Grazie a euro e salari bassi Berlino è la Cina d’Europa. Ma il modello è al capolinea
«La Germania ha sia un significativo surplus commerciale bilaterale con gli Stati Uniti sia un surplus sostanziale delle partite correnti. Ciò rappresenta un notevole eccesso di risparmio, oltre l’8% del Pil, che potrebbe, almeno in parte, essere utilizzato per sostenere la domanda interna, contribuendo notevolmente al riequilibrio dell’area dell’euro e globale». Questa nota appariva a pagina 30 del report scritto per il Congresso Usa dal Dipartimento del Tesoro americano per gli affari internazionali il 29 aprile 2016. Si stava chiudendo l’era Obama, e solo tre mesi dopo Donald Trump avrebbe ottenuto la nomination repubblicana nella sua prima corsa alla Casa Bianca: eppure il surplus di Berlino, accanto a quello cinese, era già «il» problema macroeconomico principale agli occhi di Washington.
Un problema in crescita da anni, come mostra il grafico qui a fianco. Non a caso, è nel 2015 che parte il primo grande «siluro» americano contro la Germania che va sotto il nome di Dieselgate: l’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente (Epa) in settembre notifica a Volkswagen l’accusa di aver violato il Clean air act manipolando i test sui motori. Il conto finale sarà in decine di miliardi, e porterà al macroscopico tentativo di convertire l’industria automobilistica tedesca all’elettrico «europeizzando» i costi.
Ma da dove sorge questo maxi squilibrio che rende la Germania - e con essa l’area euro - un «buco» di domanda mondiale creato dalla eccessiva differenza tra introiti da esportazioni e spese per importazioni? Il surplus immenso è il dividendo dello stesso «modello tedesco», a cui difesa è stata schierata per lustri l’intera politica economica dell’eurozona: efficientamento dei costi, dumping socioeconomico e monetario nei confronti dei vicini, vocazione estrema all’export, freno al debito e bassi investimenti. Un mix oggi in piena crisi, e i cui cocci Friedrich Merz sta tentando di ricomporre ribaltandone alcuni dogmi fondativi, a partire dal rigore dei conti pubblici.
Alle origini di quel modello c’è anzitutto la moneta unica: non a caso è dalla sua introduzione che il surplus inizia a volare. Romano Prodi, quando rispondeva ancora alle domande, nel 2011 disse così a una studentessa greca che lo interrogava su La7 sul futuro della moneta unica nel pieno della crisi dei debiti: «La Germania è di gran lunga il Paese più potente d’Europa grazie all’euro. Berlino non ha mai potuto accumulare surplus, ma nell’ultimo anno ha appena fatto 200 miliardi di surplus. La vera Cina oggi è la Germania. La comunità degli affari tedesca non ha nessuna intenzione di abbandonare l’euro».
Un altro fattore imprescindibile della genesi del surplus è l’ulteriore vantaggio competitivo - oltre a quello di una moneta che impediva strutturalmente la rivalutazione del marco - dato dalla repressione salariale disposta socializzando i costi all’inizio degli «anni zero». Mentre sotto il governo Schröder vengono implementate le riforme Hartz (dal nome del capo delle risorse umane di Volkswagen che corrompeva i sindacati e faceva pagare prostitute all’azienda), infatti, il rapporto deficit/Pil fa registrare il 3,1% (2001), 3,9% (2002), 4,2% (2003), 3,7% (2004), nel 3,4% (2005). La cifra incorpora i massicci aiuti all’industria sotto forma di sussidi di disoccupazione e parcellizzazione del lavoro («mini-jobs») che mantengono molto moderati gli stipendi. Nei primi dieci anni del nuovo millennio, infatti, i salari reali tedeschi calano circa del 5%: dato spesso sottovalutato nella narrativa sulla presunta «locomotiva» dell’eurozona.
Sono gli anni che preparano il terreno al regno merkeliano, la cui immagine più sintetica resta forse quella dell’8 novembre 2011: la cancelliera, il suo predecessore Gerhard Schröder l’omologo francese François Fillon, l’attuale segretario Nato Mark Rutte, il commissario Ue all’Energia Günther Öttinger e un certo Dmitri Medvedev, presidente russo, ruotano tutti insieme sorridendo una grossa manovella, simbolo dell’apertura del gasdotto Nordstream. La «benzina» a basso costo del motore dell’industria tedesca si riversa nel Continente e contribuisce ancora a gonfiare il surplus tedesco.
Nel frattempo, attorno a Berlino accade ciò che Mario Draghi ha spiegato nel 2024 (ma non mentre stava accadendo): «Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale». Il mix di regole fiscali e necessità di adeguarsi al modello tedesco si scarica sui Paesi dell’eurozona mentre Berlino iniziare a mostrare i primi segni di insostenibilità di medio termine. Come spiegato su queste pagine da Tobia De Stefano, i parametri Ue prevedono - dal 2011 - di non superare il 6% di surplus su Pil: Berlino inanella senza alcuna conseguenza il 6,4% (2012), 6,6% (2013), 7% (2014), 7,4% (2015), 8,1% (2016). Il 2016 è l’anno in cui la Germania diventa il Paese mondiale col più alto avanzo di partite correnti al mondo: 297 miliardi di surplus contro i 245 di Pechino. Quote di mercato sottratte, grazie ai meccanismi citati, agli Usa e agli altri Paesi Ue. Appena esce il dato - siamo a fine gennaio 2017 - Peter Navarro, numero uno del Consiglio nazionale per il commercio sotto il primo Trump, va all’assalto: «La Germania sta usando un euro esageratamente sottovalutato per approfittarsi degli Stati Uniti e dei suoi partner europei, perché la Germania sfrutta un marco implicito svalutato». Siamo ancora lì, ma tra le macerie di un modello che ha impoverito quasi tutti.






