2023-11-25
Altro che patriarcato, questa è lotta alla famiglia
Le turbofemministe che oggi scendono in piazza per ricordare Giulia Cecchettin e dichiarare guerra ai maschi, si arrabbiano se glielo si dice, ma sono le più formidabili alleate di Filippo Turetta. Accusandolo di essere il «figlio sano del patriarcato», di essere cresciuto in una società «pregna della cultura dello stupro», di essere come tutti gli altri uomini, cioè possessivi e violenti, le donne che oggi dicono di voler «bruciare tutto» stanno fornendo all’assassino di Giulia una straordinaria attenuante. Non so se i magistrati che dovranno giudicarlo per il sequestro e l’omicidio di quella minuta ragazza ne terranno conto, ma se anche non dovesse influire sul processo, già il fatto che il delitto sia inquadrato in un contesto sociale, fornisce quantomeno a Turetta una scappatoia dalle proprie responsabilità.«La smetta di dire che noi stiamo fornendo un alibi all’assassino di Giulia», mi ha urlato stizzita Marta Collot, malmostosa portavoce di Potere al popolo. Lo so, la verità dà fastidio. Ma l’uso strumentale che si sta facendo del delitto di Vigonovo porta con sé proprio queste conseguenze e immaginando che perfino dei magistrati possano ritenere che il contesto, la società patriarcale, abbiano avuto qualche influenza nell’armare la mano di Filippo, ne deriva che la responsabilità non è tutta sua. Del resto, non è quello che ha detto già un pm chiamato a valutare un caso di violenza domestica? A Brescia, per un uomo originario di un Paese islamico che aggrediva e umiliava la propria moglie, la Procura ha chiesto il proscioglimento con la motivazione che nel contesto da cui proveniva, picchiare la propria consorte non è ritenuto reato e in fondo la stessa donna per un certo periodo aveva accettato le violenze. Sì, non è la prima volta che nelle aule giudiziarie si entra nel contesto in cui è maturato un delitto. Anche se la Cassazione, con pronunciamenti di ultima istanza, ha sempre respinto l’idea che l’ambiente familiare e sociale possa essere la giustificazione di un comportamento violento nei confronti del proprio partner o anche solo nelle relazioni con altri, i tribunali non di rado si esprimono diversamente. Basti pensare a ciò che è accaduto pochi mesi fa, quando un giudice delle indagini preliminari ha assolto due imputati accusati di violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza durante una festa di paese. Secondo il magistrato, i giovani hanno sì stuprato la diciottenne, ma per errore, perché non avrebbero percepito il rifiuto della ragazza, alterata dall’assunzione di alcol e marijuana. A parere del gip, i due avrebbero agito colposamente (e non dolosamente) «ponendo in essere una condotta certamente incauta, ma non con la piena consapevolezza della mancanza di consenso della ragazza o della sua preponderante alterazione psicofisica». Insomma, non si sono resi conto. Qui il contesto è ad alta gradazione alcolica, ma poco cambia ai fini del discorso, perché se la situazione può attenuare la percezione di un reato (come picchiare la moglie o stuprare una giovane), allora insistere con questa storia del «figlio sano di un sistema patriarcale» contribuisce soltanto a colpevolizzare la società maschile, deresponsabilizzando almeno in parte il vero colpevole, cioè l’assassino di Giulia.Peraltro, poche settimane fa la Corte costituzionale ha cassato una parte dell’articolo 577 del Codice penale, cioè del cosiddetto codice rosso, ritenendo che nel caso esista un legame familiare o sentimentale fra la vittima e il suo carnefice, non si applicano automaticamente le aggravanti, ma il giudice è chiamato a valutare anche l’esistenza di eventuali attenuanti al comportamento dell’omicida. Probabilmente, non sarà il caso dell’assassinio di Giulia, perché la ragazza uccisa da Filippo Turetta, come è evidente anche da un suo audio ritrovato dopo l’omicidio, ha il solo torto di essersi preoccupata delle possibili azioni autolesionistiche del suo ex fidanzato. Di certo non lo ha provocato, né ha messo in atto atteggiamenti che abbiano anche in minima parte scatenato la furia omicida.Però, siccome nei tribunali ne abbiamo viste di tutti i colori, compresa la recente assoluzione di un bidello accusato di aver molestato una studentessa, con la bizzarra motivazione che «la repentinità dell’azione, senza alcun insistenza nel toccamento, non consente di configurare l’intento libidinoso o di concupiscenza» (l’uomo ha semplicemente infilato le mani dentro i pantaloni e poi sotto gli slip della ragazza), mi porta a ritenere che il caso di Giulia deve rimanere un’indagine per omicidio e non un’indagine sociologica. Trasformare un delitto in un processo al maschio rischia infatti di rivelarsi un boomerang e, soprattutto, un’azione smaccatamente politica. Gli uomini hanno molti torti, ma pensare che siano in parte responsabili - tutti, nessuno escluso - della morte di una ragazza di 22 anni che è stata uccisa da un coetaneo è un’operazione di puro fanatismo, che ha come conseguenza non tanto la delegittimazione dei maschi, ma della famiglia tradizionale di cui i maschi sono una delle due parti. L’obiettivo è sempre il solito: sostenere che il male si annida lì, nel nucleo composto da un uomo e una donna. Per questo si sono inventati i legami queer e tutte le altre belle idee che porta con sé l’ideologia gender. Non è la società patriarcale che vogliono abbattere (anche perché ormai non esiste più), ma quella famigliare.
Little Tony con la figlia in una foto d'archivio (Getty Images). Nel riquadro, Cristiana Ciacci in una immagine recente
«Las Muertas» (Netflix)
Disponibile dal 10 settembre, Las Muertas ricostruisce in sei episodi la vicenda delle Las Poquianchis, quattro donne che tra il 1945 e il 1964 gestirono un bordello di coercizione e morte, trasformato dalla serie in una narrazione romanzata.