2025-09-08
«Fare la guerra è nella nostra natura»
Lo studioso Gianluca Sadun Bordoni: «L’aggressività di coalizione ha dato vantaggi evolutivi ai gruppi che la esercitavano: la capacità di aggregarsi in società nasce da lì, come aveva intuito Freud. L’umanità diventa più pacifica. Ma gli Stati no».Perché gli uomini continuano ad ammazzarsi? Perché, nonostante la memoria di orrori e massacri, ci ritroviamo ancora a temere lo spettro di un terzo conflitto globale? Qual è il mistero oscuro del «legno storto» dell’umanità? Sono alcune delle domande alle quali, attingendo alle ultime scoperte archeologiche e antropologiche, cerca di rispondere il saggio Guerra e natura umana. Le radici del disordine mondiale, edito dal Mulino e presto disponibile anche in inglese, per i tipi del prestigioso editore De Gruyter Brill. L’autore è Gianluca Sadun Bordoni, ordinario di filosofia del diritto all’università di Teramo.Dunque, professore: la guerra fa parte della natura umana?«La risposta è sì, con due precisazioni. Cominciamo dalla definizione: la guerra è aggressività di coalizione. Un comportamento raro nel mondo animale, ristretto ad alcune specie di primati e ad alcuni carnivori sociali».Ma la violenza tra conspecifici esiste nel regno animale. «Quella individuale è molto diffusa; è quella di coalizione a essere rara».Poi?«Poi c’è un secondo caveat: affermare che la guerra faccia parte della natura umana non equivale a considerare la guerra un “istinto”».Non lo è?«Non nel senso in cui lo sono la fame o il sesso. Immaginiamo che vengano eliminate tutte le cause più comuni dei conflitti, dalle dispute territoriali alla scarsità delle risorse; la guerra verosimilmente sparirebbe».È molto probabile.«Se invece scomparissero le risorse alimentari, non scomparirebbe la fame. La guerra è un comportamento naturale, ma rischioso e sempre soggetto a una logica costi/benefici. Fermo restando che il calcolo può andare incontro a clamorosi errori: la seconda guerra mondiale ne è un esempio lampante».La guerra è un comportamento evolutivamente efficace?«Non c’è dubbio: se la guerra fosse radicalmente disfunzionale, sarebbe stata selezionata negativamente. Al netto della recente costruzione di arsenali che potrebbero cancellare l’umanità, finora la guerra ha prosperato perché ha procurato dei vantaggi».Il «buon selvaggio», allora, non è mai esistito?«È un mito definitivamente sepolto. Ecco in che senso si può affermare che la guerra faccia parte della natura umana. Precisando tuttavia che la natura umana non è un’idea platonica, ma un prodotto dell’evoluzione».Paradossalmente, la guerra ha favorito la socialità?«Questo è un punto cruciale, perché di solito si mettono in contrapposizione due comportamenti che sono entrambi tipici della specie umana, cooperazione e conflitto, quasi come se la tendenza cooperativa fosse l’antidoto a quella conflittuale. L’ipotesi - se vogliamo micidiale - di Charles Darwin fu invece che la cooperazione si è evoluta perché funzionale al conflitto: negli scontri, che caratterizzano la nostra specie sin dagli albori, come conferma l’antropologia contemporanea, i gruppi coesi avevano più successo di quelli incapaci di cooperare. E questo avrebbe favorito l’emersione di caratteri prosociali».Darwin aveva ragione?«La posizione di Darwin, che ovviamente non poteva conoscere la genetica, va integrata con ipotesi avanzate più di recente, per spiegare come l’aggressività individuale sia stata ridotta nel corso dell’evoluzione».E com’è accaduto?«Qui rientra il tentativo che faccio nel libro di attualizzare l’antropologia di Sigmund Freud, la cui idea era che la nostra sarebbe una specie autodomesticata».Che vuol dire?«Gli uomini avrebbero appreso a eliminare gli individui aggressivi attraverso la cooperazione di gruppo: i maschi beta avrebbero scoperto il potere della coalizione per eliminare il maschio alfa. E questo avrebbe prodotto una selezione negativa dell’aggressività reattiva, ottenuta tramite l’intensificazione dell’aggressività proattiva di coalizione. È proprio questa l’intuizione che ha Freud in Totem e tabù».Collocherebbe la sua tesi nel quadro della tradizione del realismo politico?«Il mio tentativo è di riproporre, all’interno del realismo politico, il problema della natura umana, che era stato cassato dal neorealismo americano affermatosi dagli anni Settanta in avanti, presentandolo però sotto un profilo scientifico: l’antropologia evoluzionistica laddove c’era la metafisica».C’è un nesso tra le coalizioni di beta contro l’alfa - e tra gruppi contro un gruppo dominante - e la tendenza degli Stati a cercare di controbilanciare la potenza dell’egemone? «In un certo senso sì. Alla radice dell’aggressività di coalizione c’è l’imbalance of power: quando un gruppo verifica la presenza di un vantaggio, tende ad attaccare. Da questo punto di vista, la pace consiste essenzialmente nella deterrenza, nella capacità di ricostruire un equilibrio di potenza. Ma sono cauto sulla possibilità di trasferire sic et simpliciter la dimensione naturalistica all’esame delle relazioni internazionali. La logica dell’equilibrio di potenza non può essere presentata banalmente come una tendenza naturale: l’analisi va calata nella realtà storica».Si può dire, però, che gli ordini internazionali che durano meno sono quelli basati sul dominio di un egemone?«Ci sono due forme di pace: la pace egemonica e la pace di equilibrio. La mia tesi, molto hobbesiana, è che la distribuzione naturale del potere nella specie umana non genera un ordine sociale stabile. Il nostro destino è quello di una perenne tempesta».Insomma, esisteranno sempre le cosiddette potenze revisioniste. Quelle che sfidano l’ordine costituito. «Non c’è dubbio: esisteranno sempre tentazioni egemoniche e tentativi di contrapporvi coalizioni contro-egemoniche. Dopodiché, quale ordine è più stabile? Ci sono stati ordini egemonici durevoli, come la pax romana, mentre altri sono stati più precari, come la pax americana; così come vi sono state paci di equilibrio più durature, come fu quella westfaliana, e paci di equilibrio più fragili. Si possono individuare alcune regolarità. Ad esempio: quanto più devastante è una guerra, tanto più lungo sarà il periodo di pace che le seguirà. Ma leggi alla stregua di quelle naturali, no».La specie umana è diventata più pacifica? A un certo punto, sulla scorta degli studi di autori molto in voga, tipo Steven Pinker, è andato di moda sostenerlo.«Pinker ha dei grandi meriti: anche lui sostiene la necessità di tornare ad attingere alla storia naturale per spiegare i fenomeni sociali. Ma nel Declino della violenza - il testo cui lei fa riferimento - sostiene una tesi per metà corretta e per metà sbagliata. La parte corretta è che, in effetti, abbiamo assistito a una riduzione dei fenomeni violenti. Basti pensare al calo del tasso di omicidi, o alla mitigazione dei sistemi penali».E la parte sbagliata?«Pinker ritiene che il declino della violenza, dalla violenza tra individui, si sarebbe trasferito anche alla violenza tra Stati, cioè alla guerra. Ma il punto è che il declino del primo tipo di violenza è proprio un effetto dell’azione dello Stato; mentre, nelle relazioni internazionali, non esiste un super Leviatano che possa mantenere l’ordine e garantire la pace».Con il tramonto dell’egemonia americana, verso quale ordine internazionale stiamo andando?«Il nodo è capire se a un nuovo ordine si arriverà attraverso un’altra guerra mondiale oppure no. Per il momento, stiamo vedendo la crescita del disordine e assistiamo a un fenomeno molto preoccupante: la disgregazione dell’unità dell’Occidente. Su questo, io sono abbastanza pessimista».Perché?«Se viene meno l’unità euroatlantica, o addirittura si allenta la certezza dell’operatività della Nato, le tensioni all’interno dell’Europa si moltiplicheranno e ognuno andrà per conto suo, dalla Germania alla Polonia. Il che sottoporrebbe l’Ue a pressioni fortissime».Si può pensare a un riarmo europeo che non coincida con il riarmo dei singoli Stati?«L’idea di una difesa europea si può esplorare, ma è difficile. Non penso però che sia irrealistico immaginare che un gruppo di Paesi, come i volenterosi, assuma la guida di quella difesa, garantendo la preservazione della libertà del sistema degli Stati europei e anche la tenuta dell’Ue, sia pure soltanto economico-giuridica e non politica. Dandoci il tempo - almeno 20 anni! - per riorganizzarci senza l’America».Anche per iniziare una terza guerra mondiale servirebbe un calcolo costi/benefici. Quanto conta la stoffa dei leader?«Nelle prime due, i leader non hanno dato grandissima prova di sé. Il vero problema è il rapporto tra leadership politica e leadership militare: i politici che non capiscono nulla di cose militari rischiano di combinare grossi guai. Il ruolo della grande leadership politica è ambiguo e, da un certo punto di vista, persino pericoloso. Però io credo che la guerra del futuro, se ci sarà, somiglierà molto a quella che vediamo in Ucraina: una lunga guerra di logoramento. Anche quella, ipotetica, tra Usa e Cina».Niente olocausto nucleare?«Non credo a chi evoca lo scenario Armageddon. Ma tutto ciò attribuisce un peso enorme, più che ai leader, al potenziale economico bellico: servirebbero un’industria e una ricerca scientifica capaci di sostenere gli enormi costi di una guerra che si fa sempre più tecnologica».Non siamo messi benissimo su questo fronte.«Rispetto alla Cina, partiamo in svantaggio».
Daniel Ortega (Getty Images)
Il governo guidato dalla coppia sandinista Ortega-Murillo ha firmato accordi commerciali con la Repubblica di Donetsk, rafforzando il legame con Mosca e Pechino. Una scelta politica che rilancia il ruolo di Ortega nella geopolitica del Sud globale, tra repressione interna e nuove alleanze.
Abiy Ahmed e Giorgia Meloni (Ansa)