2021-05-09
Se la fede guida la sete di giustizia. L’esempio del giudice martire e beato
Rosario Livatino venne ucciso il 21 settembre 1990 dalla Stidda agrigentina. Il magistrato rappresenta un punto di riferimento anche morale per la sua dedizione al lavoro, lontano da correnti e guerre intestine.Qual è l'unicum di Rosario Livatino? Che cosa ha da insegnare a chi oggi indossa la toga in un qualsiasi ufficio giudiziario, e in particolare in quelli maggiormente esposti alla repressione della criminalità? Ogni santo ha qualcosa di esemplare, anche sul piano civile e secolare: in che cosa è di esempio il primo magistrato dell'epoca moderna portato sugli altari?[…] Rosario Livatino è un modello per ogni magistrato perché, pur non lavorando in un ufficio giudiziario di rilievo istituzionale, e ancor meno mediatico, incarna in sé le doti che ci si attende da chiunque indossi una toga e pronunci decisioni «in nome del popolo italiano». […]Uno dei limiti più frequenti del lavoro giudiziario odierno è riassumibile nella parola «sciatteria», che vuol dire scarsa cura del magistrato per la preparazione e per l'aggiornamento, e al tempo stesso approssimazione nella redazione dei provvedimenti e nel rispetto dei termini. Il lavoro svolto da Livatino, per come è ricostruibile dalle pronunce che ha esteso, rende evidente il tempo e le energie che egli dedicava non soltanto alla ricostruzione del fatto di volta in volta sottoposto al suo esame, bensì pure all'inquadramento delle questioni di diritto che quel fatto richiamava. […]Livatino pone nel lavoro la stessa cura che riserva alla sobria vita personale e familiare. È commovente, sfogliando le pagine della sua agenda, cogliere quanto tenga a non perdere una sola delle ricorrenze dei genitori, fossero compleanni, onomastici o anniversario di nozze: oltre che per la data fissata, egli annota la ricorrenza una settimana/dieci giorni prima, probabilmente per non giungere impreparato al giorno stabilito. Lo stesso accade per le scadenze private di natura più strettamente religiosa, come il ricorso al sacramento della Confessione o la frequenza della Messa. È per questo che quando trasferisce al lavoro lo stile che ha imposto per seguire i propri affetti, il tutto avviene senza forzature, essendo di volta in volta più importante esattamente ciò che ha davanti. […]Per Rosario Livatino essere magistrato non è un lavoro qualsiasi. Lo dice a chiare lettere nella conferenza Fede e diritto, che rivela come per lui rendere giustizia sia una forma superiore di carità verso il prossimo: «Il compito dell'operatore del diritto, del magistrato è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio». […]Il riconoscimento del martirio di Livatino e la sua beatificazione illuminano sul significato del lavoro del giudice: la sua figura permette di vedere incarnato nella funzione l'evangelico «Non giudicate per non essere giudicati». L'area del «non giudicare» coincide con l'arbitraria, e non autorizzata, valutazione etica della vita di una persona, non già col raffronto fra gli specifici atti della sua condotta - indicati dall'accusa come illeciti - e le norme di legge. Quell'invito esorta pertanto alla professionalità, all'approfondimento del fatto concreto per il quale la persona è chiamata in giudizio, alla verifica della sua corrispondenza alla norma: è l'essenza del lavoro del magistrato, chiamato a mettere da parte visioni ideologiche, risentimenti personali, condizionamenti di carriera. È stata l'essenza del lavoro di Livatino.Fra quelle virtù, divenute indice di santità, vi è anzitutto il riserbo: per Rosario il giudice parla coi suoi provvedimenti e, al di fuori di questi, su di essi non ha nulla da dire. In dodici anni di attività non ha mai rilasciato un'intervista, non ha mai preso parte a un programma tv, non si è mai lasciato sfuggire un'indiscrezione, una valutazione, un'anticipazione su ciò di cui si occupava, al punto che le poche immagini video che lo ritraggono si riferiscono a una cerimonia privata nella quale era ospite: a confronto di chi è abituato a depositare atti di indagine nelle redazioni dei giornali prima ancora che nella segreteria dell'ufficio o in cancelleria… Un costume diffuso già trenta e più anni fa, con l'ostentazione mediatica degli arresti, con la propalazione delle indagini avviate senza aver svolto un minimo di accertamenti, con iniziative - dalle perquisizioni, ai sequestri - volte a determinare la condanna a mezzo stampa, a prescindere dalle verifiche giudiziarie. […]Il «sistema» venuto alla luce dagli scandali che recentemente hanno interessato la magistratura dà lo spaccato di un equivalente contemporaneo della «lotta per le investiture», con magistrati impegnati a contendersi posti di vertice degli uffici giudiziari, e a tal fine a frequentare salotti e hotel insieme con esponenti di partiti politici e potenti di ogni genere e provenienza. La stima di cui Rosario godeva nel circondario di Agrigento era talmente elevata, nonostante l'età, che egli era stato designato per ben due volte segretario della sottosezione agrigentina dell'Associazione nazionale magistrati, pur «non condividendo», come ricorda Salvatore Cardinale, con lui alla Procura di Agrigento, «la separazione in correnti e paventando il sospetto della politicizzazione che tale divisione poteva far nascere in qualcuno». Sarebbe però riduttivo limitarsi a dire che Livatino rifuggiva le correnti, tanto che non aveva aderito ad alcuna di esse. Egli ha fatto di più: ha colto già da allora la voce principale della questione morale riguardante - oggi come in quegli anni - la magistratura italiana: oltre all'aspirazione angosciante a ricoprire posti di vertice, oltre alla spartizione correntizia degli incarichi, la pretesa di superiorità etica del magistrato, quell'«attivismo giudiziario» che decide che esistono vuoti normativi, e che punta a colmarli andando oltre i confini dell'interpretazione, per giungere all'«invenzione del diritto» - è il titolo significativo del recente libro dell'ex presidente della Consulta Paolo Grossi -, cioè alla creazione normativa vera e propria. […]«L'indipendenza del giudice», [ha scritto Rosario Livatino], «non è solo nella propria coscienza, nell'incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio […] ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza».