2024-02-08
La psicosi del femminismo rosso: stravolgere il codice sullo stupro
L’Europa non poteva imporre direttive vincolanti per i Paesi membri sulla violenza sessuale, perché mancano i fondamenti giuridici. Non è certo una vendetta del patriarcato. Lamenti e strida si levano in questi giorni dal sempre vigile campo del sinistrismo femminista per via dell’avvenuto stralcio, dalla bozza di una direttiva europea in materia di violenza sulle donne, del riferimento alla violenza sessuale, da intendersi, in conformità a quanto affermato nella Convenzione di Istambul dell’11 maggio 2011, come ogni atto sessuale compiuto «su di una persona senza il suo consenso». Lo stralcio, in verità, trova la sua formale giustificazione nell’art. 83 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che consente l’adozione di direttive vincolanti in materia penale nel solo caso, per quanto qui interessa, dello «sfruttamento sessuale della donna e dei minori»; sfruttamento che, in effetti, stando al comune significato del termine, ben difficilmente appare ravvisabile nella violenza sessuale, essendo questa finalizzata al solo soddisfacimento di pulsioni erotiche e non al conseguimento di utilità economiche. Ma così non la pensa, ad esempio, Linda Laura Sabbadini che, su La Repubblica del 1 febbraio u.s., si chiede retoricamente, postulando la risposta positiva: «lo stupro non è forse una forma di sfruttamento sessuale?». E la risposta positiva viene, infatti, a stretto giro di posta, da Maria Grazia Giammarinaro che, su Domani del 3 febbraio u.s., cita a sostegno un «accordo politico» che sarebbe intervenuto nel Parlamento europeo, nell’ambito della progettata revisione della vigente direttiva sulla tratta di esseri umani; accordo secondo il quale, tra gli scopi di sfruttamento che debbono caratterizzare la tratta, sarebbero da inserire anche i matrimoni forzati e le adozioni illegali. Dal che dovrebbe desumersi - si afferma - una «tendenza degli organi europei […] verso un allargamento della nozione di sfruttamento, che non è più inteso solo come vantaggio ingiusto (di carattere economico o di altro genere) derivante da una prestazione altrui, sessuale, lavorativa o di altro tipo, ma finisce col comprendere qualunque uso strumentale di un’altra persona realizzato allo scopo di conseguire una finalità propria di chi commette la strumentalizzazione, ed estranea alla volontà della vittima».Ora, a parte la singolarità dell’assunto secondo il quale l’interpretazione di un concetto giuridico andrebbe condotta sulla base di quanto stabilito in non meglio precisati «accordi politici», finora non tradotti in disposizioni normative, va poi osservato che, seguendo il suddetto ragionamento, la nozione di «sfruttamento» verrebbe a perdere ogni connotazione di specificità, quale invece assolutamente necessaria ogni qual volta un qualunque termine venga usato per definire una fattispecie penale. Si potrebbe dire, infatti, che è sottoposta a «sfruttamento» anche la vittima di reati quali, ad esempio, il furto, la rapina, la truffa, le lesioni personali, la diffamazione, dal momento che anch’essa viene necessariamente «strumentalizzata» dal colpevole per la realizzazione di un suo interesse, a scapito dei diritti della persona offesa, a tutela dei quali sono previsti i suddetti reati. E ciò senza contare che la vigente direttiva n. 36/2011 sulla tratta di esseri umani già comprende, tra le finalità di sfruttamento delle vittime, quella costituita dallo «sfruttamento della prostituzione altrui» o da «altre forme di sfruttamento sessuale». Se si fosse voluto, quindi, considerare «sfruttamento» anche la violenza sessuale, si sarebbe presumibilmente proposta una diretta integrazione della norma in tal senso, piuttosto che inserire tra le finalità di sfruttamento i matrimoni forzati e le adozioni illegali. Va da sé, naturalmente, che siffatte argomentazioni non potrebbero mai avere alcuna presa su quanti la pensano come i circa venti deputati che, al seguito dell’immancabile Laura Boldrini hanno inviato, qualche giorno fa, un appello alla premier Giorgia Meloni perché, in sede europea, si adoperi per impedire quella che, altrimenti, a loro dire, sarebbe la cancellazione del concetto secondo cui «il rapporto sessuale senza consenso è stupro». È questa una preoccupazione che, in realtà, non ha il benché minimo fondamento giuridico, giacché, senza bisogno della Convenzione di Istambul o di direttive europee, nessuno si è mai sognato di sostenere che possa considerarsi lecito un atto sessuale compiuto senza il consenso del «partner». Ma la vera preoccupazione dei firmatari dell’appello è, con ogni evidenza, un’altra: quella, cioè, che si smonti l’idea, corrente nella galassia del femminismo «rampante» e delle forze politiche che lo sostengono, secondo cui dovrebbe essere sempre e comunque il maschio a dimostrare che vi è stato consenso da parte della donna; il che, però, è del tutto contrario ad una corretta interpretazione della vigente normativa penale. Il rapporto sessuale, infatti, non costituisce certo, di per sé, un reato, ma può diventarlo, ai sensi dell’art. 609 bis del cod. pen., solo qualora venga realizzato mediante «violenza o minaccia». Ciò comporta che, quando, in assenza di una vera e propria costrizione fisica, si voglia far consistere la violenza nel solo fatto che il maschio agisca senza il consenso della donna, grava sulla pubblica accusa, secondo le regole generali del diritto penale, l’onere di dimostrare non solo che sia mancata ogni forma, anche tacita, di consenso, ma anche che di tale mancanza il maschio imputato non abbia potuto non rendersi conto; in caso contrario, infatti, la punibilità sarebbe comunque da escludere per difetto, in chi ha commesso il fatto, del dolo, cioè della coscienza e volontà di agire contro l’altrui volontà. E la mancanza del consenso non può, a rigore, neppure ritenersi dimostrata per il solo fatto che la donna sia apparsa inizialmente indisponibile al rapporto sessuale, occorrendo invece che, tenuto conto di tutte le circostanze del caso, risulti anche da escludere che l’apparente indisponibilità fosse dettata soltanto dalla naturale, antica (e, presumibilmente, non del tutto scomparsa) ritrosia femminile a mostrare una troppo facile condiscendenza agli approcci sessuali del maschio, ai quali, tuttavia, non si abbia la ferma intenzione di opporre un effettivo rifiuto. Si tratta di regole ben note a chiunque sappia qualcosa di diritto penale ma delle quali ci si dimentica o si finge di dimenticarsi per perseguire un obiettivo che, in realtà, non è affatto quello, sacrosanto, di difendere le donne dalla violenza maschile, ma è invece quello, inconfessato, di instillare nella generalità dei maschi la sensazione che l’approccio con l’altro sesso sia un’impresa comunque a rischio di conseguenze giudiziarie, per cui, in linea di massima, sarebbe meglio, per prudenza, astenersene; il che risulta del tutto funzionale all’ulteriore obiettivo di ridurre, fino, possibilmente ad azzerarla, la riproduzione della specie umana, essendo questa da considerarsi, secondo l’estremismo ecologista, stretto alleato di quello femminista, il «cancro del pianeta».Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di Cassazione
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.