
Chi non accetta l’ordine imposto dalla sinistra è un nemico. Identico al malefico zar ormai bollato come un «fascista».Il problema, al solito, non è Vladimir Putin in sé, ma Vladimir Putin in noi. O, meglio, gli ologrammi putiniani che, da qualche settimana, appaiono un po’ ovunque terrorizzando a morte i sinceri democratici. A sentire i giornali e i politici progressisti, infatti, il presidente russo è l’incarnazione più feroce e visibile del Male sulla Terra, un prisma di malignità demoniaca. Di fronte a tanto orrore, le mezze misure e le riflessioni non sono più concesse: o lo si odia o si è dalla sua parte. Come ha scritto ieri Massimo Recalcati, citando (probabilmente a sproposito) Pier Paolo Pasolini, le «anime belle del cazzo» devono rendersi conto che non è il momento delle sottigliezze o della ricerca della verità. Bisogna, in sostanza, sacrificare ogni lucidità alla lotta contro il mostro di Mosca.Ora, può persino darsi che tale atteggiamento abbia almeno alcune giustificazioni quando si discute del conflitto in Ucraina, che lascia sconvolti per la sua esplicita violenza. Il guaio, però, sta nel fatto che questa divisione binaria e priva di gradazioni, non è applicata solo nel contesto bellico. Detto in altre parole, a rendere Putin il Nemico Assoluto non è il suo attacco a Kiev: egli era considerato un super cattivo anche prima. Motivo? È nazionalista, non aderisce all’ordine liberale, si oppone duramente all’ideologia Lgbt, si è fatto portabandiera della Chiesa ortodossa… Insomma, egli (anche se ora viene paragonato a Stalin) ha tutte le caratteristiche del «fascista» che domina da tempo immemore l’immaginario progressista. Ed ecco il punto: in assenza di sfumature, chiunque si riconosca - anche solo in parte - nell’orizzonte ideologico tracciato da Putin molto prima della guerra, cioè in qualche forma di conservatorismo, viene trattato esattamente come Vladimir il Terribile. Anche se non ha inviato carri armati e non partecipa a guerre. Chi non accetta in toto l’ordine liberale è un nemico, ergo è identico al malefico russo. Lo dimostra ciò che hanno scritto i giornali (non soltanto italiani, vedi l’Economist) a proposito di Viktor Orbán. Hanno srotolato tutti gli stessi papiri: l’Ungheria continua a scegliere l’oscurità, si condanna all’isolamento in Europa e, ovviamente, è «amica di Putin»… Orbán ha stravinto le elezioni, non è un dittatore, anzi le sue politiche hanno parecchie venature liberali. Ma non importa: egli è sovranista, dunque fascista, dunque putiniano. Un altro esempio lampante è costituito da Marine Le Pen. Mentre i francesi si avviavano alle urne, e i sondaggi davano la «femme d’État» pronta a giocarsi il ballottaggio con Emmanuel Macron (il 24 aprile), i commentatori di mezza Europa e quelli italiani in particolare si stracciavano le vesti. Massimo Giannini ha intravisto gravi pericoli per le democrazie occidentali, La Repubblica ha annusato una Francia «allarmata» per l’avanzata dell’orda nera lepenista. «Marine Le Pen non ha mai nascosto di ammirare il satrapo di Mosca», ha insistito Aldo Cazzullo. La sintesi perfetta l’ha fornita Enrico Letta: «Se il 24 aprile vincesse la Le Pen sarebbe il più grande successo di Putin», ha tuonato. Come se una sconfitta di Marine in Francia garantisse automaticamente la vittoria dell’esercito ucraino.Capite bene, allora, che il problema qui non è Putin in quanto «aggressore dell’Ucraina», ma Putin in quanto disgustoso destrorso, ergo tutti i destrorsi e gli anti liberali (non è una offesa) sono a loro volta un problema. Essi sono tutti sovrapponibili al russo, sono dei criminali di guerra in potenza, o comunque dei criminali punto, perché sono le loro stesse idee ad essere criminali. Qualcuno ha già predetto che a causare problemi all’Europa, in futuro, sarà proprio Orbán, e poco importa se - nella realtà - sono quasi sempre i democratici atlantici a scatenare guerre, salvo poi appaltare ad altri i combattimenti (questa è esattamente la linea di Letta). Che le sinistre europee utilizzino questi toni dovrebbe suscitare molte riflessioni presso i capi delle destre italiane. Fratelli d’Italia e Lega hanno condannato l’atteggiamento russo. Giorgia Meloni si è mostrata convintamente atlantista, Matteo Salvini ha seguito la linea del Papa. Nel caso del leghista, tutto ciò non è bastato a levargli di dosso l’infamante accusa di essere uno scherano di Putin. Con Giorgia, invece, l’atteggiamento è stato diverso, più rispettoso (anche in virtù dei consensi che raccoglie). Attenzione, però, perché l’accusa di «putinismo» non dipende dai fatti concreti, bensì dalle proiezioni metafisiche. Tradotto: non si viene accusati in base alle realtà, ma in base a ciò che conviene ai cari democratici (come dimostra, sul versante opposto, lo sdoganamento dei battaglioni nazisti di Kiev). Se adesso la destra pro Ucraina viene tollerata, ciò non significa che domani verrà trattata da avversaria rispettabile, anzi. I polacchi che ora vengono blanditi quali fedeli alleati di Washington, quando diventeranno appena meno utili torneranno ad essere gli omofobi di sempre. A spaventare, di Marine Le Pen, non sono i legami con Putin, ma la possibilità che passi al ballottaggio. Allo stesso modo, la destra italiana diviene pericolosa non se sta con Putin, ma se esiste la possibilità che vinca rimanendo destra e non snaturandosi. Tocca rendersi conto che, di questi tempi, «putinismo» è solo un sinonimo di «fascismo» che fa tendenza. E la guerra che i progressisti intendono combattere non è pensata per finire con la sconfitta di Vlamidir, ma con la cancellazione di tutti i conservatori. Quelli veri, almeno.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Flaminia Camilletti
Charlie Kirk (Ansa)
Sposato con due figli, teneva incontri in cui sfidava il pubblico: «Provate che ho torto».
Donald Trump (Ansa)
Trump, anche lui vittima di un attentato, sottolinea la matrice politica dell’attacco che ha ucciso l’attivista. «La violenza arriva da chi ogni giorno demonizza e ostracizza coloro che la pensano diversamente».
Charlie Kirk (Getty Images)
L’assassinio negli Usa del giovane attivista conservatore mostra che certa cultura progressista, mentre lancia allarmi sulla tenuta della democrazia, è la prima a minarla. E intona il coretto del «se l’è cercata».