2020-06-20
Facebook scende in campo: censurato Trump
Dopo anni di retorica sulla libertà di espressione online, i giganti del Web gettano la maschera. Il re dei social oscura un post del tycoon con la scusa di un emoticon che ricorda un simbolo usato dai nazisti. E si allinea a Twitter, da mesi all'opposizione.Casa Bianca e Silicon Valley tornano ai ferri corti. Giovedì Facebook ha rimosso un annuncio, postato dal comitato elettorale di Donald Trump, con l'accusa che contenesse un simbolo nazista. Nel dettaglio, il post consisteva in una critica del movimento Antifa e presentava un triangolo rosso capovolto con bordo nero. Si tratta di un simbolo che storicamente è stato usato dai nazionalsocialisti per designare i prigionieri politici. «Abbiamo rimosso questi post e pubblicità per aver violato la nostra politica contro l'odio organizzato», ha dichiarato il colosso di Menlo Park. L'accusa è stata respinta dal comitato elettorale del presidente, secondo cui non solo quel simbolo è usato dagli stessi Antifa, ma comparirebbe anche tra le emoji di Facebook. Non dobbiamo trascurare che il movimento Antifa si presenti come destrutturato e decentralizzato. In questo contesto, se è vero che il triangolo non sia tra i simboli più usati, è altrettanto vero che alcuni attivisti lo abbiano comunque fatto proprio. Un elemento testimoniato non solo dai social network, ma ammesso anche dallo storico Mark Bray sul New York Times, il quale - pur criticando severamente Trump - ha riconosciuto che quel simbolo sia stato rivendicato da alcuni attivisti Antifa.Lo scontro con Facebook si è verificato dopo che, mercoledì scorso, il dipartimento di Giustizia americano aveva sollecitato delle riforme, volte a rendere maggiormente responsabili le piattaforme online per i contenuti che pubblicano. Nello stesso giorno, il senatore repubblicano Josh Hawley aveva tra l'altro introdotto un disegno di legge per contrastare la censura dei giganti del Web: una proposta in linea con un ordine esecutivo, siglato da Trump a fine maggio. All'epoca, il presidente aveva avuto un duro scontro con Twitter, che aveva segnalato come «infondato» un suo post in cui sosteneva che il voto postale fosse esposto al pericolo di brogli elettorali. A sostegno della propria tesi, il social citò degli articoli della Cnn e del Washington Post. Peccato però che le medesime preoccupazioni di Trump fossero state espresse nel 2005 dalla Commission on federal election reform (presieduta dall'ex presidente democratico Jimmy Carter) e, nell'ottobre 2012, dal New York Times. A essere malevoli, si potrebbe quindi pensare che Twitter, per le sue attività di fact checking, citi solo le fonti che si sposano con determinati preconcetti.Proprio questo episodio chiama quindi in causa l'effettiva imparzialità delle piattaforme nel giudicare quali debbano essere i contenuti da censurare. E getta conseguentemente una luce sinistra sul loro ruolo politico. Anche perché non sono esattamente chiari gli standard utilizzati per valutare l'incitamento all'odio. Pur mostrandosi particolarmente occhiuto verso i duri tweet di Trump contro i disordini delle ultime settimane, il social di Jack Dorsey non ha invece mosso un dito quando la deputata democratica Ilhan Omar ha pubblicato un post, difendendo l'abbattimento di una statua di Cristoforo Colombo in Minnesota. Qualcuno dovrebbe forse spiegare per quale ragione promuovere vandalismo e iconoclastia non debba considerarsi un incitamento all'odio. Perché, anche qualora lo scopo fosse nobile, il fine non dovrebbe giustificare i mezzi: almeno in democrazia. L'aspetto inquietante è quindi il potenziale doppiopesismo delle piattaforme online che, sotto il manto della neutralità, agiscono e selezionano contenuti secondo parametri quantomeno discutibili. Un problema che, a ben vedere, va al di là dei soli Stati Uniti. D'altronde, che i rapporti tra Trump e Twitter non siano idilliaci è testimoniato anche dal fatto che, giovedì, il social abbia segnalato come «manipolato» un video postato dal presidente.Ma i big tech non rappresentano certo l'unico problema per l'inquilino della Casa Bianca. Trump ha infatti messo in guardia da eventuali agitatori che si potrebbero presentare al suo comizio di oggi a Tulsa. E nuove grane sembrano provenire dalle anticipazioni del libro di John Bolton che, in uscita la prossima settimana, lancia dure accuse al Commander in chief. L'ex consigliere per la sicurezza nazionale ha infatti accusato Trump di aver concluso l'accordo commerciale con la Cina per fini elettorali. Ha sostenuto inoltre che avrebbe avuto luogo un do ut des con l'omologo ucraino, Volodymyr Zelensky, aggiungendo che il presidente avrebbe definito «figo» invadere il Venezuela. Qualcuno parla di rivelazioni esplosive. Le farraginosità tuttavia non mancano. In primo luogo, se anche Trump avesse chiesto a Xi Jinping di concludere l'accordo commerciale per mantenere l'appoggio degli agricoltori dell'Iowa, non si capisce dove sarebbe lo scandalo. Trump si candidò nel 2015, promettendo quell'intesa: gli si vuole quindi contestare di aver cercato di mantenere un impegno elettorale? In secondo luogo, la questione ucraina rischia di rivelarsi un boomerang. Nell'agosto 2019, Bolton rilasciò un'intervista in cui non evidenziò alcuna condotta controversa del presidente sul tema. E, soprattutto, il deputato dem Adam Schiff (regista dell'impeachment contro Trump) ha ricordato come Bolton si sia rifiutato di testimoniare alla Camera lo scorso autunno sulla questione ucraina. Per quale ragione? Infine il Venezuela. Il presidente si è sempre mostrato contrario a un intervento militare in loco. Come riportò il Washington Post a maggio 2019, chi premeva per quella soluzione era semmai proprio un notorio falco, come Bolton.