2025-02-16
Fini, il gregario che ha sprecato tutte le occasioni
Gianfranco Fini (Getty Images)
Sdoganato da Silvio Berlusconi, gestiva Alleanza nazionale con il pugno di ferro. La sua storia è stata caratterizzata dalle mille giravolte sulle sue posizioni. Con la svolta di Fiuggi ha costruito le basi per la destra al governo, ma è rimasto l’eterno secondo.Cognome e nome: Fini Gianfranco. Aka -conosciuto anche come - Tortellino, perché arrivato a Roma da Bologna, dove era diventato «non missino, fascista. Anzi: post-fascista, ma sarebbe meglio dire: un fascista nato nel dopoguerra».Qualifica su cui maturerà un ripensamento (uno dei tanti), dopo che le «zecche rosse» gli avevano impedito di entrare nel cinema dove si proiettava la pellicola filoamericana Berretti verdi con John Wayne. Er Caghetta, perché -malignavano i camerati- ai cortei si presentava in giacca e impermeabile, così da imboscarsi in un negozio e spacciarsi per poliziotto in caso di scontri. «Un fascista con la faccia da prete», per un Giampaolo Pansa in gran spolvero alla Festa nazionale dell’Unità, Modena 1994.«Palle di velluto» (Daniela Santanchè, per quello che vale: nel 2008 la Santa uscì da An per unirsi alla Destra di Francesco Storace, dato che secondo lei Silvio Berlusconi aveva fatto il suo tempo in politica: «È più vecchio dell’aratro», salvo riunirsi al Cavaliere nel Pdl alla prima occasione, grazie ai buoni uffici di Denis Verdini).Un «Tony Blair di destra», azzardò, s’ignora quanto sardonicamente, il sardo Francesco Cossiga.Pragmatico nel muoversi a zig-zag, in base alle convenienze del momento.Il Fini che giustifica i mezzi.Fini. L’uomo che imparò a stare in tv, ascoltando i consigli di Gino Agnese, unico massmediologo di area missina, che poi lo promuoverà: «Fini in tv non dice assolutamente nulla, ma lo dice nel modo giusto». Fini. L’uomo il cui partito fu sdoganato (termine che gli è inviso) da Berlusconi, quando in vista delle comunali di Roma questi spiazzò tutti svelando che se fosse stato un elettore della Capitale avrebbe votato per lui, non per Francesco Rutelli. Candidatura a sindaco che era nata, così confidò Maurizio Gasparri (a Maria Latella per il suo libro Regimental, 2003), a casa di Gaetano Rebecchini, figlio di quel Salvatore primo cittadino negli anni 50, alta borghesia capitolina vicina al Papa.Fini. L’uomo della retromarcia su Roma, che, giusto trent’anni fa, espulse il fascismo dal pantheon di Alleanza nazionale «come fosse un calcolo renale», secondo un feroce Marcello Veneziani, visto che lo strappo fu consumato a Fiuggi.Non con il plauso del fascistissimo musicologo Piero Buscaroli, che a Fini inviò un tenero biglietto: «Sei proprio un maiale e via della Scrofa (sede del partito, ndr) è l’indirizzo più adatto per te. Ti maledico in nome dei morti e dei vivi. In fondo alla tua casa c’è tutta la merda che meriti», ecco.Fini. L’uomo che nel 1987, dieci anni dopo essere stato eletto segretario del Fronte della Gioventù, per investitura di Giorgio Almirante, e con l’appoggio di Donna Assunta, è incoronato leader del Msi («Non inesistente, non mediocre, non innocuo, ma inodore e insapore», così nell’occasione Giorgio Bocca).Nel 1988, il 3 gennaio, giorno del suo trentaseiesimo compleanno, rivela: «Trovo patetico il saluto romano, non mi piace la parola camerata e non la uso, non ho mai avuto camicie nere e non mi taglio i capelli a spazzola» (in Fini - La biografia del presidente di An, scritta nel 1994 da Goffredo Locatelli e Daniele Martini).Fini. L’uomo per cui, 8 marzo 1994: «Benito Mussolini è stato l’unico statista italiano di questo secolo». Ma che nel 2002, al microfono di Enrico Lucci de Le Iene, ritratterà: «Oggi non lo direi più». Ma allora chi è stato il più grande statista del secolo? «In Italia Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi». Sicché a lungo tra i post-fascisti sarà tutto un parodistico battere di tacchi e di mani tese: «Saluto a Einaudi!» (provocazione di Pietrangelo Buttafuoco, testimonia Gian Antonio Stella in Tribù Spa. Quello stesso Buttafuoco che, firmandosi Dragonera sul Secolo d’Italia, a un certo punto narrò di gai episodi gay tra i legionari di Fiume, e per questo fu licenziato, Fini-to, nel silenzio-assenso del grande capo). Fini. L’uomo che si ritroverà impiccato alla sentenza da lui mai pronunciata in questi termini: «Il fascismo male assoluto», durante una visita ufficiale in Israele. Inquadrando le «pagine vergognose del ventennio», le «infami leggi razziali», la Shoah «nell’epoca del male assoluto». «Di cui fa parte anche il fascismo?», fu la domanda-esca delle iene dattilografe. E lui, abboccando: «Certo», e vai con Fiuggi 2.0! (la spassosa ricostruzione è in Invano, 2018, di Filippo Ceccarelli). Fini. L’uomo che cavalcherà la fine della Prima Repubblica, mettendosi all’occhiello un picconcino d’oro in omaggio al picconatore Cossiga, e lo tsunami giustizialista di Mani Pulite. «Non conosco e non so quali idee politiche abbia Antonio Di Pietro, ma anche se fosse di Rifondazione comunista sarebbe, visto quel che sta facendo, un magistrato degno della massima stima», si sbilancerà il 13 giugno 1992. Per poi ritrovarsi un decennio dopo, vicepresidente del consiglio governo Berlusconi, 2001-2006, a sostenere le leggi ad personam. Per mettersi di traverso - nel 2009, quando i pozzi del loro rapporto erano definitivamente avvelenati - tra urla e minacce, sulla norma cosiddetta della prescrizione breve, senza la quale Silvio rischiava grosso nel cosiddetto «processo David Mills». Finì a piatti rotti, letteralmente, durante un pranzo negli uffici della Camera -a romperne almeno uno fu Berlusconi - antipasto dello showdown all’auditorium di via della Conciliazione, con l’irridente: «Che fai, mi cacci?», l’inizio della fine.Fini. L’uomo che governava An con il pugno di ferro, «Nessuno si permetta di sindacare la mia decisione, sarò spietato», che non stimava i cosiddetti colonnelli, «questi del partito», che lo ripagarono nel 2005 radiografandolo come ormai di un «caso umano»: «È malato, è dimagrito, gli tremano le mani», secondo Gasparri, Ignazio La Russa e Altero Matteoli, «intercettati» da un cronista de Il Tempo in una caffetteria romana.Fini. L’uomo che rimase «incinto delle sue due mogli», battutaccia di Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse, legatosi tra mille traversie a Daniela Di Sotto, una tipina fine tranne quando le usciva la bestia da tifosa laziale: «A’ romanisti, a fine campionato ve daremo otto punti. Ma non de distacco, de sutura!».Quindi unitosi a Elisabetta Tulliani, in precedenza legata da amorevole amicizia a Luciano Gaucci (preceduta da quella con il di lui figlio). Paparazzati in barca a scambiarsi affettuosità. Niente di scandaloso ma con l’evidenza di un Fini virilmente reattivo, tanto da incassare i complimenti di Alessandra Mussolini, che avvicinatasi allo scranno più alto della Camera, ignara del microfono aperto, fu sentita bisbigliare: «Complimenti per il bambolotto, Presidente!».Fini. L’uomo innamorato che darà una mano al «cognato» Giancarlo, facendogli avere a tempo di record una fiammeggiante Ferrari 458 Italia da 197.000 euro, per cui esisteva una chilometrica lista d’attesa (foto sul settimanale Chi, che nel 2010 titolò con un gioco di parole: «Fratellino rampante»).Giancarlo che risulterà destinatario del mitico appartamentino di Montecarlo, già nella disponibilità di Fini perché nel lascito ereditario - ad An, però - della contessa Anna Maria Colleoni. Intricata vicenda rispetto alla quale Fini nel 2016 ammetterà: «Sono stato un coglione, corrotto mai», che ha portato - aprile 2024 - alla condanna in primo grado per l'accusa di riciclaggio, con immediato annuncio di ricorso in appello, di Fini a due anni e otto mesi, di Elisabetta a cinque anni e del di lei fratello a sei.Per Tulliani Fini arrivò a spendersi perfino con la Rai, dove «siamo stati capaci solo di portare in video delle zoccole» (dixit Luca Barbareschi, finiano dell’ultima ora, eletto in Parlamento nel 2008 con il centrodestra, vai a sapere a chi pensando). Ha ricordato Guido Paglia, giornalista dalle solide radici di (ultra)destra: «Mi reco alla Camera dove vengo dirottato nell’appartamento privato del presidente», che -presente Tulliani - gli chiede, «visibilmente imbarazzato», di fargli avere un contratto Rai con il «minimo garantito» per film, fiction, intrattenimento. «Presidente, non sussistono i requisiti» replica Paglia. «Ma con Barbareschi e la moglie di Italo Bocchino hai avuto ben altre attenzioni» gli sbatte in faccia Tulliani, cui Paglia ribatte: «Ringrazia Iddio che non siamo a casa mia sennò ti avrei già messo le mani addosso», e se ne va, inseguito da Fini che cerca di trattenerlo. Risultato? «Le mie aspettative di diventare vicedirettore generale Rai sono state ovviamente frustrate» è l’amara conclusione di Paglia.Fini. L’uomo che pensava di diventare il leader del centrodestra, forse premier, magari capo dello Stato. Invece è stato vicepresidente del consiglio, ministro degli Esteri e presidente della Camera. Un destino, cinico e baro, da gregario. Fini. L’uomo che rifarebbe tutto, nonostante tutto? «Sì, far nascere An era essenziale per avere anni dopo una destra con il 30% dei voti, architrave dell’attuale governo» (così alla Stampa, il 27 gennaio).Fini. L’uomo che scosse l’albero, ma furono altri a raccogliere le mele. Anzi, i Meloni.Fini. C’est finì.
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)