2024-05-01
La sua vera colpa è aver tradito un ideale
Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi (Getty Images)
A prescindere dalla sentenza di ieri, Fini era già stato sanzionato anni fa dagli elettori, che non gli hanno perdonato le trame per disarcionare il Cavaliere e prenderne il posto. La sua gente poteva anche sopportare qualche giravolta, ma non la slealtà.Mettiamo subito le cose in chiaro: nonostante i due anni e otto mesi beccati ieri, Gianfranco Fini non trascorrerà nemmeno un giorno in galera. E non perché ha più di settant’anni e nemmeno perché la pena che gli è stata comminata, se divenisse esecutiva, consentirebbe l’affidamento in prova ai servizi sociali. No, non sarà arrestato per il semplice motivo che l’affaire della casa di Montecarlo finirà in prescrizione. Infatti, i giudici hanno levato di mezzo l’accusa più grave che la Procura gli aveva rivolto, ossia quella di corruzione internazionale, lasciandogli sulle spalle solo quella di riciclaggio. Che dal mio punto di vista, e credo anche da quello degli italiani che per anni hanno seguito l’ex leader di An come un messia, è egualmente infamante, ma per il codice penale è infinitamente più lieve. E proprio per questo, l’uomo che ereditò il Movimento sociale di Giorgio Almirante e lo trasformò, con l’aiuto determinante di Giuseppe Tatarella, in Alleanza nazionale, ieri ha potuto fare spallucce e dire di non essere deluso, dichiarando di andarsene più sereno di quello che i giornalisti potessero pensare. Intendiamoci: se scrivo che Fini non andrà in galera non è perché ce lo avrei voluto. Di vederlo dietro le sbarre non me ne importa nulla, anche se ricordo ancora il numero di citazioni che mi fece per gli articoli pubblicati proprio sulla vicenda della casa di Montecarlo. Era il periodo in cui il presidente della Camera negava con ostinazione l’evidenza, sostenendo fosse tutta una manovra politica e dicendo di essere pronto a dimettersi se dimostrato che quell’appartamento, donato per una buona battaglia politica, fosse stato svenduto al cognato. Come è noto, l’alloggio fu ceduto per quattro soldi, tra l’altro versati da un imprenditore concessionario dello Stato per i giochi d’azzardo. Ma anche quando fu provato che invece quella casa era proprio finita nelle mani del fratello della sua compagna e che anzi la stessa Tulliani era in qualche modo coinvolta, Fini si guardò bene dal dimettersi, ma anzi provò a rilanciare candidandosi a fine legislatura con la coalizione guidata da Mario Monti. Ci pensarono gli italiani a mandarlo a casa, negandogli l’elezione e mettendo fine alla sua carriera politica. Dicevo che non ho nessun desiderio di vederlo in manette. Innanzitutto, perché non godo delle disgrazie altrui, ma anzi quando vedo qualcuno nella polvere mi viene voglia di dargli una mano a rialzarsi, soprattutto se mi accorgo che quanti gli lustravano le scarpe fino al giorno prima, nella speranza di raccogliere le briciole del suo potere, gli hanno voltato le spalle. E poi perché credo che nel caso di Fini la sua vera condanna non si sconta in una cella, ma guardando il burrone in cui si è sprofondati. Gianfranco non è stato solo l’erede di Almirante, colui a cui fu consegnato il partito dopo la morte del suo storico leader. Era anche il successore naturale del dopo Berlusconi. Se non avesse fatto niente, se fosse stato immobile e paziente, avrebbe raccolto il patrimonio politico creato dal Cavaliere, divenendo il numero uno del centrodestra. Da Angelino Alfano a Sandro Bondi, da Ignazio La Russa a Denis Verdini, da Fabrizio Cicchitto a Michela Vittoria Brambilla per citare i colonnelli del vecchio Pdl, nessuno avrebbe potuto competere con lui. Ma Fini non voleva subentrare a Berlusconi: lo voleva annientare. Non so da dove gli sia spuntata quell’acrimonia che gli trasfigurava il volto quando parlava del fondatore di Forza Italia. Tuttavia, ricordo certi incontri da cui uscivo avendo chiaro in testa che Gianfranco non vedeva l’ora di sbarazzarsi del Cavaliere. Ci provò nel 1999, quando alle elezioni europee si spostò al centro alleandosi con Mario Segni. Sognò di riuscirci nel 2006, quando alle politiche immaginò una sconfitta che riconsegnando a Prodi il Paese spedisse Berlusconi ai giardinetti. Infine, ritentò nel 2007 dopo la mancata spallata alla maggioranza di centrosinistra, ma a far fallire i suoi disegni fu il discorso del predellino. Fini in principio reagì liquidando il progetto del partito unico definendolo con un «siamo alle comiche finali», salvo poi accettare con la coda fra le gambe quando capì che restarne fuori sarebbe stata una catastrofe. Non so quanto quella giravolta improvvisa e fatta malvolentieri abbia pesato su ciò che è venuto dopo. Se il rancore a lungo covato poi lo abbia portato a cercare di disarcionare il Cavaliere con un voto di sfiducia e la fondazione di Futuro e Libertà. Tuttavia, sono certo che quella è stata la sua vera fine politica. Il leader di An, l’erede designato a guidare il centrodestra, è finito lì, con quel tradimento. Essersi fatto eleggere a presidente della Camera per poi diventare il più fiero avversario di Berlusconi è stata la mossa che gli elettori – i suoi elettori, non quelli del fondatore di Forza Italia – non gli hanno mai perdonato. Potevano passare sopra a certe sue uscite, più applaudite a sinistra che a destra. Potevano pure chiudere gli occhi sulle sue svolte e su quella strana vicinanza a Napolitano. Ma il tradimento di un ideale no. Nella comunità politica da cui Fini proveniva, la lealtà era un valore che veniva prima di tutto. Ed è stato questo il suo più grande errore. Il resto viene dopo, anche se le tresche con Francesco Corallo, gli assegni e la casa di Montecarlo erano arrivati prima. E a prescindere dalla sentenza dei giudici e dalle frasi che Fini ha pronunciato ieri («non mi è ben chiaro in che cosa consista il reato»), la vera condanna non sono i due anni e otto mesi di carcere, ma gli anni che ne hanno cancellato per sempre le ambizioni politiche, trasformandolo nell’ennesimo politico finito nei guai «a sua insaputa».
Alessandro Benetton (Imagoeconomica)