quirinale apre alla cooperazione militare europea. Affidare quel posto a un ex deputato del Pd, con un passato di critiche feroci alla destra, viene letto da molti come una scelta difficile da giustificare.Nell’ultimo anno nuove ombre hanno alimentato nuovi dubbi. Secondo ricostruzioni interne alla Difesa, Garofani e il collaboratore Stefano Del Col, (chiamato Superciuk da Sassate) avrebbero osteggiato la nomina del generale Luciano Portolano come Capo di Stato Maggiore, preferito dal presidente e dal ministro Guido Crosetto, tentando di indirizzare il processo. I generali Carmine Masiello e Francesco Paolo Figliuolo, esclusi, avevano accettato la scelta; Garofani invece avrebbe continuato a contestarla, creando imbarazzo anche al Colle.
Sergio Mattarella e Francesco Saverio Garofani (Imagoeconomica)
Nella terza puntata, il Maestro Riccardo Muti affronta il tema del carisma e dell’autorevolezza per i giovani direttori. E racconta la sua esperienza in Cina, Corea e Giappone, dove le orchestre hanno «occhi di fanciullo» e sono immuni a vizi e «bieche tradizioni».