
«Senta signora, se è davvero così disperata tutto ciò che possiamo offrirle ora è la morte assistita». Non credeva alle proprie orecchie Christine Gauthier, canadese di 52 anni, quando si è sentita rispondere così alla richiesta di un montascale. Sì, perché la signora in questione è disabile o, meglio, tale è rimasta come veterana dell’esercito: nel 1989, a seguito di un grave incidente nel corso di un addestramento, ha riportato danni permanenti alle ginocchia e alla colonna vertebrale. Così è finita su una carrozzina anche se non si è affatto data per vinta dato che è riuscita a trovare significative occasioni di riscatto.
Per dire, nel 2016 ha gareggiato sia ai Giochi Paralimpici di Rio de Janeiro, sia agli Invictus Games del principe Harry, guadagnando l’oro nel canottaggio indoor e nel sollevamento pesi. Gauthier , dunque, tutto è fuorché una che si piange addosso. Eppure, anche una con la sua tempra è rimasta senza parole quando, per essersi lamentata dell’attesa per l’installazione del montascale a casa sua, si è sentita rispondere che la «dolce morte» era tutto quello che le poteva essere offerto. A rendere più grave l’affermazione, il fatto che fosse venuta non da un privato cittadino, bensì un assistente sociale del Vac, acronimo di Veterans affairs Canada.
La sconvolgente conversazione risale al 2019 ma è stata resa nota dalla Gauthier solo nei giorni scorsi, durante un’audizione in Parlamento. «Sono rimasta scioccata, della serie: “Dici sul serio? Intendi aiutarmi a morire ma non a vivere?”», ha riferito la donna ricostruendo il fatto. Come si può immaginare, la testimonianza dell’atleta paralimpica non è passata inosservata; anche perché si sarebbero verificati diversi altri casi simili - almeno quattro - tra gli assistiti del Vac. La questione è così ora sul tavolo di Lawrence MacAulay, il ministro competente, il cui portavoce ha fatto sapere che si sta prendendo questa faccenda «molto sul serio».
«I nostri dipendenti non hanno alcun ruolo o mandato per raccomandare la morte», ha dichiarato Erika Lashbrook Knutson, addetta stampa di MacAulay, aggiungendo che le considerazioni sulla «dolce morte» sono «oggetto dei confronti tra un paziente e i suoi responsabili delle cure primarie». Come dire: noi non c’entriamo. Sta di fatto che, però, a Gauthier è stato realmente consigliato di togliersi di mezzo. Sarà per questo che sulla faccenda si è sentito obbligato a intervenire il premier in persona, Justin Trudeau, il quale l’ha definita «assolutamente inaccettabile». Adesso sono in corso indagini per individuare quale assistente sociale del Vac si sia arrogato il diritto di suggerire la Maid - acronimo di Medical assistance in dying -, ma la sensazione è che episodi del genere siano solo la punta dell’iceberg, e che non riguardino soltanto i veterani dell’esercito.
Dopotutto, lo scorso anno in Canada i decessi assistiti sono stati oltre 10.000, 10.064 per la precisione. Considerando che la legalizzazione della «dolce morte» risale dal 2016, quando le morti assistite furono 1.086, significa che in appena cinque anni i casi sono aumentati di oltre l’800%. Come se non bastasse, nel Paese i decessi «on demand» vengono presentati come una formidabile occasione di risparmio per le casse dello Stato.
Eloquente, al riguardo, una stima di Aaron J. Trachtenberg e Braden Manns i quali, in uno studio pubblicato nel 2017 sul Canadian medical association journal, stimarono in ben 138 i milioni di dollari annui di risparmi ricavabili dal «diritto di morire». «Non intendiamo suggerire la morte assistita come misura di spending review», si erano premurati di scrivere nella loro ricerca Trachtenberg e Manns, ma è chiaro che, quando conteggi simili iniziano ad esser effettuati, già si instaura un clima di colpevolizzazione della persona disabile o malata.
Del resto, esistono già riscontri che vanno in questa direzione. Consultando le 40 pagine del rapporto della Commissione sul fine vita del Québec con cui sono stati esaminati i casi di persone che tra il 1°aprile 2018 e il 31 marzo 2019 hanno avuto accesso alla morte assistita, si scopre, per esempio, che in almeno tre casi «la diagnosi della persona» poi eliminata fosse «una frattura dell’anca».
Ora, in un Paese dove i decessi «a richiesta» crescono di anno in anno e dove già chi riporta una frattura rischia di sentirsi di troppo, si può ben capire come, per quanto scandaloso, quanto accaduto a Christine Gauthier non sia che la diretta conseguenza di una degenerazione più ampia. E pensare che da noi c’è ancora chi prova a raccontare l’eutanasia legale come fatto individuale, come una decisione che matura nella sfera privata e inaccessibile della persona colpita da atroci sofferenze. Una fandonia clamorosa che non la teoria, ma l’esperienza - peraltro non solo quella canadese ma anche di Olanda e Belgio, dove disavventure come e peggio di quella della Gauthier sono già avvenute - smaschera come tale.
Eppure sui grandi media la favola del «diritto di morire» come questione privata tiene banco. Chissà come mai. Di sicuro il fatto che se il macabro fenomeno dilaga si risparmino tanti quattrini non dispiacerà, anzi, ai fanatici della spending review.






