2025-03-27
Il Paese ha puntato tutto sull’export e su riforme, finanziate dagli europei, che hanno tagliato le retribuzioni. Una linea criticata pure dall’amministrazione Obama.«La Germania ha sia un significativo surplus commerciale bilaterale con gli Stati Uniti sia un surplus sostanziale delle partite correnti. Ciò rappresenta un notevole eccesso di risparmio, oltre l’8% del Pil, che potrebbe, almeno in parte, essere utilizzato per sostenere la domanda interna, contribuendo notevolmente al riequilibrio dell’area dell’euro e globale». Questa nota appariva a pagina 30 del report scritto per il Congresso Usa dal Dipartimento del Tesoro americano per gli affari internazionali il 29 aprile 2016. Si stava chiudendo l’era Obama, e solo tre mesi dopo Donald Trump avrebbe ottenuto la nomination repubblicana nella sua prima corsa alla Casa Bianca: eppure il surplus di Berlino, accanto a quello cinese, era già «il» problema macroeconomico principale agli occhi di Washington. Un problema in crescita da anni, come mostra il grafico qui a fianco. Non a caso, è nel 2015 che parte il primo grande «siluro» americano contro la Germania che va sotto il nome di Dieselgate: l’Agenzia Usa per la protezione dell’ambiente (Epa) in settembre notifica a Volkswagen l’accusa di aver violato il Clean air act manipolando i test sui motori. Il conto finale sarà in decine di miliardi, e porterà al macroscopico tentativo di convertire l’industria automobilistica tedesca all’elettrico «europeizzando» i costi.Ma da dove sorge questo maxi squilibrio che rende la Germania - e con essa l’area euro - un «buco» di domanda mondiale creato dalla eccessiva differenza tra introiti da esportazioni e spese per importazioni? Il surplus immenso è il dividendo dello stesso «modello tedesco», a cui difesa è stata schierata per lustri l’intera politica economica dell’eurozona: efficientamento dei costi, dumping socioeconomico e monetario nei confronti dei vicini, vocazione estrema all’export, freno al debito e bassi investimenti. Un mix oggi in piena crisi, e i cui cocci Friedrich Merz sta tentando di ricomporre ribaltandone alcuni dogmi fondativi, a partire dal rigore dei conti pubblici.Alle origini di quel modello c’è anzitutto la moneta unica: non a caso è dalla sua introduzione che il surplus inizia a volare. Romano Prodi, quando rispondeva ancora alle domande, nel 2011 disse così a una studentessa greca che lo interrogava su La7 sul futuro della moneta unica nel pieno della crisi dei debiti: «La Germania è di gran lunga il Paese più potente d’Europa grazie all’euro. Berlino non ha mai potuto accumulare surplus, ma nell’ultimo anno ha appena fatto 200 miliardi di surplus. La vera Cina oggi è la Germania. La comunità degli affari tedesca non ha nessuna intenzione di abbandonare l’euro».Un altro fattore imprescindibile della genesi del surplus è l’ulteriore vantaggio competitivo - oltre a quello di una moneta che impediva strutturalmente la rivalutazione del marco - dato dalla repressione salariale disposta socializzando i costi all’inizio degli «anni zero». Mentre sotto il governo Schröder vengono implementate le riforme Hartz (dal nome del capo delle risorse umane di Volkswagen che corrompeva i sindacati e faceva pagare prostitute all’azienda), infatti, il rapporto deficit/Pil fa registrare il 3,1% (2001), 3,9% (2002), 4,2% (2003), 3,7% (2004), nel 3,4% (2005). La cifra incorpora i massicci aiuti all’industria sotto forma di sussidi di disoccupazione e parcellizzazione del lavoro («mini-jobs») che mantengono molto moderati gli stipendi. Nei primi dieci anni del nuovo millennio, infatti, i salari reali tedeschi calano circa del 5%: dato spesso sottovalutato nella narrativa sulla presunta «locomotiva» dell’eurozona.Sono gli anni che preparano il terreno al regno merkeliano, la cui immagine più sintetica resta forse quella dell’8 novembre 2011: la cancelliera, il suo predecessore Gerhard Schröder l’omologo francese François Fillon, l’attuale segretario Nato Mark Rutte, il commissario Ue all’Energia Günther Öttinger e un certo Dmitri Medvedev, presidente russo, ruotano tutti insieme sorridendo una grossa manovella, simbolo dell’apertura del gasdotto Nordstream. La «benzina» a basso costo del motore dell’industria tedesca si riversa nel Continente e contribuisce ancora a gonfiare il surplus tedesco. Nel frattempo, attorno a Berlino accade ciò che Mario Draghi ha spiegato nel 2024 (ma non mentre stava accadendo): «Abbiamo perseguito una strategia deliberata volta a ridurre i costi salariali gli uni rispetto agli altri e, combinando ciò con una politica fiscale prociclica, l’effetto netto è stato solo quello di indebolire la nostra domanda interna e minare il nostro modello sociale». Il mix di regole fiscali e necessità di adeguarsi al modello tedesco si scarica sui Paesi dell’eurozona mentre Berlino iniziare a mostrare i primi segni di insostenibilità di medio termine. Come spiegato su queste pagine da Tobia De Stefano, i parametri Ue prevedono - dal 2011 - di non superare il 6% di surplus su Pil: Berlino inanella senza alcuna conseguenza il 6,4% (2012), 6,6% (2013), 7% (2014), 7,4% (2015), 8,1% (2016). Il 2016 è l’anno in cui la Germania diventa il Paese mondiale col più alto avanzo di partite correnti al mondo: 297 miliardi di surplus contro i 245 di Pechino. Quote di mercato sottratte, grazie ai meccanismi citati, agli Usa e agli altri Paesi Ue. Appena esce il dato - siamo a fine gennaio 2017 - Peter Navarro, numero uno del Consiglio nazionale per il commercio sotto il primo Trump, va all’assalto: «La Germania sta usando un euro esageratamente sottovalutato per approfittarsi degli Stati Uniti e dei suoi partner europei, perché la Germania sfrutta un marco implicito svalutato». Siamo ancora lì, ma tra le macerie di un modello che ha impoverito quasi tutti.
La poetessa russa Anna Achmatova. Nel riquadro il libro di Paolo Nori Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (Getty Images)
Nel suo ultimo libro Paolo Nori, le cui lezioni su Dostoevskij furono oggetto di una grottesca polemica, esalta i grandi della letteratura: se hanno sconfitto la censura sovietica, figuriamoci i ridicoli epigoni di casa nostra.
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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