2019-06-27
Fico peggio di Fini: scavalca anche il Colle
Il presidente della Camera tradisce il suo ruolo di arbitro e straparla su ogni cosa. Dall'immigrazione all'economia, il grillino critica Lega e M5s e detta la linea a Sergio Mattarella. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista sono avvisati, il successore di Laura Boldrini è sceso in campo.È vero: i precedenti di Gianfranco Fini e Laura Boldrini hanno fatto saltare gli schemi. Di tutta evidenza, adesso, è difficile pretendere terzietà assoluta da chi, dopo di loro, siede sullo scranno più alto di Montecitorio. Eppure, desta sorpresa la nonchalance con la quale Roberto Fico, attuale presidente della Camera e terza carica dello Stato, continua a esternare come se fosse un deputato qualsiasi, o un capopartito, o un capocorrente, prendendo posizioni divisive, entrando a gamba tesa in questioni che appartengono alla dialettica tra maggioranza e opposizione, e che dovrebbero vedere silenzioso e prudentissimo chi - invece - ha il compito sacro di tutelare e rappresentare ogni opinione, non una soltanto. Serve una (ennesima) prova? Ieri su Repubblica (titolone di apertura in prima pagina, e poi paginone intero in terza) Fico, in trasferta a Berlino, ha esternato. Su cosa? Su tutto: non c'è tema che sia rimasto fuori dall'intervista. Ecco la raffica fichiana. Immigrazione? «Non penso che chiudere i porti sia una soluzione di governo». Poi, sollecitato dall'intervistatrice, una replica diretta a Matteo Salvini: «Non siamo in emergenza, le persone che arrivano sono gestibili in totale sicurezza». La possibile procedura di infrazione? «La trattativa deve essere gestita dal premier e dal ministro dell'Economia. L'Europa ascolterà loro, non le tante voci, minibot sì, minibot no». Il taglio di tasse? «Va fatto in modo equilibrato con la sostenibilità del Paese, senza tagliare su sanità o scuola. A una diminuzione delle tasse non deve corrispondere una diminuzione dei servizi pubblici». Ora, al di là dell'interpretazione politica fin troppo chiara di queste parole (opposizione a Salvini, e un misto di controcanto e avvertimenti a Luigi Di Maio), il punto è che non tocca a Fico gestire nessuno dei dossier che affronta nel colloquio. Non è lui il ministro dell'Interno, e quindi non gli compete affrontare il nodo dell'immigrazione: porti aperti, semiaperti, chiusi o semichiusi. Non è lui il ministro dell'Economia, e quindi non tocca a lui né interloquire con l'Ecofin, né impostare il mix tasse-spesa della prossima legge di stabilità. Ma attenzione, perché ora arriva il bello, quando Fico entra pure nel territorio del capo dello Stato, levandogli il mestiere, peraltro con una frasetta sibillina. Domanda: «Questa maggioranza potrebbe andare avanti con un altro premier?». In un mondo normale, il presidente della Camera dovrebbe astenersi da qualunque considerazione: non compete a lui valutare un'eventuale crisi di governo, la formazione o meno di una maggioranza diversa, fino all'ipotetico scioglimento delle Camere. Al massimo, quando fosse interpellato dal Quirinale in sede di consultazioni formali, potrebbe dare al Colle la sua opinione, come del resto il presidente del Senato. E invece Fico che dice? «Troverei difficile che vada avanti senza Giuseppe Conte. A quel punto bisognerebbe rifare tutto». A parte un congiuntivo rivedibile, la risposta è ambigua: «rifare tutto» può alludere (bene) all'opportunità di ridare la parola agli elettori, ma anche (male) a un nuovo pasticcio parlamentare. Cose (l'una e l'altra) che non tocca a lui né decidere, né provocare, né auspicare. E infine si arriva all'ultima parte dell'intervista, e cioè la più rilevante dal punto di vista di Fico: quella in cui parla del M5s. Accenna agli «errori fatti» (botta a Di Maio), che però gli «interessa poco sciorinare». Insiste su uno «spazio dove tutti possiamo parlare del perché non ha funzionato, di cosa si sta sbagliando, di come elaborare la linea politica collegiale» (altro schiaffone al capo politico grillino). Difesa appassionata di Paola Nugnes («una persona onesta, una combattente»). Fissa la nuova agenda («temi ambientali»), prospetta sciagure se non gli daranno retta («finiremo per essere calpestati»). Assesta uno schiaffetto pure ad Alessandro Di Battista («Non ho parlato con lui. Ma chiedo a tutti di volare alto»). Inutile girarci intorno: la classica intervista in cui un dirigente politico scende in campo, e rivendica una terza seggiola tra quelle occupate dai due litiganti più visibili (Di Maio e Di Battista). Piccolo dettaglio: nell'attuale posizione di Fico, anche le beghe interne di un partito (sia pure il suo) non dovrebbero riguardarlo. Si dirà. Ma anche il presidente della Camera ha libertà di pensiero. Certo, ci mancherebbe, nessuno pensa di conculcarla. Ma non è obbligatorio (non ci sono prescrizioni mediche al riguardo) presiedere Montecitorio: chi voglia esternare a tutto campo, partecipare giorno per giorno alla battaglia politica e di parte, dovrebbe - semplicemente - lasciare un incarico che richiede invece terzietà. Altrimenti si rischia di trasformare quella postazione in uno sgabello, in un microfono, in un palchetto per un comizio che, senza quella carica, godrebbe di minore amplificazione e visibilità.Altra obiezione che sicuramente ci verrà fatta: ma il presidente Fico, come i suoi predecessori, rispetta il regolamento e gestisce i lavori d'Aula in modo corretto. Non ne dubitiamo: e mancherebbe solo che avvenisse il contrario. Ma il presidente della Camera non è solo un portatore di campanella: dovrebbe ogni giorno consentire a qualunque deputato (pro immigrazione, anti immigrazione, pro tasse, anti tasse, insomma di qualunque visione politica) di riconoscersi in una figura istituzionale neutrale. Sta qui il cuore del problema: sottovalutato da troppi, ben prima del caso Fico.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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