Qual è l'unicum di Rosario Livatino? Che cosa ha da insegnare a chi oggi indossa la toga in un qualsiasi ufficio giudiziario, e in particolare in quelli maggiormente esposti alla repressione della criminalità? Ogni santo ha qualcosa di esemplare, anche sul piano civile e secolare: in che cosa è di esempio il primo magistrato dell'epoca moderna portato sugli altari?
[…] Rosario Livatino è un modello per ogni magistrato perché, pur non lavorando in un ufficio giudiziario di rilievo istituzionale, e ancor meno mediatico, incarna in sé le doti che ci si attende da chiunque indossi una toga e pronunci decisioni «in nome del popolo italiano». […]
Uno dei limiti più frequenti del lavoro giudiziario odierno è riassumibile nella parola «sciatteria», che vuol dire scarsa cura del magistrato per la preparazione e per l'aggiornamento, e al tempo stesso approssimazione nella redazione dei provvedimenti e nel rispetto dei termini. Il lavoro svolto da Livatino, per come è ricostruibile dalle pronunce che ha esteso, rende evidente il tempo e le energie che egli dedicava non soltanto alla ricostruzione del fatto di volta in volta sottoposto al suo esame, bensì pure all'inquadramento delle questioni di diritto che quel fatto richiamava. […]
Livatino pone nel lavoro la stessa cura che riserva alla sobria vita personale e familiare. È commovente, sfogliando le pagine della sua agenda, cogliere quanto tenga a non perdere una sola delle ricorrenze dei genitori, fossero compleanni, onomastici o anniversario di nozze: oltre che per la data fissata, egli annota la ricorrenza una settimana/dieci giorni prima, probabilmente per non giungere impreparato al giorno stabilito. Lo stesso accade per le scadenze private di natura più strettamente religiosa, come il ricorso al sacramento della Confessione o la frequenza della Messa. È per questo che quando trasferisce al lavoro lo stile che ha imposto per seguire i propri affetti, il tutto avviene senza forzature, essendo di volta in volta più importante esattamente ciò che ha davanti. […]
Per Rosario Livatino essere magistrato non è un lavoro qualsiasi. Lo dice a chiare lettere nella conferenza Fede e diritto, che rivela come per lui rendere giustizia sia una forma superiore di carità verso il prossimo: «Il compito dell'operatore del diritto, del magistrato è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio». […]
Il riconoscimento del martirio di Livatino e la sua beatificazione illuminano sul significato del lavoro del giudice: la sua figura permette di vedere incarnato nella funzione l'evangelico «Non giudicate per non essere giudicati». L'area del «non giudicare» coincide con l'arbitraria, e non autorizzata, valutazione etica della vita di una persona, non già col raffronto fra gli specifici atti della sua condotta - indicati dall'accusa come illeciti - e le norme di legge. Quell'invito esorta pertanto alla professionalità, all'approfondimento del fatto concreto per il quale la persona è chiamata in giudizio, alla verifica della sua corrispondenza alla norma: è l'essenza del lavoro del magistrato, chiamato a mettere da parte visioni ideologiche, risentimenti personali, condizionamenti di carriera. È stata l'essenza del lavoro di Livatino.
Fra quelle virtù, divenute indice di santità, vi è anzitutto il riserbo: per Rosario il giudice parla coi suoi provvedimenti e, al di fuori di questi, su di essi non ha nulla da dire. In dodici anni di attività non ha mai rilasciato un'intervista, non ha mai preso parte a un programma tv, non si è mai lasciato sfuggire un'indiscrezione, una valutazione, un'anticipazione su ciò di cui si occupava, al punto che le poche immagini video che lo ritraggono si riferiscono a una cerimonia privata nella quale era ospite: a confronto di chi è abituato a depositare atti di indagine nelle redazioni dei giornali prima ancora che nella segreteria dell'ufficio o in cancelleria… Un costume diffuso già trenta e più anni fa, con l'ostentazione mediatica degli arresti, con la propalazione delle indagini avviate senza aver svolto un minimo di accertamenti, con iniziative - dalle perquisizioni, ai sequestri - volte a determinare la condanna a mezzo stampa, a prescindere dalle verifiche giudiziarie. […]
Il «sistema» venuto alla luce dagli scandali che recentemente hanno interessato la magistratura dà lo spaccato di un equivalente contemporaneo della «lotta per le investiture», con magistrati impegnati a contendersi posti di vertice degli uffici giudiziari, e a tal fine a frequentare salotti e hotel insieme con esponenti di partiti politici e potenti di ogni genere e provenienza. La stima di cui Rosario godeva nel circondario di Agrigento era talmente elevata, nonostante l'età, che egli era stato designato per ben due volte segretario della sottosezione agrigentina dell'Associazione nazionale magistrati, pur «non condividendo», come ricorda Salvatore Cardinale, con lui alla Procura di Agrigento, «la separazione in correnti e paventando il sospetto della politicizzazione che tale divisione poteva far nascere in qualcuno». Sarebbe però riduttivo limitarsi a dire che Livatino rifuggiva le correnti, tanto che non aveva aderito ad alcuna di esse. Egli ha fatto di più: ha colto già da allora la voce principale della questione morale riguardante - oggi come in quegli anni - la magistratura italiana: oltre all'aspirazione angosciante a ricoprire posti di vertice, oltre alla spartizione correntizia degli incarichi, la pretesa di superiorità etica del magistrato, quell'«attivismo giudiziario» che decide che esistono vuoti normativi, e che punta a colmarli andando oltre i confini dell'interpretazione, per giungere all'«invenzione del diritto» - è il titolo significativo del recente libro dell'ex presidente della Consulta Paolo Grossi -, cioè alla creazione normativa vera e propria. […]
«L'indipendenza del giudice», [ha scritto Rosario Livatino], «non è solo nella propria coscienza, nell'incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio […] ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori le mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità a iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza».
Snodo fondamentale per delineare le linee di forza dell'evoluzione del panorama storico della magistratura italiana è rappresentato senz'altro dalla nascita di Magistratura democratica avvenuta nel 1964.
Pur rivendicando, anche statutariamente, una propria autonomia rispetto all'Associazione nazionale magistrati, Magistratura democratica considererà quest'ultima come la leva indispensabile per la compiuta realizzazione della strategia gramsciana nell'ambito della giurisdizione; una giurisdizione intesa siccome «diretta ad aprire e legittimare a livello legale […] nuovi e più ampi spazi di lotte delle masse in vista di nuovi ed alternativi assetti di potere».
«Lo Stato borghese», verrà affermato nel corso del congresso nazionale di Md del 1977 (e la data non è casuale), « non può sopravvivere senza la repressione e noi di Magistratura democratica dobbiamo dire se vogliamo stare dalla parte di chi ci utilizza per questa manovra o quella dei cosiddetti devianti, che lo sono non per colpa loro ma del sistema. Diciamo se vogliamo essere compagni che lottano per il socialismo o magistrati che al massimo possono dare una mano: ma questo sarebbe il marxismo dei fratelli Marx».
C'è dunque un gruppo organizzato di magistrati che rivendica a sé la funzione di cinghia di trasmissione tra magistratura e gli altri soggetti politici, non solo partitici; che difende e sostiene la politicità del magistrato. Accanto a questo collateralismo ideologico, apertamente sostenuto dai magistrati democratici, non può tacersi il silente operare di un collateralismo politico occulto, animato da centri di potere o da interessi personalistici, che spesso contribuirà a depotenziare l'azione delle altre correnti, favorendo l'egemonia culturale e la proclamata superiorità morale di Md.
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Altro snodo fondamentale nella storia delle correnti, e non solo, è rappresentato dalla fine della cosiddetta prima Repubblica. Con Tangentopoli la magistratura cessa di avere un rapporto di collateralità, comunque paritario con la politica, e finisce con l'assumere un ruolo preponderante rispetto a quest'ultima; non si tratta più di un giudice che fa politica (seppur sotto l'ombrello del richiamo alla costituzione materiale), ma di un giudice che ritiene di essere investito della missione di giudicare la politica stessa e non solo gli atti dei politici, se di rilievo penale.
Significativo di questo radicale mutamento di prospettiva è il rapporto intercorrente fra magistratura e Partito comunista italiano. Con l'esplosione di Tangentopoli, il Partito comunista individua nella magistratura lo strumento più incisivo per portare a compimento quel lungo processo di conquista del potere formale, spazzando via quel che rimaneva della cosiddetta prima Repubblica. Tuttavia, è lo stesso Pci che dovrà fare, di lì a poco, i conti con la meccanica del processo innescato. […]
Al contempo, andavano maturando gli effetti di un significativo mutamento ordinamentale derivante dalla riforma del processo penale, che metteva il pubblico ministero al centro del panorama dell'intera giurisdizione; non sarà, dunque, un caso se da allora in poi i principali esponenti della magistratura associata e delle correnti saranno pubblici ministeri, e fra questi quelli assurti agli onori della cronaca grazie anche ad un rapporto che si fa sempre più stretto con gli organi di informazione.
Il dopo-tangentopoli segna, in definitiva, l'avvio di un conflitto fra politica e magistratura che diviene sempre più sistemico e che finisce con il cambiare anche la funzione delle correnti. Questi gruppi, infatti, iniziano a coagularsi attorno ad un comune denominatore: la difesa corporativa della magistratura intesa come il supremo baluardo della difesa della legalità (ora intesa in senso conservativo), «per impedire», sono le parole di Roberto Scarpinato su La Repubblica del'11.5.2016, «che il pendolo della storia tornasse indietro a causa delle pulsioni autoritarie della parte più retriva della classe dirigente e del ritardo culturale delle masse». […]
La giurisdizione si erge a supremo potere con connotazioni di superiorità etica. Alla giurisdizione si guarda per stabilire la stessa moralità dei comportamenti, in un contesto oramai orfano di qualsivoglia principio oggettivo. […]
A partire dagli inizi del nuovo millennio, […] la platea dei magistrati va arricchendosi sempre più di giovani dalla mentalità post-ideologica, attenti soprattutto al proprio status e alla carriera. […] In tale contesto le correnti subiscono una lenta ma inesorabile mutazione: si presentano sempre più come compagnie di assicurazione e di sostegno nella scalata ad incarichi di vertice. Diventano, perciò, maggioritari quei gruppi che, più degli altri, si mostrano capaci di assicurare benefici e prebende. […] Questo, in sintesi, l'ambiente ed il contesto che prelude al trojan ed alla cosiddetta vicenda Palamara. […]
I giudici sono chiamati a incarnare la missione loro assegnata da quella parte della dottrina che ritiene che le questioni attinenti in particolare al bio-diritto non possano essere affidate alle mutevoli maggioranze parlamentari ma vadano attribuite a chi è capace di assecondare la nuova corrente antropologica.
A fronte della necessità [...] di porre vincoli e limiti alla discrezionalità interpretativa e di adottare criteri predefiniti di decisione, vi è chi non esita a ritenere che sia in atto un ineluttabile passaggio dalla centralità delle fonti alla centralità dell'interpretazione o delle interpretazioni, dal momento potestativo e autoritativo del diritto a quello applicativo; con tutto quel che ne consegue sulla funzione della giurisdizione, che viene sempre più intesa come esercitata non «in nome del popolo italiano», ma in vece del popolo italiano.




