2023-04-22
L’eurorinascimento di Mattarella: sostituire gli italiani con gli «italici»
Sul «Corriere», il presidente contrappone l’identità europea a quelle degli Stati, per poi eleggere a modello culturale l’asse francotedesco. Annacquando il nostro nel nome dell’inclusione degli «aspiranti» connazionali.Non capita tutti i giorni che il presidente della Repubblica rilasci un’intervista. È successo ieri, con due pagine di risposte di Sergio Mattarella alle domande di Marzio Breda per il Corriere della Sera. La conversazione trae origine dall’avvio del «Festival du livre» di Parigi. Ma attenzione: sbaglierebbe chi pensasse a una mera intervista culturale: siamo invece in presenza di un intervento del capo dello Stato ad altissima intensità politica. E che tuttavia desta almeno tre ordini di perplessità. Il primo. Sarà per un omaggio agli organizzatori francesi, oppure sarà per le numerose citazioni di scrittori, filosofi e artisti tedeschi, ma la sensazione che si ricava è quella di una lunga riflessione su un asse francotedesco (chiamiamolo così) applicato pure alla cultura. Poi naturalmente Mattarella non cessa di fare ampi e costanti riferimenti alla letteratura e all’arte italiana. Ma - per così dire - pare quasi di leggere la trasposizione sul versante culturale della medesima idea che Mattarella e altri hanno da decenni rispetto al progetto europeo: c’è una locomotiva franco-tedesca alla quale gli altri vagoni devono agganciarsi. Ecco: se quello schema è già criticabile in sede politica, pare ancora meno accettabile sul terreno culturale. La seconda contestazione è anche più profonda e radicale. Dal titolo («Per un Rinascimento europeo partiamo dalla cultura») alle risposte più pregnanti («Leggere è condividere conoscenza e valori: così il continente rinsalda la sua unità»), l’impressione è quella non solo di una insistenza fortissima sull’integrazione Ue, ma addirittura sull’esigenza di una nuova identità europea distinta dalle identità nazionali. Anche qui il parallelismo con le note opinioni politiche di Mattarella è evidente: come sul terreno politico-istituzionale il capo dello Stato continua ad auspicare e prefigurare un’Unione beneficiaria di crescenti cessioni di sovranità da parte dei singoli stati, allo stesso modo qui sembra venir fuori una sorta di «homo europaeus», di creatura nuova distinta e distante rispetto alle radici nazionali. È questo che non convince affatto: né sul terreno politico, né su quello culturale. E sia consentito citare un modello totalmente alternativo, quello che fu mirabilmente illustrato da Margaret Thatcher nel discorso di Bruges del 1988: «L’Europa sarà più forte», disse la Lady di Ferro, «proprio perché ha la Francia in quanto Francia, la Spagna in quanto Spagna, la Gran Bretagna in quanto Gran Bretagna, ciascuno con i propri costumi, tradizioni e identità. Sarebbe follia cercare di costringerli in una sorta di identikit della personalità europea tipica». E ancora, sul modo in cui un’Europa rispettosa delle diversità avrebbe dovuto funzionare: «Deve essere un modo che preservi le diverse tradizioni, i poteri parlamentari e il senso di orgoglio nazionale nel proprio paese, perché queste sono state la fonte di vitalità dell’Europa attraverso i secoli». Come si vede, siamo all’opposto della visione di Mattarella e della palingenesi europea sognata dagli eurolirici. Non a caso, la Thatcher spiega bene le differenze tra la nascita degli Stati Uniti rispetto alla condizione dei nostri paesi: lì, al tempo dei Padri fondatori, che lasciavano la Gran Bretagna, l’orgoglio e la speranza stava - comprensibilmente - nel nuovo progetto e nell’essere americani; nel nostro caso, invece, l’orgoglio risiede nelle distinte tradizioni nazionali. La terza perplessità - tutt’altro che lieve - deriva dalla parte forse meno chiara dell’intervista di Mattarella. Rileggiamo questo passaggio: «Il modello di vita italiano fa sì che, dopo più di un secolo e mezzo di migrazioni nelle Americhe, in Australia e nell’Europa del Nord, accanto agli italiani di quarta e quinta generazione che rivestono ruoli significativi nei Paesi di approdo, si facciano strada tanti, tantissimi “aspiranti italiani”, che apprezzano la nostra cultura». Come li chiama Mattarella? «“Italici”: che alimentano quel soft power di cui c’è tanto bisogno in tempi di resipiscenza di violenze e aggressioni che riportano al secolo scorso». E qui occorre intendersi: se si tratta di celebrare come la cultura italiana abbia saputo germogliare anche altrove, grazie ai nostri connazionali all’estero, siamo naturalmente d’accordo; così come fa piacere il naturale e fortissimo potere di attrazione che la nostra identità esercita verso tanti non italiani. Ma quell’«italici» pronunciato dal presidente suona davvero male: sembra - non dispiaccia al capo dello Stato - l’equivalente del parmesan o degli altri prodotti Italian sounding che rappresentano più una contraffazione che una celebrazione del nostro made in Italy. Bene dunque se tanti vogliono - per così dire - «mangiare e bere italiano» anche sul piano culturale. Ma noi siamo quelli dei prodotti originali (del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano), di un’identità unica e irripetibile in ogni senso, non quelli del parmesan, ovvero - fuor di metafora gastronomica - di un’italianità vaga, imitata, acquisita solo in piccola parte. Sarà bene tenerlo a mente anche occupandoci di dossier politicissimi come la gestione dell’immigrazione e i nostri rapporti con Bruxelles.
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